Dipinti Antichi

26 NOVEMBRE 2014

Dipinti Antichi

Asta, 0030Part 1
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 16.00
Esposizione

FIRENZE
dal 21 al 24 novembre 2014
orario 10 – 13 / 14 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   800 € - 80000 €

Tutte le categorie

31 - 60  di 85
29

Simone Cantarini detto Il Pesarese

(Pesaro 1612-Verona 1648)

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

olio su tela, cm 89,5x76,5

 

Corredato da parere scritto di Pierluigi Leone de Castris, Napoli 2 maggio 2008

 

Restituito indipendentemente a Simone Cantarini da Stephen Pepper e Pierluigi Leone de Castris in comunicazioni private al proprietario, l’inedito dipinto qui presentato va confrontato innanzi tutto con la tela, uguale per soggetto e composizione ma variata nel viso del santo, un tempo a Berlino, Staatliche Museen, dalla collezione Solly. Pubblicato come opera relativamente giovanile del Cantarini nella fondamentale monografia sull’artista (M. Mancigotti, Simone Cantarini, Bologna 1975, pp. 148-49, fig. 86) il dipinto citato non è stato tuttavia ripreso in esame in occasione degli studi fioriti in coincidenza con il recente anniversario dell’artista, che ne hanno privilegiato le opere bolognesi e marchigiane. Tra queste, l’Evangelista ritratto a figura intera nella tela ora nella Pinacoteca di Bondeno, riprodotta all’incisione dall’allievo Flaminio Torri e quello, diverso per invenzione e a mezza figura, in raccolta privata confermano la predilezione dell’artista pesarese per questo soggetto, non a caso documentato da antiche citazioni inventariali nelle raccolte bolognesi, tra cui le collezione Varotti (“ S. Giovanni Evangelista, mezza figura come il vero”) e Locatelli (1693; “Un S. Giovanni mezza figura del Pesarese).

Rispetto alle versioni citate probabilmente anteriori alla rottura con Guido Reni che il biografo Malvasia fissa al 1637, il nostro dipinto sembra però doversi posticipare agli anni Quaranta, come suggerisce il chiaroscuro più accentuato che insiste nelle pieghe del panneggio e segna i contorni del viso dell’Evangelista: elementi che il Cantarini trasmette all’allievo Flaminio Torri, presente nella sua bottega appunto negli ultimi anni bolognesi.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
30
Stima   € 7.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Francesco Furini (Firenze 1603-1646) e pittore della bottega di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano

LA MADONNA APPARE A SAN FRANCESCO

olio su tela, cm 183x140

 

Provenienza:

Castello di Monteacuto, Bagno a Ripoli (Firenze);

mercato antiquario;

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia:

G. Cantelli, Francesco Furini e i Furiniani, in Studi d'arte e collezionismo, Pontedera 2010, scheda 107 p. 158, tav. LXXX, fig. 107

 

L'opera qui proposta raffigurante la Madonna che appare a San Francesco è stata individuata da Giuseppe Cantelli come un dipinto "di bella invenzione e qualità" riferibile a Furini, rimasto incompiuto nel suo studio e terminato dopo la sua morte per far fronte probabilmente al desiderio di possesso di sue opere da parte degli estimatori. Lo studioso restituisce alla mano di Furini la figura del santo vescovo "vestito con uno splendido piviale con una pittura analiticamente perfetta che risale agli esordi dell'artista ripresa dal Franceschini nella tela della Pinacoteca Civica di Volterra". La Madonna in atto di presentare il Bambino a san Francesco è stata invece ricondotta a un pittore della bottega di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano in un momento di particolare vicinanza stilistica e cromatica a Pietro da Cortona. Il volto della Vergine riprende infatti i tratti fisionomici di quella eseguita dal Volterrano nello Sposalizio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, Cassa di Risparmio e Depositi di Prato. La raffigurazione della Madonna e del Bambino nel nostro dipinto, eseguita con una pennellata veloce e con una materia morbida e soffusa, si distingue dall'accurata conduzione pittorica del Santo Vescovo, come pure del San Francesco, fortemente caratterizzato nei tratti fisionomici, nel quale Cantelli ha individuato tracce dello stile di Furini.

Stima   € 25.000 / 35.000
39

Pittore romano, sec. XVII

NATURA MORTA DI ORTAGGI E FRUTTA CON CAVOLFIORE, SEDANO GOBBO, MELE E UVA

olio su tela, cm 74x105

 

Tradizionalmente attribuito a Tommaso Salini nella raccolta di provenienza, certo per confronto con la tela pubblicata da Federico Zeri che recava la firma dell’artista romano poi risultata apocrifa, la natura morta qui presentata non ha trovato una paternità alternativa nel corso degli studi che nell’ultimo decennio hanno tentato di restituire un’immagine convincente del pittore romano ricordato dal Baglione né in quelli che, d’altro canto, hanno identificato diversamente le opere un tempo raccolte sotto quel nome. La maggior parte di esse sono state raccolte da Ulisse e Gianluca Bocchi sotto il nome di “Pseudo Salini”, ovvero “Monogrammista S.B”., seguendo un’indicazione di Giuseppe De Vito relativa a un “numero” del gruppo in cui compare questa sigla e la data del 1655.

