Importanti Dipinti Antichi

16 APRILE 2014

Importanti Dipinti Antichi

Asta, 0039Part 1
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
ore 15.30
Esposizione

FIRENZE
dal 11 al 14 aprile 2014
orario 10-13 / 14– 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   700 € - 100000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 165
66

Adriaen van Utrecht

(Anversa 1599-1652)

INTERNO DI CUCINA CON FRUTTA, ORTAGGI, SELVAGGINA E AMANTI

olio su tela, cm 143,5x215

firmato e datato “A•VAN•VTRECHT•AN° 1631” in basso al centro sul piano d’appoggio

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Adriaen van Utrecht, dopo aver effettuato il suo apprendistato ad Anversa, effettuò soggiorni in Francia, Germania ed Italia e a partire dal 1625 ritornò ad Anversa dove entrò a far parte della gilda di San Luca.

Nel corso della sua carriera van Utrecht strinse stretti rapporti con molti artisti fiamminghi del suo tempo: sua moglie era la pittrice Constance van Nieulant, figlia di Willem van Nieuland, artista attivo all’inizio del Seicento a Roma. Van Utrecht fu molto apprezzato tra i suoi contemporanei; tra i suoi committenti si ricordano Filippo IV di Spagna, le corti tedesche, austriache e collezionisti italiani.

Adriaen van Utrecht era specializzato nell’esecuzione di ricche nature morte con cacciagione, frutta e verdure di varie dimensioni; secondo la tradizione fiamminga degli ‘interni di cucine’. Il dipinto qui proposto, esemplificativo del genere accurato e descrittivo delle opere dell’artista, costituisce la versione originale, firmata e datata, di altre simili composizioni non autografe già note.

Spesso per l’esecuzione di simili rappresentazioni van Utrecht si avvaleva per le figure della collaborazione di altri artisti quali Jan van der Venne e Theodoor Rombouts e per il nostro dipinto potremmo ipotizzare l’intervento di Jan Cossiers.

Queste Cucine prevedevano talvolta l’inserimento di figure in linea con le analoghe composizioni di Frans Snyders e di Jan Fyt, in cui probabilmente si possono ancora rintracciare significati allegorici che caratterizzano la tradizione delle Cucine nordiche del Cinquecento anche se nelle nature morte di van Utrecht sembra dominare il senso di abbondanza e di benessere.

Tra le varie composizioni di analogo soggetto si segnala una versione conservata presso la National Historical Society di New York (NYHS 1857.7) ed altre due copie del dipinto da noi presentato: una passata sul mercato antiquario londinese nel 2012 (olio su tela, cm 151x210) e una su quello parigino nel 2006 (olio su tela, cm 150x230).

Stima   € 50.000 / 70.000
98

Antonio Joli

(Modena 1700-Napoli 1777)

ALESSANDRO VISITA LA TOMBA DI ACHILLE

olio su tela, cm 70x91,5

 

Provenienza: Galleria Concha Barrios, Madrid;

collezione privata

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

L’inedito dipinto qui presentato costituisce una versione ulteriore e variata di un tema altre volte affrontato da Antonio Joli, certo in relazione alla sua attività di scenografo. Già nel 1736, infatti, l’artista modenese aveva fornito i disegni per un’opera su libretto di Pietro Metastasio  dedicata ad Alessandro e rappresentata a Venezia, mentre nel 1768 e nel 1774 curò le scene di “Alessandro nelle Indie” per il San Carlo di Napoli.

E’ probabilmente questa esperienza a suggerire la grandiosa prospettiva “all’antica”, vero “atrio magnifico” ornato da rilievi e sculture e qualificato da un monumento equestre in cui, in una tela di imponenti dimensioni ora in Scozia (Paisley Museum and Art Galleries) Antonio Joli codifica in maniera definitiva la rappresentazione di un tema altre volte affrontato con prevalenza delle figure sullo spazio circostante (R. Toledano, Antonio Joli. Modena 1700-1777 Napoli, Torino 2006, p. 95 C.V.3).

Il nostro è appunto una replica di quel dipinto, di cui ripropone la composizione con dimensioni più contenute e alcune varianti nelle figure e negli ornati architettonici.

