Importanti Maioliche Rinascimentali

27 OTTOBRE 2014

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0025
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17
Esposizione

FIRENZE
dal 23 - 27 Ottobre 2014
orario 10–13 / 14–19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   2000 € - 150000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 62
1

ALBARELLO

Montelupo, 1420-1450

 

Maiolica decorata in monocromia blu di cobalto

alt. cm 25; diam. bocca cm 11,7; diam. piede cm 10,8

Etichetta “Humphris C. n. 5” che ricopre un’altra etichetta circolare; etichetta stampata “22

 

Sbeccature di usura all’orlo della bocca e al piede; segni di usura al calice; lievi felature

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, glazed and painted in cobalt blue

H. 25 cm; mouth diam. 11.7 cm; foot diam. 10.8 cm

Label ‘Humphris C. n. 5’ over another circular label; printed label ‘22’

 

Wear chips to rim and foot; wear to body; minor hairline cracks

 

An export licence is available for this lot

 

L’albarello ha una larga imboccatura con orlo angolato ed estroflesso tagliato a stecca. Il collo alto e svasato scende alla spalla, obliqua e dal profilo inclinato che si collega al corpo cilindrico. Quest’ultimo è unito al calice, anch’esso con profilo arrotondato, che lo collega con forte strozzatura a un piede piano appena estroflesso.

Il decoro è delineato secondo le modalità decorative del gruppo chiamato in “azzurro prevalente”. Sul collo corre un decoro a catenella continua, delimitata da linee parallele. La spalla mostra invece un motivo continuo a spirali inserite a riempimento di una linea sinuosa. Sul corpo, la decorazione è suddivisa in due metope che racchiudono rispettivamente una cicogna inserita in una riserva e circondata da un motivo a rosette e foglie di prezzemolo e una civetta circondata dallo stesso motivo decorativo. Gli animali, fortemente stilizzati, sono avvolti in una fitta tessitura di puntinature, spirali e fogliette. Tra loro è dipinta una fascia verticale con un decoro sinuoso continuo.

 Joseph Chompret, pubblicando l’albarello, lo attribuiva a manifattura fiorentina e lo datava al 1460. Carmen Ravanelli Guidotti, analizzando un esemplare di dimensioni minori della collezione Fanfani e un altro appartenente alla raccolta Cora, sposa l’attribuzione alle manifatture di Montelupo ipotizzata da Cora nella sua monumentale opera.

La nuova classificazione proposta da Berti inserisce questo tipo di decorazione nel genere 10.1.1, superando la classificazione di Cora per famiglie: in questo caso la famiglia italo-moresca. Nella produzione italo-moresca compresa nell’arco cronologico dal 1410-20 fino al 1490 si incontrano generi di decori ben distinti, che denotano una sempre maggiore standardizzazione indotta dal decollo e dalla commercializzazione della produzione montelupina. Il genere più antico “a figura contornata”, realizzato in monocromia azzurra, è tra i più diffusi. La caratteristica principale è data dal collocare la raffigurazione principale all’interno di uno spazio riquadrato da una linea dal profilo irregolare che segue a distanza quello della figura protagonista. L’uso della foglia di prezzemolo è associata al decoro principale.

La datazione degli esemplari con decori “a figura contornata” è compresa tra il 1410-1420 e il 1450 e si distingue per il comparire di scelte cromatiche nuove con il progredire del tempo.

I confronti con il primo genere è supportato da rassicuranti analogie: la figura dell’animale all’interno della cornice non rimarcata in blu; la catenella lungo il collo e il motivo sulla spalla, riprodotti anche in sottogruppi successivi in modalità più corrive; infine i petali dei fiori non riempiti di colore. L’assenza nel nostro esemplare di tocchi di bruno di manganese, il cui utilizzo sembra attestarsi verso la metà del secolo ci fa propendere per la datazione alla prima metà del secolo; e anche l’uso della foglia di prezzemolo nei decori minori lo conferma.

Quest’opera viene dal mercato internazionale: oltre che nelle pubblicazioni già citate, abbiamo sue notizie nella collezione dell’antiquario Humphris di Londra nel 1970. Il vaso proveniva dall’asta della collezione Bak, al n. 20 del catalogo, dov’era attribuito a manifatture fiorentine del 1460 circa e ne veniva indicata la provenienza dalla collezione Aynard.

Il vaso è stato pubblicato da Chompret, da Bellini-Conti e da Cora.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

ALBARELLO

Firenze, 1450-1475

 

Maiolica rivestita da smalto bianco crema decorata a zaffera blu, con tocchi di verde rame e bruno di manganese nei toni del viola

alt. cm 17,2; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 9

Sul fondo numeri a matita poco leggibili

 

Corpo interessato da felature causate dall’uso; usure all’orlo, alla spalla e al piede con cadute di smalto; una rottura scende dall’orlo, di fianco allo stemma, fino al piede e si diparte lungo il corpo per risalire poco oltre

 

Earthenware, covered with a creamy-white tin glaze and painted in zaffera blue (cobalt blue) with touches of copper green and manganese

H. 17.2 cm; mouth diam. 10 cm; foot diam. 9 cm

On the bottom, numbers hand-written in pencil (hardly readable)

 

Hairline wear cracks to body; wear to rim, shoulder, and foot, with some glaze losses; a crack running across the body from the rim – beside the coat-of-arms – to the foot and up the side of the body

 

L’albarello ha corpo cilindrico, che si restringe scendendo verso il basso, e piede a base piana. La spalla è arrotondata, il collo è basso con imboccatura larga dall’orlo appena aggettante tagliato a stecca.

Il corpo è interamente ricoperto da smalto bianco, ad eccezione della base e dell’interno. Un motivo decorativo a fasce parallele, una delle quali tratteggiata, corre lungo la spalla. Sul corpo si distingue un decoro a larghe foglie di prezzemolo, disposte a centrare alcune linee a spirale; fogliette minori sono utilizzate a riempimento delle campiture e tocchi di verde ramina completano l’ornato. Al centro della composizione compare uno stemma, a scudo semplice con fasce parallele blu e giallo.

Lo smalto è grasso, i colori stesi in abbondanza: il blu del decoro fogliato è “a zaffera” corposo, visibilmente in rilievo. Il giallo antimonio dello stemma presenta bolliture e tracce di rosso, quasi fosse stato mischiato con ferro per ottenere un colore più intenso.

L’attribuzione dell’oggetto oscilla tra il Lazio, l’Umbria la Toscana (l’emblema araldico non è stato per il momento individuato), ma la sua collocazione in area fiorentina, o comunque toscana, per quanto generica ci pare probabile.

La materia, ancora molto legata alla presenza della zaffera, con l’introduzione di elementi di colore, in particolare bruno di manganese e giallo, e il decoro di transizione tra i motivi ancora legati all’influenza orientale con i primi accenni di un impianto gotico, ci inducono a ipotizzare per questo oggetto una datazione agli ultimi anni del secolo XV.

 

Stima   € 3.000 / 5.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

ALBARELLO

Montelupo, 1480-1490 circa

 

Maiolica ricoperta da uno smalto spesso, color bianco-crema, dipinto in blu, giallo-arancio e bruno di manganese.

Sotto la base tracce di cartellino e tracce di numeri scritti a china

alt. cm 34,3; diam. bocca cm 12,2; diam. piede cm 12,8

 

Intatto, salvo una felatura passante che interessa il collo e parte del corpo; cadute di smalto ricoperte da restauro lungo la spalla e lungo il calice

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered with a thick, creamy-white tin glaze and painted in blue, yellowy-orange and manganese

H. 34.3 cm; mouth diam. 12.9 cm; foot diam. 12.4 cm

On the bottom, remains of a paper tag and remains of numbers hand-written in black ink

 

In very good condition, with the exception of a heavy hairline crack running along the neck and part of the body; some glaze losses covered by restoration along the shoulders and body

 

An export licence is available for this lot

 

L’albarello ha un’imboccatura larga con orlo appiattito, tagliato a stecca, con accenno di estroflessione. Il collo cilindrico, molto breve, si apre in una spalla appena angolata dal profilo arrotondato; essa scende nel corpo cilindrico lievemente carenato che si richiude in un calice breve, concluso da un piede piano con orlo appena espanso all’esterno.