In quell’occasione (Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Casalmaggiore 2005, p. 175 e ss., figg. PS 11-14) i Bocchi riunivano quali verosimili precedenti dello Pseudo Salini due coppie di dipinti un tempo nelle raccolte Scamperle e De Carlo; un tempo attribuite a Tommaso, si differenziano tuttavia da quelle del Monogrammista (attivo intorno al 1650) per  scelte iconografiche e compositive legate a un tempo relativamente precoce della natura morta; per questo motivo si chiamava in causa se pure in forma dubitativa il nome di Agostino Verrocchi (1586-1659), attivo intorno al 1630 e punto di raccordo a Roma tra la generazione dei caravaggisti e quella di Michelangelo Cerquozzi.

Numerosi elementi del dipinto qui presentato richiamano appunto le tele De Carlo, e suggeriscono di collocare in quell’ambito anche alla nostra tela, in cui ortaggi “poveri” tipici del primo tempo della natura morta romana e poi spariti dalle “mostre” barocche sono presentati su un semplice piano di pietra sapientemente illuminato e, individuati da una fonte di luce laterale, risaltano sul fondo scuro.

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
40

Pittore romano, sec. XVII

VITTORIA DI ERACLIO SU COSROE

olio su tela, cm 144,5x292

al recto reca iscrizione in basso a sinistra solo in parte leggibile relativa al soggetto raffigurato

 

Provenienza:

nobile famiglia genovese

 

Importante anche nelle dimensioni, tali da suggerirne la provenienza da un palazzo aristocratico, l’inedito dipinto qui presentato si iscrive a pieno titolo nel clima di generale recupero dell’Antico, e insieme del classicismo raffaellesco, fiorito a Roma tra quarto e quinto decennio del Seicento e declinato con accenti diversi dai protagonisti della committenza barberiniana.

Evidente, seppure non testuale, il riferimento a rilievi antichi nelle armature e nelle insegne imperiali, come pure in alcune figure di cavalieri e, più in generale, nell’impaginazione della scena su più registri, nel solco di una tradizione inaugurata dalla Sala di Costantino in Vaticano e recentemente aggiornata dal Cavalier d’Arpino negli affreschi capitolini.

Nel corso degli anni Quaranta, probabile epoca di esecuzione nel nostro dipinto, fu interpretata in modi diversi dagli artisti della cerchia barberiniana, molti dei quali formatisi nella formidabile palestra del Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo: nascono da quei modelli opere di intonazione diversa come la travolgente Vittoria di Alessandro su Dario dipinta da Pietro da Cortona per i Sacchetti e ora ai Musei Capitolini; una versione più accademica dello stesso soggetto eseguita da Guglielmo Cortese (Versailles, Musée du Chateau) o ancora la Battaglia tra Enea e Turno di Giacinto Gimignani (Roma, Fondazione Garofalo), e le storie di Costantino dipinte a fresco nel Battistero Lateranense dallo stesso Gimignani e da Andrea Camassei, sotto la direzione di Andrea Sacchi. E’ forse proprio Camassei, presente su quelle pareti con la Battaglia di Ponte Milvio e il Trionfo di Costantino, il riferimento più pertinente per inquadrare il nostro dipinto, in ogni caso riferibile a un pittore “di storia” e non a un puro battaglista.

Stima   € 30.000 / 40.000
41

Elisabetta Marchioni                                                      

(attiva a Rovigo nella seconda metà del XVII secolo-Rovigo, circa 1700)   

COMPOSIZIONI DI FIORI ALL'APERTO                                          

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 151,5x210 ciascuno                  

(2)                                                                       

                                                                          

Disposti in cesti di vimini e in ricchi vasi di metallo sbalzato, o ancora

intrecciati a formare festoni e ghirlande, i fiori primaverili nelle tele 

qui offerte costituiscono un saggio eloquente della straordinaria abilità 

della Marchioni nel declinare in tutte le varianti la presentazione di    

fiori allaperto. Una capacità che valse allartista ampio successo di      

pubblico, sebbene circoscritto alla città di Rovigo dove, secondo Francesco

Bartoli a cui si devono le uniche notizie su di lei, le composizioni      

floreali di Elisabetta Marchioni erano presenti in tutte le collezioni e  

addirittura in coppie o in serie più numerose. Nessuna delle tele oggi a  

lei riferite concordemente risulta firmata: tutte si appoggiano invece al 

notissimo paliotto daltare donato dalla Marchioni ai Padri Cappuccini di  

Rovigo, ora alla Pinacoteca dei Concordi nella stessa città insieme ad    

altre sue opere di antica provenienza locale. Un nucleo che ha consentito 

di restituire allartista rodigina una fisionomia coerente con quanto      

tramandato dalle fonti e di distinguere la sua produzione da quella, per  

molti versi affine, della lombarda Margherita Caffi. Tipica della Marchioni

è la pennellata spumeggiante che definisce le corolle variopinte (tra cui,

sempre presenti, narcisi e tuberose) ma su una gamma cromatica più        

contenuta e sommessa di quella, squillante, della Caffi, pure così vicina 

nelle scelte compositive.                                                 

Stima   € 12.000 / 16.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

Orazio Fidani

(Firenze 1606-1656)

RITROVAMENTO DI MOSE'

olio su tela, cm 171,5x215 con cornice antica intagliata a volute, nera e dorata

 

Provenienza:

nobile palazzo fiorentino;

collezione privata, Firenze

 

Corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

L’opera qui presentata, arricchita da una importante cornice che ne testimonia la prestigiosa provenienza, è appartenuta ad una storica collezione fiorentina nella quale figuravano fino a tempi recenti rilevanti dipinti in gran parte di maestri toscani operanti in epoca barocca. Nella grande tela è rappresentato il Ritrovamento di Mosè in un’accezione particolarmente “gioiosa della scena dominata da un festante gruppo di giovani e avvenenti figure femminili” disposte attorno al piccolo neonato “in prossimità di un limpido corso d’acqua”. Questo tema iconografico, tratto da un passo dell’Esodo (2,1-10), largamente diffuso nella pittura dei Seicento e Settecento, illustra l’episodio biblico nel quale la figlia del faraone d’Egitto salva dalle acque il piccolo Mosè che sarà da lei accudito e cresciuto come suo figlio.