Considerazioni di ordine stilistico, e soprattutto la raffinata qualità pittorica suggeriscono di riferire l’opera alla maturità del pittore modenese e più precisamente al suo secondo periodo napoletano dopo il 1762 quando, in qualità di scenografo reale, Joli fu responsabile degli spettacoli teatrali e delle cerimonie pubbliche della corte, oltre che della loro rappresentazione ad uso delle corti europee.

Un tempo sul mercato antiquario internazionale come opera di Giovanni Paolo Panini, il nostro dipinto si lega in effetti a due ulteriori repliche in collezione privata pubblicate da Ferdinando Arisi come opera dell’artista piacentino (Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del 700, Roma 1986, p. 243, nn. 53-54) ma giustamente ricondotte da Ralph Toledano al catalogo di Antonio Joli, insieme a una terza composizione che utilizza la grandiosa scenografia dell’“atrio regio” per una semplice scena di conversazione (F. Arisi 1986, cit., p. 242, n. 52).

Al Panini si deve tuttavia l’invenzione di questo soggetto, che nel 1719 costituì la sua “pièce de réception” alla romana Accademia di San Luca e che si lega idealmente al Marco Curzio si getta nella voragine di fuoco: entrambi documenti di quel riferirsi all’Antico per i suoi valori ideali ancor prima che per i canoni estetici che caratterizza il Settecento romano trovando espressione compiuta nella prima età Neoclassica.

 

Ringraziamo Ralph Toledano per le preziose indicazioni utili alla redazione della scheda da noi curata.

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
101

Anton Raphael Mengs

(Aussig 1728-Roma 1779)

RITRATTO DI WILHELM FREIHERR VON EDELSHEIM (1737-1793)

1771-1772

pastello su carta riportata su tela, cm 44,5x34

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

L’opera è accompagnata da parere scritto di Steffi Roettgen

 

“Il ritratto qui presentato finora ignoto alla bibliografia mengsiana e non menzionato dalle fonti relative alla sua opera, proviene dalla collezione di un prestigioso casato fiorentino dove si era persa la conoscenza della sua paternità e dell’identità del personaggio raffigurato. Partendo dal confronto con il ritratto di Edelsheim, acquistato nel 1957 dagli eredi dell’effigiato per la Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe, è pertanto ora possibile identificare il nostro pastello come modello preparatorio per il dipinto di Karsruhe e accertarne senza dubbio l’autografia di Mengs.

A confermare la paternità di Mengs sono la posa e i particolari del vestito e il fondo schiarito come una specie di aura intorno alla figura che corrispondono al ritratto ad olio, ma sono resi con una tale leggerezza e sicurezza da escludere definitivamente che si tratti di una derivazione dal ritratto di Karlsruhe. Il ductus e la maestria esecutiva dimostrano come - rispetto ai pastelli giovanili di Dresda (1744-1745) - l’artista nel tempo avesse maturato la sua abilità tecnica. Ciò era certamente anche dovuto alla diversa funzione del pastello che nel nostro caso costituisce uno "studio dal vivo" che ritrae il personaggio già nella posa e nell’abito previsto per il ritratto definitivo, ma in maniera più sciolta e ravvicinata.

L’uso di un taglio diverso rispetto alla tela di Karlsruhe conferisce al nostro pastello un’immediatezza d’espressione.

Nell’opera di Mengs il formato, limitato al busto e alle spalle, allora denominato “testa”, è esclusivamente riservato allo “studio dal vivo” su cui si basa poi l’esecuzione del ritratto definitivo. Giacché la tecnica del pastello permette una veloce e immediata registrazione dei tratti visivi, esso, infatti, si presta in modo particolare per lo studio dal vivo. Ciò nonostante la maggior parte di tali studi noti dell’opera di Mengs sono eseguiti ad olio. La perdita di altri ritratti a pastello (cfr. Roettgen 1999. cat. 138) è probabilmente dovuta alla fragilità del materiale. Perciò il ritratto a pastello del barone Edelsheim rappresenta un’aggiunta di singolare importanza al catalogo dei pastelli mengsiani.