Il vaso, di grandi dimensioni, è interamente ricoperto da una decorazione “a foglia di prezzemolo”, costituita da una densa serie di segni blu disposti a stella al centro di una fitta rete di sottili segni tracciati in manganese, collocati simmetricamente e inframmezzati da puntinature arancio. La rete è intervallata da sottili linee verticali con puntinature di colore blu cobalto. La parte frontale del vaso è interessata dalla decorazione principale: un emblema dipinto con ampio uso di manganese che riporta un simbolo, probabilmente farmaceutico, non individuato. Il simbolo è circondato da una corona a petali di colore arancio poggiante su una fascia blu. Al centro del medaglione un fitto motivo puntinato alternato a nuvole riempie la riserva bianca.

Questo decoro rappresenta uno dei generi principali nella produzione vascolare toscana a smalto dell’ultimo ventennio del secolo XV.

La documentazione di maggior rilievo è rappresentata da un gruppo di ceramiche custodite nella Farmacia di Santa Fina a San Gimignano.

Il decoro principale trae la sua ispirazione da motivi “ispano-moreschi”: si tratta del decoro a hoja de pérejil, spesso utilizzato dai ceramisti spagnoli di Manises nel corso del secolo XV. Il motivo decorativo è stato accolto dai ceramisti toscani sostanzialmente con poche varianti. L’uso del decoro è presente in ceramiche di uso domestico, come nel vasellame da mensa, e in forme chiuse di uso farmaceutico dove è testimoniato da alcuni esemplari. Galeazzo Cora nel 1973 trattò con molta attenzione questo gruppo di ceramiche, tanto da darne la definizione di “tipo Santa Fina”. Oggi si è osservato che, nel gruppo di ceramiche della farmacia di San Gimignano da cui deriva il nome, la decorazione è dipinta sull’ingobbio ed è di una qualità inferiore rispetto a quella di altri esemplari con medesimo ornato.

Fausto Berti ha nuovamente classificato tali oggetti sulla scia dei nuovi ritrovamenti archeologici di certa provenienza montelupina e comunque del Valdarno.

Un piatto o vassoio databile al 1489-1492, conservato al Museo Archeologico della Ceramica di Montelupo, è un chiaro esempio di decoro in cui già si nota come la sostituzione del lustro spagnolo con i tratti in manganese e lumeggiature arancio, pur risultando efficace, non raggiungesse la profondità del lustro. La stessa tecnica più corriva, ma comunque associata a un medaglione principale con cornice di foggia simile a quella nell’esemplare in esame, si trova in un boccale dello stesso museo.

Anche gli orcioli con emblema mercantile probabilmente da farmacia, di cui Berti presenta un esemplare da collezione privata, dimostrano come in questa fase l’invasività del decoro a piccole foglie prevalga ancora sull’emblema.

Gli esempi ci fanno meglio comprendere come il decoro si sia evoluto e diversificato anche in base alle forme.

L’albarello in esame era stato associato nelle prime pubblicazioni alla farmacia di Santa Fina, mentre alla luce degli studi attuali pensiamo sia più corretto collocarlo fra le produzioni montelupine classificabili all’interno del gruppo 13.2.2 per l’uso della corona con petali ovoidali arancio e, più in generale, per le modalità stilistiche del tratto pittorico dell’intricata rete del decoro a foglie.

L’albarello è stato pubblicato da Cora nel 1973 come opera di area fiorentina; lo studioso lo individua nella collezione Adda di Parigi.

Conti lo pubblica nello stesso anno come tipologia fiorentina con ornato italo- moresco e ne segnala la presenza nella collezione Jean-George Rueff, sempre a Parigi. Rackham aveva a sua volta già pubblicato l’albarello come opera fiorentina ascrivibile agli anni 1450-1460, proveniente dalla collezione Adolf von Beckerath.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
10

ALBARELLO

Montelupo, 1570-1590

 

Maiolica decorata in policromia con verde, arancio, giallo, blu e bruno di manganese

alt. cm 15,4; diam. bocca cm 10,9; diam. piede 10,9

 

Sbeccature e consunzioni d’uso alla spalla, all’orlo e al piede; restauro e fermatura di una felatura passante che dall’orlo scende fino al piede, passa sotto a questo assottigliandosi e risale sull’altro lato, fermandosi alla spalla

 

Earthenware, painted in green, orange, yellow, blue, and manganese

H. 15.4 cm; mouth diam. 10.9 cm; foot diam. 10.9 cm

 

Chips and wear to shoulder, rim, and foot; a consolidated hairline crack, fixed with a metal clip, running from the rim down to the foot, going up the other side, and extending to the shoulder

 

Il piccolo vaso apotecario ha corpo di forma cilindrica appena assottigliato al centro; il piede è piano, leggermente svasato all’esterno e con orlo arrotondato. La spalla è arrotondata, il collo breve e stretto con imboccatura larga, svasata con labbro tagliato a stecca.

La decorazione si ripete in modo continuo sull’intera superficie dell’albarello e vede, sul collo, una seria di linee parallele fino al termine della spalla; il motivo è riproposto, in forma assottigliata, sul piede. Nella fascia centrale, una serie continua di ovali riempiono la superficie, disponendosi verticalmente verso la spalla e verso il piede. Il motivo è a sua volta decorato con linee a scalare, in arancio, blu e giallo, e racchiuso in un ovale blu. Gli spazi vuoti sono interessati da un sottile decoro in manganese che simula un motivo floreale fortemente stilizzato e semplificato.

Un esemplare molto simile, proveniente dalla donazione Cora, è conservato al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza.

Fausto Berti nel pubblicare questa tipologia decorativa sottolinea come a partire dalla metà circa del XVI secolo la produzione di maiolica cominci a riproporre i motivi ornamentali con stanchezza e in modo ripetitivo. Questa tendenza è maggiormente evidente proprio nelle maioliche da farmacia destinate a un uso meno prestigioso. L’ornato “ad ovali” del nostro vaso appartiene a questa fase, in cui gli artigiani tendevano a semplificare e a ripetere in modo frettoloso, quasi esasperato, la decorazione commissionata.

 

Stima   € 2.000 / 3.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

ALBARELLO

Deruta, ultimo quarto del XVI secolo

 

Maiolica decorata in policromia con blu di cobalto, verde ramina, giallo antimonio e ocra su smalto stannifero povero

alt. cm 19,6; diam. bocca cm 9,5; diam. piede cm 9,8

Sotto la base etichetta stampata “Dott. Serra Milano”; etichetta manoscritta, in corsivo, “6647/ albarello / toscano/ sec XVI”; etichetta stampata, poco leggibile, “... DELLA GHERARDESCA” e, manoscritta, “221

 

Felature sottili al corpo vicino al piede; sbeccature di usura al piede e all’orlo

 

Earthenware, covered with a poor tin glaze and painted in cobalt blue, copper green, antimony yellow and ochre

H. 19.6 cm; mouth diam. 9.5 cm; foot diam. 9.8 cm

On the bottom, label printed ‘Dott. Serra Milano’; label hand-written ‘6647/ albarello / toscano/ sec XVI’; printed label‘... DELLA GHERARDESCA’ (hardly readable) and, hand-written, ‘221’

 

Minor hairline cracks to body close to the foot; wear chips to foot and rim

 

L’albarello ha larga imboccatura con orlo piano appena estroflesso e collo molto breve che scende in una spalla angolata. Il corpo cilindrico è molto rastremato al centro e termina con un calice assai angolato che scende a formare un piede su base piana e aggettante, preceduto da una strozzatura breve.