L'opera, come indicato da Sandro Bellesi nel suo parere scritto,  “per i particolari caratteri stilistici e tipologici delle figure” è riconducibile al catalogo autografo di Orazio Fidani, pittore che ebbe un ruolo importante nel panorama artistico fiorentino della metà del Seicento. Nato a Firenze nel 1606 il Fidani fu allievo di Giovanni Bilivert, nella cui bottega rimase per lungo tempo, divenendo uno stimato collaboratore del maestro dal quale riceveva compiti di particolare rilievo. Immatricolato all’Accademia del Disegno nel 1629, l’artista avviò una fiorente attività indipendente, pur mantenendosi fedele agli insegnamenti del maestro. Autore di importanti ed apprezzate opere sacre e profane il Fidani “si distinse per un linguaggio artistico raffinatamente eclettico sensibile al languore e alla sensualità di Francesco Furini e dei suoi seguaci e alla corrente estetizzante di matrice naturalistica legata ai fratelli Cesare e Vincenzo Dandini”.

Il dipinto qui proposto, rappresentativo del linguaggio artistico giovanile del Fidani, presenta caratteri stilistici e tipologici che presentano “echi figurativi di ascendenza bilivertiana- furiniana e soluzioni formali e scenografiche deferenti alla scuola di Matteo Rosselli”.

Il vivace cromatismo e la composizione mossa e libera delle figure, unitamente alle fisionomie e alla resa morbida delle stoffe, “spiegazzate e fruscianti”, permettono di riconoscere aspetti stilistici riferibili alla produzione di Fidani degli anni Trenta, in cui il pittore, sebbene ancora legato agli insegnamenti del maestro Giovanni Bilivert, mostra i segni di un fare più spigliato e libero in particolare nelle opere di soggetto profano.

A questo periodo risalgono il Congedo di Angelica e Medoro dai pastori della Galleria degli Uffizi di Firenze e il Battesimo di Cristo della Pieve di San Pancrazio a Celle (Pistoia), entrambe opere firmate e datate rispettivamente 1634 e 1635 nelle quali si possono riscontrare affinità stilistiche con la nostra tela, in particolare nella resa sontuosa e ricca delle vesti e nella sintassi fisionomica. Pur mostrando vicinanze con le opere già indicate, la nostra tela lascia presagire caratteri tipologici cui l’artista ricorrerà intorno alla metà del secolo, come nella profilatura delle figure muliebri, rese con garbata definizione, riscontrabili dal confronto con l’Allegoria della Pittura e l’Allegoria della Fedeltà di collezione privata, sebbene per queste due opere non vi siano riferimenti cronologici certi bensì una datazione proposta dalla critica.

Sono poche le notizie relative all’artista: Baldinucci gli dedica un breve cenno all’interno della biografia di Bilivert in cui ricorda che “sono infiniti quadri in Firenze in casa di particolari cittadini”; mentre la notizia del suo alunnato, oltre ad altre interessanti indicazioni in merito ai suoi gusti, attitudini e poetica sono riportate all’interno della biografia del maestro scritta da lui stesso.

Il ritrovamento, nel corso degli studi critici di numerose sue opere, molte delle quali firmate, ha permesso una ricostruzione alquanto attendibile della sua evoluzione stilistica.

A seguito di un forte accostamento all’arte di Bilivert, Fidani a partire dagli anni Quaranta, iniziò progressivamente ad allontanarsi dai modi del maestro seguendo gli esempi di Francesco Furini e dei fratelli Cesare e Vincenzo Dandini. Dopo anni di attività durante i quali riscosse notevoli apprezzamenti, testimoniati anche dagli incarichi per la corte granducale medicea, l’artista morì nella città natale nel 1656, pochi anni dopo l’esecuzione del suo unico ciclo di affreschi nella chiesa della Certosa del Galluzzo.

 

Bibliografia di confronto: M. Mojana, Orazio Fidani, Milano 1996, pp. 28-31

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
44

Jacopo Chimenti detto da Empoli

(Firenze 1551-1640)

FIGURA DI SANTO CON SPADA (SAN CRESCENTINO)

olio su tela, cm 110x92

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Provenienza:

mercato antiquario, Firenze;

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia: G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento,Firenze ( Fiesole), 1983, p.135, fig.695, come Filippo Tarchiani; G.Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Aggiornamento, p. 182, come Filippo Tarchiani, Pontedera, Bandechi-Vivaldi, 2009.

 

Accompagnato da parere scritto di Giuseppe Cantelli, Firenze, ottobre 2014

 

L’opera apparve sul mercato antiquario fiorentino agli inizi degli anni ottanta fu acquistata dagli attuali proprietari alla casa d’Aste Pitti il 16 dicembre 1980, lotto 267.