Dopo i suoi studi universitari a Gottinga Wilhelm von Edelsheim nativo da Hanau era entrato nel 1758 al servizio del margravio Karl Friedrich di Baden-Durlach con l’incarico di seguire le cause giuridiche pendenti al Reichskammergericht di Wetzlar. Grazie alla sua abilità diplomatica fu inviato nel 1761 alla corte prussiana per pianificare la futura pace dopo la Guerra dei Sette Anni (1756-1763). Dal 1767 al 1769 svolse una missione diplomatica alla corte di Vienna in seguito alla quale approdò a Firenze alla fine del gennaio del 1771. Nonostante il suo breve soggiorno fiorentino - fino al 6 febbraio- ebbe modo di stringere un amichevole contatto con Mengs che vi si trovava già da sette mesi. In una lettera alla margravia Karoline Luisa von Baden del 5 febbraio 1771 Edelsheim fa riferimento a Mengs, allora impegnato con i ritratti della famiglia granducale. Edelsheim considerava questo incontro con Mengs come “une desrencontresles plus heureuses” (cfr. Krebs 1951). Anche durante il suo soggiorno romano Edelsheim rimase in stretto rapporto con Mengs il quale - appena eletto Principe dell’Accademia di San Luca - propose di nominarlo Accademico d’onore. Certamente sia il ritratto di Karlsruhe dipinto su tavola sia il nostro pastello eseguito come studio preparatorio per il dipinto furono eseguiti a Roma durante questo periodo. Dopo il suo congedo da Roma, Edelsheim- tramite una missiva a Reiffenstein- si rivolse all’Accademia di San Luca proponendo di donare un busto di Mengs in bronzo all’Accademia, idea respinta però categoricamente dal pittore (lettera di Reiffenstein 11 luglio 1773, cfr. Roettgen 2003, pp. 548-549). Non è da escludere che questo gesto voleva essere anche un segno di gratitudine per il ritratto e alcuni disegni e cartoni di Mengs che Edelsheim portò con sé a Karlsruhe (cfr. Roettgen 1999, cat. 107, p. 108). Tornato a Karlsruhe come ministro del margravio di Baden Edelsheim svolse un ruolo importante nella sua patria sia in politica come anche culturalmente”.

 

Bibliografia di riferimento: M. Krebs, Wilhelm von Edelsheim in Italien (1770-1772). Reisebriefe an die Markgräfin Karoline von Baden, in Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins 99, 1951, pp. 250-253;  S. Roettgen, Anton Raphael Mengs 1728-1779. Das malerische und zeichnerische Werk, München 1999; S. Roettgen, Anton Raphael Mengs 1728-1779. Leben und Wirken, München 2003.

Stima   € 25.000 / 35.000
69

Astolfo Petrazzi

(Siena 1580-1653)

CUCINIERA CON GARZONE, CACCIAGIONE, FRUTTA, VEGETALI E UN PESCE

CUCINIERA CON FIGURA VIRILE, SELVAGGINA, CARNI E SALUMI

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 114x168; cm 108,5x161,5

(2)

 

Bibliografia: E. Avanzati, Astolfo Petrazzi, in La natura morta in Italia, a cura di F. Zeri, Milano 1989, II, p. 541, fig. 644 p. 542; E. Avanzati, Astolfo Petrazzi e la natura morta a Siena nella prima metà del Seicento, catalogo della mostra a cura di Pierluigi Carofano, Pisa 2005, pp. CCXV-CCXXVI fig. 7; M. Ciampolini, Astolfo Petrazzi, in Pittori senesi del Seicento, II, Siena 2010, pp. 573, 579.

 

Le opere qui presentate, da considerarsi esemplificative e caratteristiche del genere degli interni di cucine eseguiti da Astolfo Petrazzi, sono provenienti da una nobile dimora senese e collocabili alla fine del quarto decennio del Seicento. Il primo dipinto raffigurante Cuciniera con garzone, cacciagione, frutta, vegetali e un pesce risulta già noto alla critica attraverso i contributi di Elisabetta Avanzati (1989 e 2005) e pubblicato in pendant con quello raffigurante Cuciniera con cacciagione, frutta e vegetali, in origine proveniente probabilmente anch’esso dalla medesima raccolta e successivamente passato in collezione privata fiorentina (Avanzati 1989, II, fig. 645 p. 543). Risulta invece inedito l’altro dipinto che qui presentiamo raffigurante Cuciniera con figura virile, selvaggina, carni e salumi.