Sul fondo del piede è visibile un segno farmaceutico inciso dopo la cottura.

Il vaso apotecario era stato attribuito a manifattura Toscana, mentre a noi pare, per morfologia e decoro, vicino alle serie prodotte dalle manifatture umbre di Deruta nel corso del secolo XVI.

Il motivo che incornicia la scritta apotecaria “DIAPRUNIS” riproduce una corona robbiana con modalità pittoriche corrive, quasi di maniera. Lo stesso tipo di corona, ma con stile più fluido, associato al motivo decorativo a girali fiorite caratteristico delle manifatture derutesi, è raffigurato in un albarello della collezione Bayer di Milano.

Morfologicamente l’opera si avvicina alle produzioni derutesi dei primi anni del ‘500, come per esempio la coppia di albarelli con emblema farmaceutico e decori a trofei conservata nelle raccolte del Castello Sforzesco di Milano. La forma, la scelta cromatica, la qualità dello smalto e la disposizione del decoro con nastri svolazzanti sul retro del vaso hanno poi dei precedenti di qualità nella raccolta Mereghi al Museo Internazionale delle Ceramica di Faenza. L’orciolo da farmacia nella stessa raccolta con decoro “alla porcellana” datato alla seconda metà del XVI secolo costituisce un confronto per il decoro “minore” posto all’interno della fascia: il decoro alla porcellana, steso anch’esso con tratto veloce, richiama l’esemplare del museo faentino e di conseguenza il suo confronto datato e conservato a Sèvres.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
60

ALBARELLO

Napoli, Maestro della Cappella Brancaccio, 1470-1480

 

Maiolica decorata in policromia con verde ramina, arancio e bruno di manganese nei toni del marrone e del nero su smalto povero bianco leggermente azzurrato

alt. cm 32,5; diam. bocca cm 10,7; diam. piede cm 12

Sotto la base etichetta stampata di spedizione da Parigi con dattiloscritto: “HUMPHRIS C/ N. 7”; etichetta ovale con il numero “44459”; in rosso, numeri di inventario “L.1660.79” e “L.3730.79”

 

Intatto; tracce di usura alla spalla e all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered with a poor white glaze with a light-bluish tinge, and painted in copper green, orange, and brownish and blackish manganese

H. 32.5 cm; diam. 10.7 cm; foot diam. 12.2 cm

On the bottom, shipping paper label (from Paris), typewritten with ‘HUMPHRIS C/ N. 7’; oval paper label with ‘44459’; inventory numbers in red ink: ‘L.1660.79’ and ‘L.3730.79’

 

In very good condition; wear to shoulder and rim

 

An export licence is available for this lot

 

L’albarello ha forma cilindrica appena rastremata al centro con spalla angolata verso il basso, collo breve con orlo estroflesso, piede piano leggermente aggettante all’esterno. La superficie del vaso è interamente decorata e presenta motivi puntinati, a palmette e a ventaglio sul collo e sulla spalla. Lo smalto, spesso e abbondante, ricopre l’intera superficie, compreso l’interno; parte del piede presenta craquelure ma nessuna caduta di colore.

Il corpo è interessato, nella parte anteriore, dalla raffigurazione di un personaggio ritratto di profilo, di fronte al quale è tracciato un cartiglio svolazzante con iscrizione di difficile interpretazione “B.N.BIA.BIA.B.NB.”, forse la descrizione del principio farmaceutico. Il ritratto ha una cornice che ne segue i contorni. Tutt’intorno si estende un motivo a foglie accartocciate.

L’albarello appartiene a un gruppo studiato da De Ricci e da Borenius: e mentre De Ricci lo attribuisce variamente alla Toscana, lasciando aperta l’attribuzione anche ad ambito faentino o romano, Borenius dal canto suo riferisce la provenienza, basata su testimonianze orali, da una farmacia di Caltagirone. Negli esemplari conservati al Louvre e acquistati nel 1903 è conservato un sigillo di cera pertinente a una farmacia palermitana.

Guido Donatone, grazie al confronto con alcune mattonelle esagonali della cappella Brancaccio di Sant’Angelo a Nilo e con altri pavimenti poi attribuiti allo stesso pittore, ha proposto l’ipotesi di una produzione napoletana. Tra i confronti suggeriti dallo stesso autore con medaglie e bassorilievi raffiguranti personaggi aragonesi, spicca proprio l’albarello con personaggio di questa raccolta, che viene così identificato come Alfonso duca di Calabria.

Gli albarelli con stemmi aragonesi del museo parigino recanti le armi di Alfonso II d’Aragona e della moglie Ippolita Sforza, in particolare, forniscono un’indicazione cronologica compresa tra il 1465 e il 1484. A quegli anni si fa risalire anche l’albarello con stemma aragonese del British Museum.

Il nostro vaso è passato sul mercato in occasione della vendita della collezione Bak di New York nel 1965, e nella scheda d’asta, ancora con attribuzione a manifattura faentina del 1480, viene indicata la provenienza dalla collezione Arthur Sambon e dalla raccolta Mortimer Schiff. Abbiamo notizia di una successiva vendita all’asta del Palais Galliera nel 1970 e della pubblicazione dell’oggetto come presente nella collezione Jean-George Rueff nel 1973.

L’opera è stata esposta al Metropolitan Museum of Art di New York negli anni 1917-1919 e 1937-1941.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
2

ALBARELLO                                                                 

Montelupo, 1440-1450                                                      

                                                                          

Maiolica decorata in monocromia blu di cobalto                            

alt. cm 22; diam. bocca cm 12; diam. base cm 12                           

Sul fondo etichetta stampata Galleria Pesaro/Milano; manoscritto numero 6 

                                                                          

Intatto; usure allorlo, alla spalla e al piede                            

                                                                          

Corredato da attestato di libera circolazione                             

                                                                          

Earthenware, glazed and painted in cobalt blue                            

H. 22 cm; mouth diam. 12 cm; foot diam. 12 cm                             

Printed label Galleria Pesaro/Milano; handwritten n. 6                    

                                                                          

In very good condition; wear to rim, shoulder, and foot                   

                                                                          

An export licence is available for this lot                               

                                                                          

Il vaso apotecario ha unimboccatura larga con orlo piano appena estroflesso

e collo cilindrico breve terminante in una spalla carenata. Il corpo è    

cilindrico e termina in un calice appena accennato, con una strozzatura che

finisce nel piede a base piatta con orlo arrotondato. Sotto la base, è    

visibile unincisione scalfita dopo la cottura.                            

Il decoro, dipinto in blu di cobalto, è incentrato su una distribuzione   

simmetrica in registri sovrapposti senza soluzione di continuità          

La morfologia del contenitore è ben nota ed è tipica dei manufatti in     

maiolica prodotti dalle officine toscane già nel corso del secolo XIV, ma 

con massima diffusione nel corso del secolo XV.                           

Lalbarello proviene dalla collezione Ducrot, passata allasta a Milano     

presso la Galleria Pesaro nel 1934 come opera di area toscana della metà  

del secolo XV. Chompret già nel 1946 attribuiva questa serie di opere ad  

area fiorentina, associando a questo alcuni altri pezzi come confronto: fra

questi, per esempio, lalbarello del Victoria and Albert Museum,           

morfologicamente e stilisticamente assai vicino al nostro vaso.           