La tela fu venduta con l’attribuzione a Filippo Tarchiani (Firenze, 1576-1645) e il giovane santo con spada fu ritenuto San Crescenzo, mentre l’attribuzione fu confermata oralmente agli acquirenti dal Prof. Carlo Del Bravo, tra i primi studiosi ad occuparsi di pittura fiorentina del Seicento. Tale attribuzione mi sembrò al tempo della prima edizione del mio Repertorio della pittura fiorentina del Seicento(1983) assolutamente accettabile. Fece fede, a suo tempo, l’autorità del Del Bravo, mentre erano quasi impossibili i confronti con le opere documentate del Tarchiani, scarsamente fotografate e allora in gran parte bisognose di restauro o conservate in depositi non facilmente raggiungibili. La situazione non migliorò molto successivamente(II ed. del Repertorio, 2009) sebbene, a distanza di ventisei anni dal mio primo Repertorio, il catalogo di Filippo Tarchiani si sia notevolmente arricchito richiamando l’interesse degli studi su quelle opere che, sulla traccia del suo soggiorno romano(1601-1607), mostrano più moderni apprezzamenti per Caravaggio, non riscontrabili però nel santo in questione. Ho comunque mantenuto l’attribuzione al Tarchiani sembrandomi ancora possibile un confronto della testa del nostro Santo con il volto dell’Immacolata Concezione, siglata da questo artista, conservata nel Duomo di Colle Val d’Elsa (Siena) insieme ad una Madonna con il Bambino e Santi e alla Resurrezione di Cristo ( firmata). Opere queste assolutamente aderenti ad un dettato stilistico profondamente devozionale comune a molti artisti dell’epoca e in particolare a Jacopo da Empoli a cui, oggi, pensiamo di poter attribuire l’alta qualità pittorica di questa tela.

Per quanto riguarda l’iconografia del Santo esso è stato ritenuto interrogativamente come l’immagine di San Crescenzo. Ma questo santo fu martirizzato all’età di undici anni e il nostro santo è giovane, ma adulto. Escludo che posa trattarsi di San Paolo. Penso invece che si potrebbe proporre il nome di San Crescentino protettore di Urbino e di Città di Castello raffigurato però in armatura e a cavallo con una iconografia molto simile a quella di San Giorgio. Anche san Crescentino infatti avrebbe ucciso un drago, metafora delle religione pagana. Le raffigurazioni di questo santo sono piuttosto rare sebbene appaia anche senza armatura.

Crescenziano, che gli Urbinati chiamano col diminutivo di Crescentino, per sottolineare la sua giovane età, era nato a Roma circa l’anno 276, al tempo del pontificato di Sant’Eutichiano papa (275-283).

 Circa l’anno 297, Crescentino fu costretto, a causa della sua fede cristiana, ad abbandonare l’esercito e ad allontanarsi da Roma raggiungendo la Valtiberina, continuando a predicare il cristianesimo che lo aveva costretto all’esilio. Giunto a Tifernum Tiberinum, città dell’Umbria, oggi Città di Castello, Crescentino, difeso dalla corazza della sua fede cristiana vinse con la conversione della popolazione il fiero dragone del paganesimo. Nel 303 Dioclezione decretò con un editto che tutti gli abitanti dovessero fare un atto pubblico di culto alle divinità riconosciute dall’Impero. Il deciso rifiuto di Crescentino fu causa del suo martirio e dopo essere sfuggito miracolosamente al rogo fu decapitato il primo giugno dell’anno 303 dell’era cristiana.

La giovane età del nostro santo, la sua avvenente bellezza, la dolcezza carica di patetismo del suo sguardo, la bellissima spada si addice alla possibile raffigurazione di Crescentino e allo stile di Jacopo da Empoli. Ricordo per inciso l’attenzione posta dai committenti, agli inizi del Seicento, e dallo stesso Jacopo per opere aventi come soggetto il martirio di giovani cristiani che non si piegarono all’editto di Dioclezione come si evince dalla splendida pala di altare con il Martirio di san Vincenzo da Saragoza dipinto nel 1614 dall’Empoli per la chiesa di San Giorgio dei Genovesi a Palermo. Inoltre la positura e il volto del giovane hanno entrambi uno stile facilmente rapportabile alla maniera dell’Empoli.

Ritroviamo proposta l’immagine di questo modello in diverse opere di Jacopo che usò spesso questo bellissimo giovane. Lo vediamo raffigurato come paggio nel dipinto con Sant’Eligio e re Clodoveo (1614) degli Uffizi a Firenze, come San Sebastiano nella Madonna con Bambino e santi della chiesa di Santa Margherita nella frazione di Mangona (Barberino di Mugello, cfr. A. Marabottini, L’Empoli, 1988, n. 76, p.233). Il giovane modello si riconosce anche nell’avvenente San Sebastiano della chiesa fiorentina di San Lorenzo di discussa datazione, ma a nostro avviso da porsi intorno al 1615, come ha proposto a suo tempo la Bianchini e Marabottini (op.cit., 1988,n. 83, p. 242).

L’efebico modello ha posato, secondo un costume comune nelle botteghe pittoriche fiorentine, anche per una Maddalena di collezione privata a Firenze databile nello stesso arco di tempo come per il giovane Isacco dell’omonimo sacrificio nella Chiesa di San Marco a Firenze (1615-1618), soggetto più volte replicato dal pittore.