Astolfo Petrazzi, figura centrale della pittura senese, oltre alle sue numerose opere di destinazione pubblica svolse, come testimoniano le fonti, una vasta attività per i committenti privati che comprendeva anche molte tele raffiguranti nature morte. Tali opere di destinazione privata costituiscono una parte importante della produzione dell’artista che raggiunse un indiscusso primato a Siena in questo genere.

Questa sorta di specializzazione, che lo rendeva noto anche fuori città, è documentata da una lettera del principe Mattias de’ Medici inviata da Siena il 15 maggio 1630 al fratello Giovan Carlo, dalla quale risulta che quest’ultimo aveva ordinato due quadri con strumenti musicali proprio ad Astolfo, definito artista di genere superiore persino a Rutilio Manetti. I dipinti con figure e brani di natura morta, eseguiti dal pittore e collocabili tra il secondo e il quinto decennio del Seicento, ci danno pertanto conferma della notizia documentaria sopracitata e accertano lo svolgersi di questa particolare attività di Petrazzi in parallelo a quella delle commissioni pubbliche.

Una lettera di Giulio Mancini informa della presenza del pittore a Roma nel 1619 dove il suo soggiorno è attestato con continuità fino al 1622, proseguito probabilmente secondo le fonti fino all’inizio del decennio successivo. Il periodo romano fu importante per lo sviluppo artistico di Petrazzi che da un lato si interessò alle programmatiche descrizioni del reale proprie del naturalismo, realizzando opere come la Suonatrice di liuto, dall’altro fu influenzato dagli allestimenti di merende rustiche e tavole imbandite con l’intento di presentazione attraente del cibo, tipiche della produzione fiamminga, nonché di quella padana ravvisabili ad esempio nelle opere di Vincenzo Campi e di Bartolomeo Passerotti. Fra i pittori romani che ispirarono maggiormente Petrazzi per le sue composizioni si ricordano Tommaso Salini, Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci e il Maestro Acquavella. La notevole considerazione raggiunta dal pittore è testimoniata dalla sua ammissione ad una riunione dell’Accademia di San Luca del 26 giugno 1626, presieduta da Simon Vouet e alla quale parteciparono numerosi artisti di spicco tra cui Orazio Riminaldi, Giovanni Baglione e Théophile Bigot.

Aspetto non trascurabile per lo sviluppo del collezionismo di nature morte in Toscana è costituito dalla richiesta, a partire dal secondo decennio del Seicento, da parte di Cosimo II di tele con nature morte fatte spedire a Firenze da Roma. Alla luce di ciò trova ragione l'inizio, in età ormai tarda, della produzione di quadri di genere da parte di Jacopo da Empoli a cui Petrazzi guardò soprattutto per la rappresentazione degli animali appesi in bell’ordine o collocati sulla tavola. Rispetto tuttavia agli esempi empoleschi il pittore senese operò una più libera disposizione degli animali e dei vegetali, meno simmetrica e regolare, dando un taglio più naturale alle scene e realizzando composizioni più articolate e ricche.

 

I due dipinti qui presentati riflettono pienamente i vari riferimenti attinti dal pittore dalla cultura artistica nordica, sia fiamminga che padana, coniugata agli esempi della pittura morta romana e di quella toscana.

La giovane cuciniera del primo dipinto qui proposto viene raffigurata intenta a preparare il pesce su una tavola con frutta e ortaggi, assistita da un giovane garzone, all’interno di una ricca dispensa nella quale sono appesi selvaggina e pollami. Sulla destra vengono raffigurati i commensali che si apprestano a consumare le pietanze appena preparate, quasi memorie anche nella rappresentazione della piattaia della cultura artistica nordica e dei Bassano, sullo sfondo uno scorcio di paesaggio con borgo. Come in tutte le opere di questo genere ricorre il medesimo taglio compositivo con le figure a mezzo busto e il sottostante tavolo che delimita la parte inferiore del dipinto, impostazione che ritroviamo quindi sia nel pendant sopracitato di collezione privata fiorentina sia nel secondo dipinto qui proposto in vendita raffigurante Cuciniera con figura virile, selvaggina, carni e salumi.