Molti sono infatti gli esemplari di confronto, conservati nelle principali

raccolte museali del settore, ai quali si può fare riferimento. Fra questi,

ve nè uno conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge che presenta una  

variante nella piccola ansa aggiunta appena sotto il collo; un altro è al 

Museo di Berlino.                                                         

Recentemente Fausto Berti ha fornito unaccurata analisi di questa tipologia

di vasi raggruppando i confronti. Lo studioso fiorentino considera        

lalbarello riconducibile alla produzione in blu prevalente nella versione 

ispirata alla pittografia araba e pertanto definito cufico o meglio       

pseudo-cufico. Si tratta di un uso decorativo medio-orientale che, oltre a

veicolare i versetti del Corano, fungeva da motivo ornamentale, rifacendosi

al vasellame di produzione dei vasai moreschi di Valenza, quello però     

impreziosito dal lustro metallico. Questo decoro divenne un riferimento per

i vasari occidentali, che ne utilizzarono lintreccio compositivo a puro   

scopo ornamentale. Tale modalità stilistica rimase in auge per circa un   

cinquantennio, fino allincirca alla fine del 400: proprio per questa      

ragione, la datazione è collocata nel periodo compreso tra il 1430 e il   

1460 circa.                                                               

Un ulteriore confronto ci viene dallalbarello simile della collezione della

Cassa di Risparmio di Perugia, considerato di produzione montelupina e in 

base ai confronti museali già citati datato agli anni 1440-1470.          

Inoltre, un confronto a nostro parere molto prossimo allalbarello in esame

ci viene fornito dal vaso pubblicato da Berti in occasione della mostra   

sulla maiolica di Montelupo: la datazione proposta per tale esemplare è tra

il 1440 e il 1450.                                                        

Abbiamo già accennato alla provenienza del vaso dalla collezione Ducrot,  

passata allasta nel 1934. Nel 1970 fu venduto da Alavoine Antiquité di    

Parigi, che lo datava al 1450.                                            

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

ALBARELLO BIANSATO

Deruta, 1460-1490

 

Maiolica decorata in policromia con blu a zaffera, verde rame e bruno di manganese nei toni del violaceo

alt. cm 25,6; diam. bocca cm 12,6; diam. piede cm 10,8

 

Intatto; sbeccature d’uso all’orlo, alle anse e al piede

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in zaffera blue (cobalt blue), copper green, and manganese purple

H. 25.6 cm; mouth diam. 12.6 cm; foot diam. 10.8 cm

 

In very good condition; wear chips to rim, handles, and foot

 

An export licence is available for this lot

 

Il vaso apotecario ha bocca larga con orlo piano molto estroflesso che scende su un collo cilindrico basso, il quale a sua volta si congiunge con una spalla carenata dal profilo rigonfio. Il corpo è cilindrico, appena rastremato al centro; il calice è angolato, con profilo arrotondato, e scende con una forte strozzatura fino al piede piano e con orlo appena estroflesso. Le due anse, larghe e a nastro, sono tripartite con cordonatura centrale piana terminante in un bottone concavo e cordonature laterali dal profilo arrotondato che si dipartono dalla spalla per scendere fino quasi al bordo del calice.

Il decoro del collo mostra una serie continua di tratti ed è replicato anche lungo il piede. La spalla è decorata da una serie di palmette e palmette a ventaglio, secondo uno schema di gusto tardo-gotico. Il corpo è ornato da due metope principali con decori a foglie stilizzate, delimitate da due fasce verticali. Tra le metope su un lato si legge una lettera gotica “C” affiancata da motivi fogliati e puntinature e racchiusa in una riserva che ne segue il profilo, segnata in azzurro, sull’altro lato è dipinta una pianta di carciofo con due fiori, anch’essa racchiusa in una riserva profilata di azzurro.

Le anse sono dipinte con tratti orizzontali in ramina e viola manganese nella cordonatura centrale e con pennellate appena arcuate tutt’intorno. L’attacco inferiore, premuto “a pizzico”, è messo in risalto dal colore verde ramina.

Gli esemplari di confronto sono numerosi, e tra loro un riscontro morfologicamente puntuale si trova in un vaso della raccolta della Cassa di Risparmio di Perugia datato 1460-1490.

La tipologia è stata per lungo tempo attribuita variamente alle botteghe faentine o alla Toscana, e in seguito ricondotta alla bottega originaria. La produzione di questi albarelli dovette essere cospicua, con grande varietà di forme e decori: gli scavi a Deruta hanno restituito frammenti relativi a esemplari con anse simili a quelle dell’opera in esame, ma prevalentemente a oggetti con anse a torciglione. I decori hanno trovato riscontro in mattonelle di pavimenti coevi e propongono motivi tardo-gotici con foglia accartocciata, fiamme, corde, lettere gotiche e altro. Molti reperti sono conservati nel museo di Deruta.

Il vaso è accompagnato dalla documentazione relativa al suo passaggio sul mercato – in occasione della vendita della collezione Bak di New York – nella quale viene attribuito a una manifattura faentina del 1470; a conferma di quanto detto qui sopra, viene fatto riferimento, come provenienza, alle collezioni S. von Auspitz prima e Lanna di Praga poi. L’attribuzione si basava probabilmente sugli studi disponibili all’epoca, come per esempio il repertorio di Jeanne Giacomotti, nel quale erano raccolti diversi esemplari di questo genere.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
31

Alzata o sottocoppa

Faenza, inizio del secolo XVII

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, blu, bruno di manganese e giallo su smalto bianco abbondante crettato

alt. cm 5; diam. cm 25,5; diam. piede cm 11,5

 

Sbeccature all’orlo; lacuna al piede

 

Earthenware, covered with a rich, crackled white glaze and painted in orange, blue, manganese, and yellow

H. 5 cm; diam. 25.5 cm; foot diam. 11.5 cm

 

Chips to rim; loss to foot

 

L’alzata o presentatoio è costituita da un piatto a fondo liscio con breve bordo rialzato dall’orlo arrotondato, poggiante su piede alto poco svasato.

La decorazione interessa l’intera superficie del piatto, sul recto, e descrive una scena di caccia. I protagonisti sono un cacciatore con cappello che corre con un archibugio in mano, accompagnato da un cane bianco anch’esso in corsa, e di fronte, quasi a corrergli incontro, un centauro con arco spiegato, anch’esso accompagnato da un cane. La scena si svolge in un ampio paesaggio caratterizzato da un grande albero con chioma larga e suddivisa in ciuffi sovrapposti e da un casolare con tetto a cuspidi, entrambi inseriti in uno scenario di montagna.

La decorazione è realizzata con sicurezza e rapidità, caratteristica che la distingue dalle opere faentine istoriate, ma con le caratteristiche cromatiche dello stile compendiario. L’ornato è denso, la scena quasi schizzata, ma con uno stile preciso e riconoscibile.

Una recente pubblicazione per una mostra tematica sulla maiolica italiana di stile compendiario ci aiuta a collocare l’opera in un contesto ben preciso: si tratta infatti di una produzione di alzatine, opera di un'officina faentina dei primi anni del ’600, periodo in cui si enfatizza la corrente istoriata che aveva trovato nuova espressione nella seconda metà del secolo precedente. Si pensi al pittore del “servizio V numerato”, al “maestro dello steccato” e agli altri rappresentanti di questa nuova stagione dell’istoriato.