Ritengo come studio dal vero(Figura virile nuda) per il nostro quadro il disegno del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi n. 9316F.(cfr. Marabottini, 1988, n.87g, p. 245).

Il Marabottini cita, tra le opere scomparse dell’Empoli, una notizia tratta dal Baldinucci (III, p.15) in cui si racconta che il pittore aveva fatto il ritratto di un nobil giovinetto fiorentino nel quale si riconoscevano due miracoli uno della natura ed uno dell’arte. Un apprezzamento che ben si addice anche alla qualità e bellezza del nostro giovane santo. L’eleganza degli abiti e l’accostamento dei tre tessuti il damasco giallo, la seta cangiante rosa e azzurra sono ricorrenti nella pittura dell’Empoli. L’elsa bellissima della spada che regge con la mano sinistra tiene conto (cfr. G.Cantelli, Il lusso discreto di Jacopo da Empoli, in AA.VV. Jacopo da Empoli 1551-1640, Pittore d’eleganza e devozione, Catalogo della Mostra, Cinisello Balsamo(Milano), 2004, pp. 173-293) della forza incisiva e della fama dell’arte orafa fiorentina, legata al prestigio e alla straordinaria inventiva di Benvenuto Cellini, di Giorgio Vasari e degli artisti della sua cerchia, base culturale per capire lo sviluppo di queste invenzioni alle quali sa adeguarsi l’ Empoli anche nel miracolo qualitativo di questa tela.

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
50

Stefano Pozzi

(Roma 1699-1768)

LA VISITAZIONE

olio su tela sagomata agli angoli, cm 117x88 cornice originale intagliata e dorata

 

Provenienza:

Palazzo Chigi, Roma;

collezione privata, Roma

 

Bibliografia:

A.Pacia - S.Susinno, Stefano Pozzi. Le opere. In I Pittori Bergamaschi. Il Settecento. IV, Bergamo 1996, p. 159, n. 53; p. 221, fig. 3 (come opera di ignota ubicazione); G. Michel, Stefano Pozzi. La Vita. Regesto, ibidem, pp. 41-42; 52; 58; S. Susinno, in Art in Rome in the eighteenth century. Catalogo della mostra, Philadelphia, 2000, pp. 433-34; F. Petrucci, Documenti artistici sul Settecento nella collezione Chigi (parte II), in “Bollettino d’Arte”, 2000, 114, pp. 91-92; 104, note 8-10.

 

Noto fino a questo momento attraverso una vecchia fotografia che non rendeva giustizia alla qualità dell’opera e alla sua perfetta conservazione, il dipinto che qui si presenta per la prima volta è stato invece studiato nel modo più approfondito per quanto riguarda la sua provenienza e l’insieme di cui faceva parte, ormai da tempo smembrato.

 

Insieme ad altri cinque dipinti di Stefano Pozzi, tre dei quali  relativi alla vita della Vergine e due alla storia vetero-testamentaria di Tobiolo, la nostra tela decorava la cappella del cardinale Flavio II Chigi (1711-1771) nell’appartamento a lui riservato nel palazzo gentilizio a piazza Colonna.

I documenti recentemente pubblicati da Petrucci stabiliscono che la cappella fu realizzata a partire dal 1758 sotto la direzione dello scultore Pietro Bracci, coordinatore dei diversi artigiani. Oltre alle tele del Pozzi, simili tra loro per dimensioni e tutte ugualmente sagomate, ne facevano parte anche due ovali eseguiti nel 1761 da Pompeo Batoni; uno di essi, unico identificato, raffigurava l’angelo custode legandosi quindi alle storie di Tobiolo e dell’arcangelo Raffaele dipinte dal pittore romano.

 

I pagamenti a Stefano Pozzi rintracciati da Geneviève Michel si estendono su un arco di tempo più lungo, dal 1761 al 1765 e riguardano l’esecuzione di otto dipinti, comprendendo infatti oltre ai sei quadri della cappella anche due opere poi legate ai principi di Piombino. L’inventario del cardinale Flavio Chigi descrive, il 6 agosto del 1771,  la Visitazione di Santa Elisabetta, uno di “numero sei quadri di quattro palmi per alto rappresentanti…. …. con cornicette strette intagliate e dorate, pitture del Pozzi”.

Spostati in un ambiente diverso di palazzo Chigi dove alcuni di essi sono  documentati da una vecchia foto, i dipinti erano  ancora insieme nel 1958 quando furono inventariati da Antonio De Mata ai fini di divisione ereditaria; dopo quella data, furono divisi tra membri diversi degli eredi Chigi prendendo strade diverse. Oltre alla tela dedicata all’Immacolata Concezione esposta nel 2000 a Philadelphia in occasione dell’importante rassegna sul Settecento romano, tutti i numeri della serie sono stati riprodotti da Amelia Pacia e Stefano Susinno nell’ambito della monografia sull’artista curata per la serie sui pittori bergamaschi, dal luogo di origine della famiglia Pozzi.

Estremamente raffinata nella gamma cromatica, tutta giocata su variazioni del grigio  improvvisamente ravvivate dal sontuoso blu lapis riservato alla Vergine, la tela recupera in parte negli aspetti compositivi la Visitazione di Andrea Sacchi nel Battistero Lateranense. Ad altre opere del grande maestro del classicismo romano rimandano altresì le fisionomie dei personaggi, e in particolare la giovane Maria.