In quest’ultima opera che rappresenta un momento successivo a quello della preparazione del pasto viene raffigurata una giovane cuoca che lava i piatti con accanto una figura maschile intenta a mescere il vino, sul piano di lavoro sono disposti in bella mostra salumi, ortaggi, frutti di bosco, pane, carni e alle pareti della cucina selvaggina appesa. Anche nella presente tela si scorge uno sfondo di paesaggio allusivo ad una ambiguità tra interno ed esterno che si richiama alla tradizione della pittura veneta. Nelle due composizioni l’attenzione non è rivolta puramente agli oggetti ma anche all’ambiente e alle figure umane in azione che conferiscono un tono narrativo alla scena.

Stima   € 50.000 / 70.000
31

Attribuito a Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano

(Volterra 1611-Firenze 1690)

CRISTO CORONATO DI SPINE

olio su tela, cm 66x51

sul retro iscritto: "Venuta da Firenze dalla Casa del Signor Principe Don Giulio Cesare Rospigliosi nel 1845" e "Venuto da Firenze dalla Casa del Signor Principe nel 1845"

 

Provenienza: collezione Rospigliosi, Firenze;

collezione Rospigliosi, Roma;

vendita Rospigliosi 14 dicembre 1932, lotto 135, Roma;

collezione privata, Firenze;

Christie’s Milano, asta 26 novembre 2009, lotto 57

 

Bibliografia: Catalogo della raccolta di quadri…. che arredava l’appartamento di S.E. il Principe Don Gerolamo Rospigliosi… che sarà venduta all’asta nel Palazzo Rospigliosi in Roma… da lunedi 12 a sabato 24 dicembre 1932…., riprodotto in A. Negro, Paesaggio e figura. Nuove ricerche sulla Collezione Rospigliosi, Roma 2000, p. 147, n. 135.

 

Opera notificata con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Milano, 2 maggio 2012

 

Inventariato nel 1856 da Tommaso Minardi come opera “della figlia di Carlo Dolci”, ovvero Agnese, (cfr. A. Negro, La Collezione Rospigliosi, Roma 1999, p. 348, n. 4), e posto in vendita nel 1932 con un’attribuzione al maestro fiorentino, il dipinto qui offerto sembra piuttosto riconducibile al catalogo del Volterrano in virtù di puntuali riscontri con sue opere documentate.

Si veda in particolare il Cristo coronato di spine, raffigurato nell’atto di indicare (come il nostro) la piaga del costato, entrato nel 1685 nella raccolta del Gran Principe Ferdinando e identificato da Marco Chiarini nei depositi delle Gallerie fiorentine (Gli “Ecce Homo” di Baldassarre Franceschini, il Volterrano, in “Arte Cristiana” 73, 1985, p. 195 e fig. 5). Il nostro dipinto è inoltre da mettere in relazione con il disegno a inchiostro in asta a Londra (Sotheby’s, 3 luglio 1980) nell’ambito di una serie di fogli dell’artista toscano (Charles Mc Corquodale, Drawings by Baldassarre Franceschini called Volterrano, Londra 1980, p. 48, n. 61 a-b), nuovamente analizzato da Marco Chiarini. La linea ovale che nel disegno incornicia la figura ha suggerito allo studioso di collegarlo al dipinto di tale formato ricordato dal Baldinucci come eseguito dal Volterrano per il marchese Gondi, e tuttora esistente nella collezione.

Ignota è invece l’origine del nostro dipinto, verosimilmente acquistato da Giuseppe Rospigliosi (1755-1833), a Firenze dal 1792, ed ereditato dal figlio Giulio che trasferì a Roma la raccolta paterna.

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
73

Attribuito ad Abraham Brueghel (Anversa 1631-Napoli 1697) e artista napoletano del XVII secolo

FIGURA FEMMINILE CON COMPOSIZIONE DI FRUTTA E FIORI SU UNO SFONDO DI PAESAGGIO

olio su tela, cm 99,5x99,5

 

Provenienza: collezione privata, Parma

 

Si deve ad Abraham Brueghel, trasferitosi a Napoli nel 1675 dopo un soggiorno romano durato circa quindici anni, la diffusione nella capitale del Regno di nuovi modelli compositivi per la natura morta che in breve valsero a trasformare in senso decorativo e barocco un genere che fino a quel momento aveva serbato l’impronta fortemente realistica che ne aveva segnato le origini.