Nelle schedature di alcuni esemplari da collezione privata e di sottocoppe del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, Carmen Ravanelli Guidotti ipotizza che questi oggetti possano essere considerati creazioni di una stessa bottega e addirittura – per gli esemplari con i cacciatori, gruppo al quale si aggiunge l’esemplare in esame – opere di una stessa mano. L’impostazione narrativa infatti è simile, come pure i caratteri stilistici: in particolare la foggia del copricapo del cacciatore, il modo di raffigurare l’albero, l’arco, il muso, la posa dei cani da caccia ed altro ancora.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
21

Bacile da acquereccia

Deruta, 1530 circa

 

Maiolica decorata in blu di cobalto, con lumeggiature a lustro dorato

alt. cm 3,4; diam. cm 33; diam. umbone cm 11

Sul retro un cartellino cartaceo stampato “ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782

 

Parte inferiore della tesa interessata da diverse rotture incollate e stuccate con restauro archeologico sul retro e parziale copertura sul fronte

 

Earthenware, painted in cobalt blue with touches of golden lustre

H. 3.4 cm; diam. 33 cm; centre diam. 11 cm

On the back, printed paper tag ‘ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782’

 

On the lower part of the broad rim, some restored and plastered cracks are visible on the back, with areas of repaint on the front

 

Il piatto ha un cavetto ampio e concavo centrato da un umbone a fondo piano, circondato da una cornice a rilievo con orlo arrotondato, digradante in una seconda cornice a gola. La tesa è breve e orizzontale, con orlo rilevato. Il retro segue la forma del piatto, con leggere baccellature rilevate e centro concavo.

La forma è quella del bacile da acquereccia: il piatto doveva cioè sorreggere nel centro un versatoio, a imitazione del vasellame metallico.

Al centro della composizione decorativa troviamo un ritratto muliebre di profilo, con un cartiglio contenente la scritta “BERRARDINA”. Nella cornice a gola è presente un motivo a nodo delineato in blu su fondo lustrato, mentre nel resto del cavetto si sviluppa un decoro a baccellature arcuate, delimitate da sottili pennellature blu e ombreggiature, anch’esse in blu sul fondo. L’effetto a rilievo è ottenuto grazie all’utilizzo delle ombreggiature e alla riserva lasciata bianca per dar luce. La tesa mostra il caratteristico decoro a piccoli frutti tondeggianti disposti a linea continua.

Il retro è decorato da linee concentriche gialle con tracce di lustro.

Questo tipo di bacile fu prodotto a Deruta con alcune varianti nella scelta della decorazione, comunque realizzata a lustro nei modi utilizzati anche nei piatti da parata, in un periodo che oscilla tra il 1500 e il 1530: la gran parte dei bacili da versatore presentano al centro un ritratto femminile di solito accompagnato da un fiore di giglio, con varianti del soggetto raffigurato al centro, in questo caso molto prossimo alla tipologia dei ritratti amatori.

Un piatto conservato al Victoria and Albert Museum, di produzione derutese e databile al 1520, è morfologicamente affine, con ritratto al centro dell’umbone e decoro intorno alla tesa e sull’orlo, ma mostra una scelta decorativa differente nel motivo a pannelli radiali con decori fitoformi ed embricazioni. Prossimo a quest’ultimo esemplare è anche il bacile con ritratto femminile del Fitzwilliam Museum di Cambridge proveniente dalla collezione Pringsheim, con un ritratto stilisticamente vicino a quello delineato nel nostro oggetto. Da ultimo un bel bacile conservato al British Museum, risalente ai primissimi anni del ‘500, presenta una tesa con decoro a embricazioni e un profilo con caratteristiche molto prossime ai modi del Perugino, dai cui ritratti prendono spunto questi decori.

 

Stima   € 6.000 / 9.000
13

BOCCALE

Montelupo, fine del XVI secolo

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, verde rame, blu di cobalto e bruno di manganese nei toni del nero-marrone

alt. cm 21,5; bocca cm 11,5 al beccuccio; diam. piede cm 11,8

 

Lacuna sul collo; cadute di smalto sul corpo; sbeccature d’uso al piede

 

Earthenware, painted in yellow, orange, copper green, cobalt blue, and brownish-blackish manganese

H. 21.5 cm; mouth 11.5 cm (width from handle to spout); foot diam. 11.8 cm

 

Loss to neck; glaze losses to body; wear chips to foot

 

Il boccale ha corpo globulare, imboccatura trilobata e ansa a nastro verticale contrapposta al beccuccio; poggia su un basso piede piano poco aggettante, e sul fronte presenta un medaglione profilato in bruno di manganese, circondato da una fascia bianca a risparmio e da una giallo-arancio, a sua volta profilata da linee in bruno di manganese. La cornice del medaglione termina sotto il beccuccio con un motivo decorativo, in cui si riconosce la rappresentazione di un anello con pietra incastonata. All’interno del medaglione è raffigurato un profilo femminile con capigliatura folta e crestina di pizzo bianca. Il ritratto, quasi caricaturale, spicca su un fondo giallo. Il resto del corpo presenta una decorazione a palmette attorniate da spiraline e da trattini a riempimento delle campiture. Una fascia attorno e sotto l’ansa è lasciata libera ed è occupata solo dal monogramma ”Z”. L’ansa è a sua volta decorata da due linee verdi parallele.

Il boccale appartiene a una produzione di Valdarno, che vede l’incontro e l’unione di più elementi datanti. Il ritratto femminile richiama stilemi ancora arcaici, d’ispirazione quattrocentesca (si vedano per esempio i ritratti degli albarelli montelupini più antichi con il profilo accentuato, il mento basso, il naso fortemente pronunciato e la capigliatura a masse sovrapposte), tuttavia i tratti somatici sono qui dipinti in modo rapido, corrivo, quasi disgregato. Il decoro a palmetta persiana, realizzato in versione evoluta, è anch’esso tratteggiato in modo rapido, poco accurato, quasi standardizzato. Ma, oltre a questi elementi, è soprattutto la marca a indurci a datare il pezzo attorno agli anni Settanta del ’500: essa infatti, come segnalato da Galeazzo Cora, caratterizza gli esemplari prevalentemente provenienti dal Borgo di Montelupo.

 

 

Stima   € 4.000 / 6.000
33

COPPA

Gubbio, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia in rosso, arancio, giallo, verde, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, bianco e lumeggiature rosse

alt. cm 4; diam. cm 18,7; diam. piede cm 8,5

Sotto la base etichetta stampata “ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782

 

Sbeccatura al piede; lievi sbeccature di usura all’orlo

 

Earthenware, painted in red, orange, yellow, green, cobalt blue, blackish manganese, white, and red highlights

H. 4.8 cm; diam. 18.7 cm; foot diam. 8.5 cm

On the back, printed label ‘ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782’

 

Chip to foot; minor wear chips to rim

 

La piccola coppa, dalla foggia ampia e liscia, ha un bordo dritto e poggia su un piede ad anello basso e svasato, con orlo tagliato a stecca.

L’ornato a pieno campo è realizzato con grande finezza e raffigura San Girolamo penitente nel deserto mentre, inginocchiato in prossimità di una roccia, si percuote il petto con un sasso reggendo la croce nell’altra mano.

Il corpo del santo è dipinto con cura e notevole attenzione nella resa della muscolatura, grazie alle ombreggiature in ocra e in smalto bianco. L’uso dei tocchi di bianco per dare forma ad alcuni dettagli si nota anche nella resa del Cristo sul crocifisso, delineato in solo smalto, e nel ciuffo di fiori sulla roccia alle spalle del santo. Il paesaggio con montagne impervie e paesini è invece meno accurato.

La lumeggiatura è sapientemente dosata e distribuita per dare risalto al personaggio e stesa con maggior densità sul lato destro e nel cielo, quasi a seguire la luce del tramonto. La roccia collocata a incorniciare la figura del santo è anch’essa lumeggiata, evidenziando così il fondo scuro della spelonca, rifugio dell’eremita. La lumeggiatura è presente anche nel retro con una larga fascia a sottolineare l’orlo della coppa.

Il soggetto ebbe molta fortuna nella produzione ceramica istoriata e si annoverano numerosi esempi dipinti anche da pittori illustri, tra i quali lo stesso Xanto Avelli e i suoi seguaci. Un confronto vicino al nostro esemplare è conservato nella donazione Fanfani del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, la cui fonte è una stampa di Reverdino, incisore seguace del Bonasone, dalla quale anche il decoratore della nostra avrebbe potuto trarre ispirazione.