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
51

Luca Giordano

(Napoli 1634-1705)

MADDALENA PENITENTE

olio su tela, cm 132,5x184

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Stefano Causa, febbraio 2013, di cui si riportano di seguito le parti salienti:

 

“Questa sorprendente, Maddalena in meditazione (..) appare replica autografa di un dipinto pubblicato da alcuni anni, (..) ubicato in un museo importante quanto seminoto, come la Galleria Nazionale di Cosenza in Palazzo Arnone. Considerato il fatto che non si scorgono varianti di rilievo tra le tele, appare al momento difficile decidere quale delle due preceda l’altra. Va osservato che il quadro cosentino appare decurtato, o comunque troncato sul lato destro, mentre la nostra redazione, in ottimo stato di conservazione, consente al gesto della Maddalena di spaziarsi meglio sul fondo dorato".

"I confronti con la nostra Maddalena non mancano. A sostegno d’una cronologia relativamente giovanile – da contenere comunque nella prima metà del settimo decennio – soccorre una bibliografia eccedente". "Nella sala di Giordano, nel secondo piano del Museo di Capodimonte a Napoli una serie di pale giovanili, quasi tutte datate rinvia, per punto di stile, al nostro quadro (la nostra Maddalena potrebbe confondersi, senza sforzo, nella folla di personaggi nel primo piano dell’Elemosina di San Tommaso da Villanova del ’58); ma il confronto funziona ancora meglio con il San Nicola in gloria (firmato e datato: IORDANUS / F. / 1658), conservato al Museo Civico di Castelnuovo. Una sola zoomata consente di mettere a fuoco, nel profilo della bambina a sinistra subito vicino al gruppo delle cinque monache, lo stesso modello della Maddalena”.

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
52
Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
53

Luca Giordano

(Napoli 1634-1705)

DIANA ED ENDIMIONE

olio su tela, cm 178x125

 

Provenienza:

collezione privata, Roma

 

L’inedito dipinto qui presentato, sempre attribuito a Luca Giordano nella raccolta di provenienza, costituisce un'aggiunta significativa al catalogo dell'artista napoletano e contribuisce a definire in maniera più articolata e precisa il periodo estremo della sua attività, che fino a tempi recenti si riteneva esclusivamente dedicato a una produzione di soggetto religioso.

 

Una datazione intorno al 1704, al ritorno dall'ultimo soggiorno spagnolo, è suggerita dalla pennellata fluida e veloce, quasi da bozzetto "alla prima" con cui  l’artista napoletano propone nuovamente, in un formato verticale del tutto inconsueto, un tema mitologico che egli stesso aveva più volte affrontato in modi diversi a partire dalla metà del Seicento: oltre agli esemplari della storia di Diana e Endimione pubblicati nella monografia di Oreste Ferrari e Giuseppe Scavizzi (1992 e successivi aggiornamenti) ricordiamo anche  la tela da noi presentata nell’autunno del 2013 (15 ottobre, lotto 148) a cui si riferiva un disegno preparatorio già sul mercato antiquario inglese.

 

La tela qui proposta costituisce invece una versione autografa e leggermente variata del Diana e Endimione, anch'esso di formato verticale e simile al nostro anche per dimensioni, comparso sul mercato antiquario inglese nel 1999 e successivamente pubblicato da Oreste Ferrari e Giuseppe Scavizzi (Luca Giordano. Nuove ricerche e inediti, Napoli 2003, p. 101, A0329, illustrato a colori a p. 102). La principale variante riguarda il braccio destro della dea che nell’esemplare citato è rivolto al cielo mentre nel nostro accompagna in maniera più armoniosa l’atteggiamento della figura.

Anche sotto il profilo conservativo il nostro dipinto, sostanzialmente intatto sotto la vernice ingiallita, appare superiore alla versione già catalogata.

Stima   € 45.000 / 55.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni

(San Giovanni Valdarno 1592-Firenze 1636)

BALLO DI AMORINI

affresco su embrice, cm 35x70

sul retro iscritto “FECE QUES(T)A OP(E)RA GIOVANNI DA S(A)N GIOVANNI L’ANNO 163(…) A ME LUCA MINI PIEVANO DI S. STEFANO IN PANE”

 

Provenienza:

collezione Conte Piero Capponi, Palazzo Capponi, Firenze;

mercato antiquario, Firenze;

collezione privata, Firenze

 

Esposizioni:

Mostra della pittura italiana del Seicento e Settecento, catalogo della mostra di Firenze, Palazzo Pitti, a cura di Nello Tarchiani, Roma 1922, p. 102, n. 487

 

Bibliografia:

Mostra della pittura italiana del Seicento e Settecento, catalogo della mostra di Firenze, Palazzo Pitti, a cura di Nello Tarchiani, Roma 1922, p. 102, n. 487; O. H. Giglioli, Giovanni da San Giovanni (Giovanni Mannozzi, 1592-1636), Firenze 1949, p. 110, tav. LXXXIII, p. 149; A. Banti, Giovanni da San Giovanni: pittore della contraddizione, schede a cura di M. P. Mannini, Firenze 1977, pp. 79, 240, n. 67; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, pp. 101, fig. 506; M. P. Mannini, Alcune lettere inedite e un ciclo pittorico di Giovanni da San Giovanni, in Rivista d'arte, 38, 1986, pp. 203-204, fig. 7; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, p. 239

 

Il dipinto, eseguito con la particolare tecnica a fresco su tegola da Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni, raffigura con freschezza e humour neo-manierista un allegro e vivace Ballo di Amorini dove su un prato verde con un albero a sinistra si stagliano, contro uno sfondo di cielo, sei amorini che fanno il girotondo e uno che suona il piffero ed indica agli altri il ritmo della danza.