E’ appunto con Brueghel, infatti, che le “mostre” di frutta autunnale ed estiva, ora accompagnate da fiori variopinti raccolti in vasi o intrecciati in festoni e ghirlande si dispongono all’aperto, sugli sfondi di paesaggio o di giardino che fin dalla metà del secolo avevano caratterizzato le composizioni romane. Per la prima volta, figure femminili di altra mano intervengono a conferire un senso narrativo o allegorico alla composizione. Se a Roma Brueghel aveva spesso lavorato con Guglielmo Cortese, a Napoli sembra muoversi in contiguità con il giovane Francesco Solimena, in città dal 1674. Alla loro collaborazione spettano ad esempio le splendide scene di giardino a Genova in palazzo Pallavicino, databili nei primi anni Ottanta e ampiamente replicate a dimostrazione del successo incontrato presso i collezionisti napoletani (cfr. L. Trezzani, in Il Palazzo Pallavicino e le sue raccolte, a cura di P. Boccardo e A. Orlando, Torino 2009, pp. 118-19, I 8).

La composizione di frutta e fiori del dipinto qui proposto po’ essere messa in relazione con opere napoletane del pittore fiammingo quali la tela firmata e datata 1675 e quella in collezione Astarita, sebbene mostri una qualità esecutiva leggermente più contenuta, mentre acquista invece particolare rilievo la figura femminile che si volge, quasi sorpresa e dimentica della frutta appena raccolta. Una sontuosa figura di donna che nelle carni compatte e i panneggi fluenti ben si accorda con la cifra solimenesca verso la fine del secolo, contribuendo a fissare per il nostro dipinto una datazione verso la fine del percorso di Abraham Brueghel.

Stima   € 25.000 / 35.000
33
Stima   € 10.000 / 12.000
72

David De Coninck

(Anversa 1636/46-Bruxelles 1701/05)

COMPOSIZIONE DI FRUTTA CON VASO E FONTANA CON TRITONE IN UN GIARDINO

olio su tela, cm 140x115

 

Provenienza: collezione privata, Bologna

 

Specializzato in nature morte, paesaggi con animali e scene di caccia, David de Conick fu allievo di Peter Boel (Anversa 1622-Parigi 1674) e a partire dal 1659 fu influenzato dai dipinti di Jan Fyt (Anversa 1611-1661). Visse a Parigi probabilmente fino al 1669 e successivamente a Roma tra il 1671 e il 1694 dove divenne membro della Bentvueghels, associazione di artisti fiamminghi e tedeschi, con il soprannome di Rammelear. Dopo essere ritornato ad Anversa nel 1687 si trasferì a Bruxelles dove nel 1701 divenne membro della gilda di San Luca.

Nel dipinto qui presentato, la raffinata natura morta di melograni, pesche, melone e uva collocata in primo piano, al di sotto di un basamento sormontato da un vaso con coperchio, si staglia sullo sfondo di un giardino con fontana con tritone ed altre sculture. Tale composizione ritorna molto simile nella Natura morta di frutti e fiori con due animali del Musée Fesch di Ajaccio in cui oltre alla frutta compare un vaso di fiori, collocati sempre in primo piano sullo sfondo di un giardino con viale alberato e fontana. Maggiori e più stringenti affinità compositive si riscontrano con la Natura morta di frutta, melone e melograni, asta Sotheby's Amsterdam,13 novembre 2007, in cui la composizione di frutta e il basamento con vaso ricorrono quasi identici al nostro dipinto. Si ripetono inoltre alcuni elementi come il recipiente e la brocca in metallo sbalzato (posizionati questa volta sulla sinistra), la fontana con tritone e il medesimo scorcio di viale alberato.

 

Bibliografia di confronto: L. Laureati, David de Coninck, in La natura morta in Italia, II, pp. 802-807

Stima   € 35.000 / 45.000
92

Domenico Corvi

(Viterbo 1721-Roma 1803)

SALOMÈ RICEVE LA TESTA DEL BATTISTA

olio su tela, cm 63,5x49

al recto in basso a sinistra numero d’inventario dipinto “199.”

 

Provenienza: già nobile famiglia romana;

nobile collezione fiorentina

 

Inedito e non documentato, il dipinto qui offerto costituisce un’aggiunta importante al catalogo di Domenico Corvi, un’attribuzione certo non scontata, considerando la riscoperta piuttosto recente del pittore viterbese.