 

Stima   € 6.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

COPPA

Urbino, pittore vicino a Nicola di Gabriele Sbraghe, 1526-1528 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco e bruno di manganese

alt. cm 4,5; diam. cm 27,1; diam. piede cm 11,9

Sul retro della coppa, sotto il piede, iscrizione dipinta in blu “Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase

Numero “79” e simbolo inciso nello smalto

 

Intatta, fatta eccezione per alcune sbeccature all’orlo del piede

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese

H. 4.5 cm; diam. 27.1 cm; foot diam. 11.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase’

Number ‘79’ and symbol incised in the glaze

 

In very good condition, with the exception of some chips to foot rim

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa mostra un cavetto dalla foggia ampia e liscia orlato da un bordo appena rialzato, e poggia su un piede ad anello basso e svasato.

La scena è tratta puntualmente dal dipinto di Raffaello per le Logge Vaticane raffigurante Giuseppe che spiega il sogno al faraone. La fonte incisoria al momento non ci è nota, e poiché le uniche incisioni che raffigurano tale episodio sono datate già alla fine del ’500 si potrebbe pensare a una visione diretta, da parte dell’artista, delle Logge o dei disegni di Raffaello.

L’episodio è descritto nella Bibbia (Genesi 41, 25-31): poiché il faraone aveva fatto ben due sogni senza che i suoi consiglieri fossero riusciti a interpretarli in modo plausibile, fu introdotto a corte l’ebreo Giuseppe quale esperto. Quando il faraone raccontò di aver sognato sette vacche magre che divoravano sette vacche grasse e sette spighe aride che consumavano altrettante spighe grasse, Giuseppe spiegò che stava per scatenarsi sul paese una carestia: a sette anni di abbondanza, ne sarebbero seguiti altrettanti di carestia, ed era dunque il caso di preparare i magazzini per far fronte a questa sciagura.

La scena mostra il faraone seduto e, in alto, sopra la sua testa, due riserve circolari con le immagini dei sogni. Di fronte Giuseppe, e alle sue spalle tre dignitari di corte che discutono animatamente.

Lo stile del pittore è quello di Nicola Gabriele Sbraghe detto Nicola da Urbino. I volti allungati, i profili sottolineati in bruno di manganese, i piccoli occhi resi in nero con un piccolo tocco di bianco, lo scorcio di paesaggio visto attraverso la finestra: ogni cosa ricorda il maestro urbinate, anche se il raffronto con gli esemplari firmati, senza dubbio a lui attribuibili, non convince del tutto.

Questo piatto è esemplare per una rapida rilettura della storia degli studi sulla maiolica marchigiana del ’500. Nella collezione Charles Damiron l’opera era attribuita all’artista, chiamato allora Nicola Pellipario, e datata verso il 1530. Bernard Rackham, nel suo studio sulla collezione Adda, per il modo di dipingere i volti e di stendere i colori l’uno sopra l’altro ipotizzava la mano di Francesco Xanto Avelli, sotto l’influenza di Nicola Pellipario.

È probabile che l’oggetto sia passato in asta nel 1965, dal momento che lo ritroviamo poi pubblicato nel catalogo della collezione dell’antiquario londinese Humphris nel 1967 con la stessa proposta attributiva di Rackham, anche riguardo alla scritta sul retro del piatto, vicina ai modi di Xanto Avelli.

Oggi, alla luce dei nuovi studi riguardo all’esistenza di altre importanti personalità pittoriche nel Ducato di Urbino negli anni compresi tra il 1525 e il 1530, è d’obbligo una certa prudenza attributiva. È indubbio che la suggestione derivante dalla visione dell’opera porti ad ascriverla a un pittore molto prossimo a Nicola da Urbino, ma la lunga iscrizione sul retro con le lettere così ordinate e il modo di delineare la “e” corsiva con un ricciolo verso l’alto non portano con certezza né a Nicola, né all’Avelli.

Quello che colpisce è la fedeltà alla fonte nella realizzazione della maiolica, che ritroviamo anche in oggetti attribuiti a Nicola da Urbino ispirati ai cartoni per arazzi commissionati a Raffaello Sanzio da Leone X, a noi noti attraverso le incisioni di Agostino Veneziano. Si tratta del piatto nella collezione del British Museum con La conversione di Sergio Paolo e di quello con il medesimo soggetto delle Civiche Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco: in entrambi i piatti la scritta ai piedi del trono spiega l’episodio evangelico nel quale l’apostolo converte il proconsole dell’Asia. Dal confronto, emerge l’influenza di Nicola di Gabriele Sbraghe, così come in alcune opere dell’Avelli realizzate in quel periodo storico.

Timothy Wilson (che ringraziamo) ci ha suggerito l'evidente vicinanza di quest'opera con la splendida coppa che precede (lotto 34 di questo catalogo).

L'associazione con il “gruppo del 1526” a cui abbiamo accennato nella scheda precedente deriva, come abbiamo visto, dal confronto con un piatto con soggetto biblico, opera di un pittore attivo nella manifattura eugubina di Mastro Giorgio.

Il piatto di confronto mostra notevoli analogie anche con la coppa in analisi. Il volto del giovane inginocchiato e quello dell’altro personaggio dipinto sul lato destro rivelano forti affinità con quello del protagonista della nostra opera; analogamente il volto del faraone s’avvicina a quello del personaggio più anziano del piatto di confronto.

La coppa s’inserisce pertanto a pieno titolo nel gruppo di opere che John Mallet assegna alla mano di un unico pittore, spesso confuso con Nicola da Urbino per la forte vicinanza stilistica con il maestro urbinate, e che lo studioso inglese chiama “pittore di Enea in Italia”.

La coppa in analisi potrebbe pertanto costituire un fondamentale esempio di opera non lustrata, o non ancora lustrata, del pittore di Fetonte o del pittore di Enea in Italia.

Resta comunque indiscutibile che l’attribuzione troverà nella scritta presente sul retro una validissima testimonianza della calligrafia del pittore stesso.

Le notizie che abbiamo sulla provenienza dell’oggetto, in parte già indicate, sono le seguenti: esso è dato come presente nelle collezioni Damiron e H.S. Reitlinger, fu quindi venduto nel 1938 e poi nel 1954, per entrare a far parte della collezione Adda; di qui, con la vendita della celebre raccolta, la coppa passò poi nella collezione Cyril Humphris nel 1967.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
36

COPPA

Urbino, bottega di Nicola di Gabriele Sbraghe, 1530-1535 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bianco e bruno di manganese nei toni del marrone e del nero

alt. cm 3,5; diam. cm 25,5; diam. piede cm 10,9

Sul retro sotto il piede iscrizione in corsivo “Circero Glaucho. In./ Cantatricie” e simbolo

Numero manoscritto “5335” ripetuto due volte sul lato del piede

 

Sbeccatura sull’orlo in alto a destra

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, white, and brownish and blackish manganese

H. 3.5 cm; diam. 25.5 cm; foot diam. 10.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Circero Glaucho. In./ Cantatricie’ and a symbol

Two numbers ‘5335’ hand-written on the side of the foot

 

Chip to rim at 1 o’clock

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa, poggiante su piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. Sul verso, decorato da linee concentriche gialle a sottolineare i profili, è delineata all’interno del piede la scritta “Circero Glaucho. In./ Cantatricie”.

La scena mostra Circe seduta davanti al suo palazzo, raffigurato secondo i dettami dell’architettura rinascimentale, a colloquio con Glauco, appoggiato al fusto di un albero. Alle spalle dell’uomo un albero dal tronco ricurvo chiude la scena. Sullo sfondo, un paesaggio marino con una scogliera e una città turrita: lo stretto è quello che sorveglia il confine tra la Sicilia e la terraferma, e la città potrebbe essere l’antica Zancle (Messina) o Reggio Calabria.