L'opera fu pubblicata per la prima volta nel catalogo della celebre Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento tenutasi a Pitti nel 1922 in cui ne veniva segnalata la prestigiosa provenienza dalla collezione del Conte Piero Capponi di Firenze. Il dipinto, firmato dall'artista sul retro: “FECE QUES(T)A OP(E)RA GIOVANNI DA S(A)N GIOVANNI L’ANNO 163(…) A ME LUCA MINI PIEVANO DI S. STEFANO IN PANE” rappresenta un punto fermo all'interno del catalogo di Giovanni da San Giovanni  ed esemplificativo della rara tecnica su tegola, ricercata e preziosa, utilizzata dal pittore negli anni '30. Tale tecnica, così come quella su piccole stuoie di giunco, costituì un vero successo per le sue caratteristiche di leggerezza e di formato ridotto che ne favoriva la circolazione e la diffusione.

Dall'iscrizione sul retro si apprende inoltre che Mannozzi eseguì il dipinto qui presentato per Luca Mini, pievano della chiesa di Santo Stefano in Pane per cui affrescò anche la cappella della sua  villa degli Arcipressi nella piana di Sesto (Mannini, 1986, pp.203-206). Nell'intenso periodo, scandito dagli importanti lavori per la villa Il Pozzino di Castello eseguiti per conto di Giovan Francesco Grazzini con storie tratte da una volgarizzazione dell'Asino d'oro di Apuleio e nella villa granducale della villa La Quiete, Giovanni Mannozzi lavorò per il pievano Luca Mini, personaggio poco noto che svolgeva tuttavia un ruolo importante a Castello presso il principe don Lorenzo de’ Medici. Mini fu eletto nel 1631 Provveditore di Guardaroba della villa La Petraia e seguì i vari lavori di abbellimento e di restauro della villa medicea fino al 1638, anno in cui risulta esaurito il suo incarico.

Le Storie mitologiche affrescate su embrice e su stuoia per don Lorenzo de' Medici per la villa La Petraia, ora agli Uffizi, rappresentano quindi non a caso un valido termine di confronto per il nostro dipinto in cui se ne rintraccia un simile gusto neo-ellenistico. In particolare nell'affresco su stuoia raffigurante Amore e Pan (Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 5420) si può notare un forte richiamo tra la raffigurazione di Amore e i putti danzanti del nostro dipinto, rappresentati nudi, con piccole ali colorate e con le ciocche di capelli un po' scompigliate, come mosse dal vento.

Il momento di vivace attività in cui si colloca la nostra opera, spesa in gran parte nella decorazione in villa, va collocata dopo il ritorno del pittore da un soggiorno a Roma, intrapreso dal 1621 al 1628 in compagnia del giovane allievo Benedetto Piccioli e di Francesco Furini.

L'artista trovò a Roma un terreno ideale per mettere a frutto la sua vena ironica e anti-classica che aveva sviluppato fin dai tempi della sua prima formazione, compiuta a Firenze presso la bottega di Matteo Rosselli, e mediante i suoi numerosi studi da autodidatta che nel fervore della cultura fiorentina gli permisero di stabilire con i suoi committenti un rapporto quasi da pari a pari. Fu un grande esecutore di affreschi, ricordato per la sua dote di "fare presto e bene". La prima commissione granducale ricevuta da Cosimo II risale al 1616 per la decorazione della facciata della casa di piazza della Calza con una complessa Allegoria di Firenze  (oggi frammentaria e staccata) e tra il 1619 e il 1620 va ricordata la sua partecipazione alla decorazione della facciata del palazzo dell'Antella in piazza Santa Croce in cui dipinse insieme ad altri artisti sotto la guida di Giulio Parigi una personale interpretazione del Cupido dormiente di Caravaggio, già in possesso della famiglia dell'Antella (poi collezioni granducali). Durante il soggiorno romano godette della protezione del cardinale Guido Bentivoglio, consigliere artistico della famiglia Barberini, e fu quindi impegnato nel periodo tra il 1623 e il 1627 nella decorazione di alcune sale del palazzo Bentivoglio a Montecavallo (oggi Pallavicini-Rospigliosi) tra cui si ricorda, sul soffitto del salone del piano nobile, il noto Carro della Notte in chiaro contrasto con il classico Carro dell'Aurora di Guido Reni.

L'ultimo incarico di rilievo del pittore giunse dai Medici quando nel 1635 il granduca Ferdinando II gli affidò la decorazione dell'attuale Sala degli Argenti in palazzo Pitti dove gli affreschi, realizzati per celebrare il matrimonio con Vittoria Della Rovere glorificavano le vicende della casata antica di Lorenzo de Medici, alludendo alla necessità di un ritorno ad un'epoca felice “dell’oro”.

 

Si rigrazia Maria Pia Mannini per alcune indicazioni e precisazioni.