Pur in assenza di riferimenti il dipinto va indubbiamente confrontato, ancor più che con la Decollazione del Battista nella chiesa del Gonfalone a Viterbo, con le storie petrine dipinte da Domenico Corvi per la cappella Orsini in San Salvatore in Lauro a Roma, e in particolare con la Liberazione di san Pietro che ne condivide l’ambientazione e il lume notturno, una caratteristica – quest’ultima – celebrata dal Lanzi come tipica delle sue opere più felici.

Ancor più convincente, peraltro, il confronto con un altro dipinto probabilmente legato al medesimo ciclo, l’Apparizione dell’angelo a San Pietro oggi nella Galleria Nazionale di Arte Antica proveniente dalla collezione Lemme, insieme ai bozzetti relativi ai laterali della cappella Orsini già citati.

Varie ragioni, a cominciare dal confronto stilistico, potrebbero anzi suggerire che il nostro dipinto si accompagnasse in origine alla tela citata, comparsa sul mercato antiquario nel 1990. Per l’intero gruppo è stata proposta una data poco dopo il 1763, e dunque all’inizio del ventennio in cui si registra il massimo successo di pubblico di Domenico Corvi, attivo per le principali famiglie romane e in particolare per i Borghese e i Barberini come per la corte di Torino.

 

Bibliografia di confronto: Domenico Corvi, a cura di V. Curzi e A. Lo Bianco, Roma 1998, in particolare pp. 126-27.

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
14

Domenico di Zanobi (Maestro della Natività Johnson)

(Firenze, documentato dal 1467 al 1481)

MADONNA IN ADORAZIONE DEL BAMBINO

tempera e olio su tavola, cm 74x43, entro cornice coeva a tabernacolo dorata e dipinta nella fascia con piccole stelle, intagliata a motivo di palmette e fiori sulla cimasa e ai lati della centinatura. Sul gradino iscrizione dipinta “•AVE•MARIA•GRATIA•P•”, nella parte inferiore, terminante a volute con rosette, stemma nobiliare dipinto, cm 127x75

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Il nome convenzionale di Maestro della Natività Johnson fu proposto da Everett Fahy nel 1966 sulla base dell’Adorazione del Bambino della collezione Johnson, l’opera meglio conosciuta agli studi storico artistici del corpus del maestro. Sulla base dei dipinti raccolti attorno al nome del pittore da parte di Fahy, Gemma Landolfi nel 1988 pubblicò un più completo repertorio di fotografie delle opere dell’artista, ricostruendone la probabile formazione attraverso i suoi cambiamenti stilistici.

Successivamente nel 1990 Anna Maria Bernacchioni identificò l’artista con Domenico di Zanobi che risulta iscritto nel 1445 alla compagnia di San Zanobi delle Laudi che si adunava in Santa Maria del Fiore.

A partire dallo studio della tavola di Domenico di Michelino per la cappella Chellini di San Miniato al Tedesco, la studiosa individuò nella predella un intervento di un suo collaboratore che stilisticamente coincideva con la mano del Maestro della Natività Johnson, al quale peraltro la storiografia artistica aveva attribuito l’Incoronazione della Vergine di Santa Maria del Fortino, ora in Palazzo Roffia, San Miniato, commissionata dalla stessa famiglia a un artista di nome Domenico che tuttavia per ragioni stilistiche e di datazione non poteva essere identificato con Domenico di Michelino. Fu quindi l’intrecciarsi delle strettissime analogie stilistiche con gli indizi documentari, quali la presenza dal 1467 nella bottega di Domenico di Michelino di via delle Terme di un compagno di nome Domenico, a confermare l’identificazione del Maestro della Natività Johnson con Domenico di Zanobi.

A seguito di tale identificazione è stato inoltre possibile chiarire taluni aspetti relativi ai collaboratori di Lippi tra cui va senza dubbio annoverato Domenico di Zanobi da individuare con il maestro di nome Domenico documentato come aiutante di Lippi nel 1460 per l’altare della compagnia dei Preti di Santa Trinità in Pistoia. Il pittore fu infatti a lungo scolaro e collaboratore di Lippi ed anche dopo la morte di quest’ultimo collaborò con il figlio Filippino per portare a termine opere lasciate incompiute da Filippo.