In Ovidio (Ov., Met., XIII-XIV) lo scenario è familiare: il palazzo di Circe, figlia del Sole, si leva su colli erbosi nelle acque del Tirreno, e Glauco, un pescatore, ha percorso un lungo tratto di mare per venire a colloquio con la maga: in questa raffigurazione egli è ancora umano, non si è ancora mutato in divinità marina. Glauco ama Scilla, che però non si lascia persuadere a cedergli: per il “dio-pescatore”, alla ricerca di una formula d’amore, la soluzione è quella di rivolgersi a Circe. A questo punto, però, è la dea figlia del Sole che desidera Glauco: per questo gli offre di assecondare con un solo gesto chi lo ama e, contemporaneamente, di vendicarsi di chi lo disprezza. Il giovane rifiuta e ciò fa infuriare la maga, che mormorando un sortilegio muta la rivale in un mostro. Questo però non gli serve a ottenere il favore di Glauco, che invece fugge piangendo la perdita dell’amata.

Il soggetto è dipinto con una copiosa quantità di materia: il manganese abbonda ed è quasi a rilievo, ma anche il blu del mare che si fonde con le montagne è abbondante, steso con pennellate parallele. Il verde dell’erba è invece diluito e mosso da sottilissime pennellate scure, mentre il terreno è reso in ocra, come pure i capelli delle figure e il manto di Circe. Il tendaggio che chiude la scena sulla sinistra è realizzato in verde ramina scuro, lumeggiato con giallo antimonio. Su un tale sfondo le figure risultano quasi eteree, dalle forme elegantemente allungate, di colore chiaro, con muscolatura lumeggiata in bianco e con lievi ombreggiature ocra; i volti e i tratti fisiognomici sono invece sottolineati da una sottile linea scura. Il cielo sullo sfondo è movimentato da una nuvola scura sagomata con piccole volute a chiocciola. Protagonisti, insieme ai personaggi, sono un albero dal tronco sinuoso, molto nodoso alla base, e l’architettura, con il fornice alto e scuro, gli ampi cornicioni e la finestra a occhio, chiusa da una barra a croce, realizzata in smalto stannifero.

Le affinità con oggetti ormai unanimemente attribuiti al pittore marchigiano sono molte: il piatto con donna, unicorno e cavaliere del Museo Correr, per esempio, ci ricorda, per la posa e l’atteggiamento delle figure, la scena raffigurata sulla nostra coppa.

La stessa quinta architettonica è presente invece nel piatto con scena biblica, lustrato a Gubbio e datato “1524”, di cui abbiamo diffusamente parlato nelle schede che precedono (vedi lotti 34 e 35 di questo catalogo): tale piatto fa comunque parte di una serie probabilmente dipinta nella bottega di Mastro Giorgio da pittori prossimi a Nicola da Urbino.

Di grande interesse infine il confronto con una coppa ad orlo estroflesso del Museo Civico Medievale di Bologna che reca sul verso l'iscrizione “quando Aenea uene/ in Italia”. L'opera condivide con quella in esame forma, materia e stile pittorico: si vedano il modo di sottolineare i volti con un tratto scuro, i capelli disposti sul capo delle figure maschili a formare un ciuffo allungato sulla fronte e le braccia affusolate che terminano in mani allungate, ma anche la coincidenza nel modo di dipingere le architetture e soprattutto la presenza del tendaggio verde, foderato di giallo, che mostra notevoli affinità con quello presente sulla coppa in esame. Ravanelli Guidotti proponeva per questo oggetto un'attribuzione alla bottega di Guido Durantino e al periodo cronologico compreso tra il 1528 e il 1530; tuttavia, la studiosa ricordava come la scritta sul retro, secondo Liverani, richiamasse quella di alcuni piatti attribuiti a Nicola da Urbino. Nella stessa scheda Ravanelli Guidotti rammentava come Polidori avesse a suo tempo assegnato la coppa del museo bolognese alla paternità di Nicola da Urbino, all’epoca chiamato ancora Pellipario.

Proprio in base a questo confronto John Mallet ha recentemente asserito che questo piatto sia dello stesso pittore qui ricordato per i lotti 34 e 35, e ha avanzato il nome di “pittore di Enea in Italia”.

Timothy Wilson, dal canto suo, ci ha detto di ritenere che tale piatto sia più vicino nello stile a quello di Nicola rispetto agli altri due.

Importante a questo punto l’analisi della calligrafia sul verso della nostra coppa. La “c” allungata, a capoverso, posta a racchiudere quasi l’intera frase e la “h” con astina molto alta ci ricordano il piatto bolognese con Enea in Italia.

La sigla di bottega posta alla fine dell’iscrizione, pur se con alcune variazioni, ci pare simile a quella presente nel piatto con Astolfo, oggi in una collezione tedesca, attribuito a Nicola da Urbino, che presenta anche una grafia simile a quella del nostro esemplare.

La coppa apparteneva alla collezione Adda, nel cui catalogo è pubblicata come piatto urbinate databile al 1530 circa per le affinità con un pezzo del servizio con stemma Montmorency attribuito alla bottega di Guido Durantino, e proveniente dalla collezione Henry Harris.

Anch’essa passò da Humphris nel 1967 in occasione della mostra dedicata agli oggetti provenienti dalla collezione Adda.

 

Stima   € 30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

COPPA

Castel Durante o Urbino, 1520-1525

 

Maiolica decorata in policromia con blu, giallo, arancio, rosso, bianco e bruno di manganese nei toni del nero

alt. cm 4,7; diam. cm 21; diam. piede cm 9

Sul retro etichetta lacunosa con scritta in inchiostro “…-94… ART.30/...BIO...CENTUR/ BARON DE ROTHC.../COLLECTION”; altra etichetta stampata, con numeri in inchiostro “S.B. Lot No. 947/ Art. No. 30

 

Intatto; sbeccature da usura all'orlo con cadute di smalto che lasciano intravedere la terracotta color camoscio scura e i segni di lavorazione al tornio

 

Earthenware, painted in blue, yellow, orange, red, white, and blackish manganese

H. 4.7 cm; diam. 21 cm; foot diam. 9 cm

On the back, label hand-written in ink ‘…-94... ART.3/...BIO...CENTUR/ BARON DE ROTH.../COLLECTION’; printed label with hand-written in ink ‘S.B. Lot No. 947/ Art. No. 30’

 

In very good condition; wear chips to rim with some glaze losses through which one can see the dark buff earthenware body and the wheel marks

 

La coppa, su basso piede, presenta sul recto una decorazione che interessa l’intera superficie: essa ritrae un condottiero con un elmo da parata ornato da volute fogliate e dotato di una visiera a forma di mascherone: il ritratto maschile è di un giovane, raffigurato di profilo, che indossa, sopra una camiciola pieghettata, una lorica sulla quale s’intravvede un decoro a rilievo. Tutt’intorno corre un nastro, ad andamento sinuoso, sul quale si legge il nome “ASTOLFO” in lettere capitali.

Il volto è reso in bianco sopra bianco per rendere l’incarnato chiaro, quasi traslucido; lo sguardo pacato e la bocca semiaperta danno l’impressione di una quiete che contrasta con la figura di guerriero. L’elmo, la lorica e la camiciola emergono grazie a sapienti pennellate e ad un’accorta sovrapposizione dei colori che rendono perfettamente il chiaroscuro. La figurina spicca su un fondo interamente dipinto di blu. Si ritiene che l’elmo indossato dal personaggio sia stato inventato da Verrocchio o da Leonardo: era un copricapo diffuso sulle monete o sulle medaglie con ritratti “all'antica”, ma anche in incisioni e nielli. Poiché ci piace pensare che il pittore, nel dipingere il personaggio qui raffigurato, si sia ispirato al paladino di Carlo Magno protagonista di imprese memorabili nelle grandi opere epiche del Rinascimento, la fonte d’ispirazione letteraria sarebbe da ricondurre agli anni tra il 1483 e il 1532, arco cronologico in cui sono compresi sia l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo che l’Orlando il Furioso di Ludovico Ariosto: Astolfo personaggio dal carattere impulsivo, è protagonista di imprese memorabili in entrambe le opere.