Stima   € 25.000 / 35.000
55

Astolfo Petrazzi

(Siena 1580-1653)

CUCINIERA E SERVITORE CON CACCIAGIONE DI PESCE

olio su tela, cm 167x124

 

Corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

Bibliografia:

G. Cantelli, Postille per la pittura di natura morta in Toscana, ovvero i prodotti della terra tra paradosso e bellezza, in L. Bonelli, A. Brilli, G. Cantelli, Il paesaggio toscano, storia e rappresentazione, Cinisello Balsamo 2004, fig.5, p.359; Le immagini affamate. Donne e cibo nell’arte. Dalla natura morta ai disordini alimentari, catalogo della mostra, a cura di M. Corgnati, Aosta 2005, ill. p. 81, scheda n. 12 p. 179; Luce e ombra. Caravaggismo e naturalismo nella pittura toscana del Seicento, catalogo della mostra, a cura di P. Carofano, Pisa 2005, scheda n. 43 p. 120

 

Proveniente da una collezione privata oggi sconosciuta, l’opera illustra con ricchezza di dettagli l’interno di una cucina con figure umane e animali morti disposti con cura su piani scenograficamente digradanti. Nella parte anteriore compaiono una cuciniera e un servitore dialoganti in atto di preparare un pesce e un trancio di carne per la cottura e, sopra di essi, un tacchino spennato e gruppi per lo più di uccelli appiccati per il becco a ganci metallici. La parte interna, suggestivamente inquadrata da pareti in ombra, mostra un ampio vano con due donne, accompagnate da un bambino e da un gatto pezzato, intente rispettivamente a disporre dei piatti metallici su una mensola di legno e a seguire la cottura di un cibo messo a bollire in un paiolo sul fuoco.

Le tipologie particolari dei volti delle figure protagoniste e l’alta qualità esecutiva, enfatizzata dalla squisita selezione cromatica, consentono di ascrivere la tela al catalogo autografo di Astolfo Petrazzi, pittore nato a Siena nel 1580 e ivi morto nel 1653.

Indirizzato in area senese allo studio delle arti figurative sotto la guida di Francesco Vanni, l’artista completò la sua educazione a Roma, dove, documentato dai primi anni Venti del Seicento, realizzò un’importante pala per al chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Non insensibile alla poetica naturalistica caravaggesca, diffusa dai pittori legati all’ambito di manfrediana methodus, e attratto dalla nouvelle vague fiorentina, il Petrazzi ideò, al suo rientro a Siena, un tipo di pittura corsivamente gradevole, molto apprezzata dai committenti pubblici e privati. La fase centrale e l’ultimo tempo della sua attività furono contrassegnati essenzialmente dagli interessi verso la pittura bolognese coeva, deferente al raffinato classicismo del Domenichino e alle suadenti immagini di Guido Reni (per un consutivo sul Petrazzi, cfr. A.M. Guiducci, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano, 1989, II, pp. 842-843).

Il dipinto in esame, rapportabile a opere petrazziane come la Cuciniera con cacciagione, frutta, vegetali e pesce e la Cuciniera con cacciagione, frutta e vegetali in collezioni private a Siena e Firenze (cfr. E. Avanzati, in La natura morta in Italia, Milano, 1989, II, pp. 542-543), mostra caratteri stilistici che consentono di porre la sua realizzazione alcuni anni dopo la parentesi romana dell’artista.

Sebbene noto soprattutto per composizioni istoriate ricche di figure, destinate essenzialmente alla committenza sacra, il pittore risulta, sulla traccia delle fonti antiche, autore apprezzato di nature morte, oggi solo in parte identificate.

La sua notorietà in questo genere si diffuse con successo anche extra moenia, come attesta l’appartenenza ab antiquo di una coppia di dipinti con Strumenti musicali, al momento sconosciuta, eseguita nel 1630 per il cardinale Giovan Carlo de’ Medici.

Paradigmatiche dell’attività dedicata da Astolfo Petrazzi a questo particolare settore tematico appaiono composizioni di vario genere, frequentemente popolate da una o più figure. Significative, a tale riguardo, risultano, oltre alle pitture sopra citate, la Donna con un bambino e natura morta di ortaggi e vaso di fiori e il Giovane davanti a una tavola imbandita di ubicazione sconosciuta (cfr. M. Gregori, in La natura morta, op. cit., p. 516) o, ancora, la Suonatrice di liuto già nella collezione di Giovanni Pratesi a Firenze e oggi nella Pinacoteca Nazionale di Siena (cfr. E. Avanzati, in Pitture senesi del Seicento, Torino, 1989, pp. 24-27) e l’ Allegoria dell’Amore vincitore in Palazzo Barberini a Roma (cfr. R. Vodret, in Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi da Palazzo Barberini, catalogo della mostra, Roma, 1999, pp. 76-77). Questi dipinti, punti di riferimento essenziali dell’attività naturamortista del Petrazzi, attestano l’abilità pittorica ampiamente lodata dai critici del XVII e XVIII secolo e rivelano legami lessicali diretti con la corrente naturalistica fiorentina di Jacopo da Empoli, nonché contatti con i nuovi orientamenti romani di Pietro Paolo Bonzi e Tommaso Salini.

Sulla traccia di tali considerazioni e in base ai riferimenti con alcune pale d’altare cronologicamente certe possiamo collocare l’esecuzione della tela in esame agli anni Trenta del Seicento.

Stima   € 18.000 / 22.000
Aggiudicazione  Registrazione
31 - 60  di 85