Domenico di Zanobi ricevette quindi negli anni ’70 due importanti commissioni quali la Lamentazione sopra la testa di Cristo per la chiesa di Santa Felicita, da parte di Caterina Frescobaldi Pitti, e la Vergine del Soccorso per la cappella dei Velluti in Santo Spirito.

Nel suo stile l’artista mostra l’influenza di molteplici maestri fiorentini contemporanei come nella Crocifissione del Fogg Art Museum di Cambridge in cui rivela l’influsso di Andrea del Castagno o come nell’Adorazione Johnson che richiama Alessio Baldovinetti. Tali affinità con Baldovinetti si devono probabilmente alla popolarità della Natività ad affresco dipinta nell’atrio dell’Annunziata, come nell’uso di muraglie diroccate e tettoie che forse a causa della ripetitività delle commissioni vennero tradotte il più delle volte dal nostro maestro secondo soluzioni semplicistiche.

Verso il 1476 l’artista iniziò ad adattare il suo stile alla nuova generazione di artisti ed in particolare guardò a Sandro Botticelli, nella maggiore attenzione per i dettagli eleganti, come le mani lunghe e affusolate delle Madonne, e una resa più raffinata e addolcita delle fisionomie.

Il dipinto qui presentato si colloca pertanto nella serie di Adorazioni eseguite da Domenico di Zanobi secondo schemi compositivi in parte ripetuti e realizzate in gran parte, come nel nostro caso, con un formato centinato. La Vergine della nostra tavola viene rappresentata in adorazione del Bambino il quale viene raffigurato disteso su un cuscino posto sul manto della Vergine adagiato su un prato fiorito mentre rivolge lo sguardo alla madre. Sullo sfondo, un paesaggio roccioso con scorcio di paese in cui viene rappresentata la visione della stella cometa. La posa della Madonna in contemplazione del figlio a mani giunte e il Bambino disteso sul manto della madre si ritrovano simili in quasi in tutti i dipinti con il medesimo soggetto ed in particolare si propone il confronto con l’Adorazione del Bambino, già in collezione Moyo, con quella in collezione Pellerano di Buenos Aires e con quella già proveniente dal The Chrysler Museum di Norfolk, in cui permangono tuttavia taluni elementi più arcaici come l’inserimento del San Giovannino. Si riscontrano inoltre affinità, più stilistiche che compositive, nelle opere della fase più matura del nostro maestro, quando si accosta agli esempi di Sandro Botticelli, come nella Madonna col Bambino in collezione Bearsted, Edgehill, Upton House, in cui si ravvisano strette vicinanze esecutive con il Bambino raffigurato nel nostro dipinto.

 

Bibliografia di confronto: E. Fahy, Some notes on the Stratonice Master, in “Paragone”, 197, 1966, p. 28; G. Landolfi, Il Maestro della Natività Johnson, in Il “Maestro di San Miniato”. Lo stato degli studi, i problemi, le risposte della filologia, a cura di G. Dalli Regoli, Pisa 1988, pp. 242-307; A.M. Bernacchioni, Documenti e precisazioni sull’attività tarda di Domenico di Michelino: la sua bottega di Via delle Terme, in “Antichità Viva”,6, 1990, pp. 5-14; A.M. Bernacchioni, Committenti sanminiatesi nell’attività di Domenico di Michelino, i Borromei e i Chellini, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, 57, 1990, pp. 95-118; A.M. Bernacchioni, Le botteghe di pittura: luoghi, strutture e attività, in Maestri e botteghe, a cura di M. Gregori, A. Paolucci, C. A. Luchinat, Cinisello Balsamo 1992, pp. 23-34; C. Lachi, Il problema della bottega di Filippo Lippi: nuove scoperte, in M.P. Mannini, La natività di Filippo Lippi: restauro, saggi e ricerche, Pisa 1995, p. 34; A.M. Bernacchioni, Una proposta di identificazione per il Maestro della Natività Johnson, collaboratore di Filippo Lippi a Prato, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, 1, Pisa 1996, pp. 313-323; C.B. Strehlke, Italian paintings, 1250-1450, in the John G. Johnson Collection and the Philadelphia Museum of Art, Philadelphia 2004, pp. 121-123

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