Le coppe di questa tipologia sono numerose e si presentano con caratteri morfologici e stilistici differenti, a conferma della diffusione e del successo di questa foggia con ritratti maschili e femminili: oggetti analoghi sono presenti in molti musei italiani e stranieri.

Il lavoro di confronto ci porterebbe ad avvicinare l’opera alla coppia di coppe con “Ruggero” e “Filomena” conservata al Metropolitan Museum of Art di New York databili al primo quarto del XVI secolo e ricondotte alle botteghe artigiane attive in particolare a Castel Durante, l’attuale Urbania.

Jörg Rasmussen nel 1989 ha individuato e attribuito al Maestro Giovanni Maria Vasaro dodici piatti decorati con ritratti di profilo di tipo analogo, conservati in importanti collezioni private e museali, rigettando la tradizionale attribuzione a Nicola di Urbino, e retrodatando la serie agli anni 1510-1520. Proprio in questa serie è pubblicato il nostro esemplare, segnalato come proveniente dalla collezione William Randolph Haerst di New York e all’epoca con collocazione sconosciuta.

Lo stesso Rasmussen nel presentare un altro piatto della stessa collezione Lehman con il ritratto di “Livia Bella”, tipologicamente affine, lo attribuisce invece al “Pittore in Castel Durante”, datandolo agli anni Trenta del ’500, distinguendo pertanto già due serie, con attribuzione a due pittori diversi. Alcuni studiosi, tuttavia, preferiscono mantenere comunque per questa tipologia di opere l’attribuzione al “Pittore in Castel Durante” mantenendo la datazione agli anni Venti del secolo XVI.

Thornton e Wilson nel recente catalogo del British Museum, considerando che nessuna di queste attribuzioni possa essere ritenuta definitiva, raggruppano con grande perizia la serie con sette coppe con ritratti femminili e undici con ritratti maschili, cui va associato un frammento del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

COPPA

Pesaro, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, verde rame, bianco e bruno di manganese nei toni del violaceo e del nero; tracce di verde sul retro

alt. cm 6,6; diam. cm 27,5; diam. piede cm 12,5

Sul retro etichetta ovale stampata “ANTICHITÀ Petreni VIA RONDINELLI 7R FIRENZE

 

Intatta; sbeccature e usure al piede; piccole sbeccature all’orlo

 

Earthenware, painted in yellow, yellowy orange, blue, copper green, white, manganese purple, and blackish manganese; on the back, remains of green colour

H. 6.6 cm; diam. 27.5 cm; foot diam. 12.5 cm

On the back, oval printed label ‘ANTICHITÀ Petreni VIA RONDINELLI 7R FIRENZE’

 

In very good condition; chips and wear to foot; minor chips to rim

 

La coppa, dal piede basso e leggermente svasato presenta un ampio cavetto piano con orlo appena rilevato. La decorazione, su smalto sottile bianco leggermente azzurrato, interessa l’intera superficie e rappresenta una battaglia; sullo sfondo, incorniciato tra un albero e una roccia, un paesaggio lacustre con colline è centrato da una città fortificata.

Le scene di battaglia sono spesso raffigurate sulle ceramiche istoriate, ma le modalità pittoriche rapide e corrive non ci hanno permesso fino ad ora di individuare una precisa iconografia di riferimento. Tuttavia proprio le modalità pittoriche e aiutano nel confronto con una coppa di manifattura pesarese che presenta caratteristiche stilistiche molto simili: si vedano, oltre alla resa pittorica, alcuni dettagli nel modo di raffigurare i corpi e le armi, come ad esempio lo scudo ellittico in primo piano, disegnato in modo molto ingenuo, presente in entrambi gli oggetti. La coppa di confronto, raffigurante la caccia al cinghiale calidonio e conservata nei Musei Civici di Pesaro, presenta architetture in lontananza dipinte in modo approssimativo, sproporzionate rispetto alle montagne poste a ridosso dei paesi. In primo piano le rocce color ocra hanno profili arrotondati e il terreno è reso pittoricamente con un’alternanza di ocra e di verde rame intenso, mentre i dettagli sono sottolineati con abbondanti pennellate di manganese.

Riteniamo corretto, dunque, assegnare il nostro esemplare alla stessa mano della coppa di Pesaro, in più occasioni citata dalla letteratura alla ricerca di un’attribuzione differente dalla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce. Ci piace proporre una sua immagine com’era stata pubblicata nel catalogo dell’originaria collezione di Charles Damiron.

Si ha traccia di un passaggio della coppa in esame alla casa d’aste Christie’s, con l’attribuzione a Urbino e una datazione agli anni attorno al 1545.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

COPPA

Urbino o Ducato di Urbino, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, turchino, verde, bruno di manganese e bianco

alt cm 4,5; diam. cm 26,5; diam. piede cm 12,5

 

Sotto il piede, iscrizione dipinta in blu “L”, e, più in basso, come a seguito di un ripensamento, “La Visione di Jacob

 

Intatta; lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, yellowy orange, blue, turquoise, green, manganese, and white

H. 4.5 cm; diam. 26.5 cm; foot diam. 12.5 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘L’ and further down ‘La Visione di Jacob’

 

In very good condition; minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Coppa con ampio cavetto, bordo rilevato e orlo appena svasato, arrotondato e listato in giallo. Il piede è basso e ad anello, con orlo arrotondato. Il decoro è realizzato con colori tenui, molto diluiti, e ritocchi sottili a punta di pennello estremamente curati a sottolineare i lineamenti, i capelli con riccioli, i piedi, le mani e i contorni degli occhi lumeggiati in bianco. Tratti sottili rimarcano anche alcuni dettagli del paesaggio.

La scena riproduce il passo della Bibbia (Genesi 28, 10-18) che narra come Giacobbe, in viaggio per Betsabea, stesse dirigendosi verso Carran. Fermatosi per trascorrere la notte, prese una pietra e la pose come guanciale. Fece quindi un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa e il Signore gli diceva che la terra su cui si era coricato sarebbe stata della sua discendenza. Allora Giacobbe, destatosi dal sonno, riconobbe quel luogo come la sua patria, si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità.

La coppa, decorata sull’intera superficie, era stata attribuita a una bottega faentina vicina a Baldassare Manara. Oggi non ci pare che quest’attribuzione possa essere ancora ritenuta valida. La disposizione del decoro e le modalità compositive e stilistiche fanno pensare piuttosto che si tratti di un’opera di bottega marchigiana.

Si tratta di una foggia variamente utilizzata in tutto il ducato, e molte sono le affinità con opere pesaresi. A questo proposito colpisce la somiglianza con la coppa con Vulcano e Venere attribuita alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce conservata alla Galleria Estense di Modena, in cui si nota la presenza di rami delineati in bruno di manganese e di un volo di uccelli che ricordano quelli presenti sul nostro esemplare. Ci pare poi interessante anche il confronto con una coppa con Gesù nel Giardino degli Ulivi presente nel 1974 nella collezione del Museo di Cluny a Parigi, in cui ci sembra di poter ravvisare qualche affinità con l’oggetto in esame: la coppa non ha attribuzione, ma viene assegnata a un arco cronologico attorno alla metà del secolo XVI.

Altro confronto può essere fatto con un piatto raffigurante la morte di Narciso e conservato al Museo di Philadelfia ascritto ad area metaurense e datato tra gli anni 1530 e 1540. Sono molto simili il modo di rendere i volti rivolti verso l’alto, in cui il naso diventa un segno triangolare, le mani dalle dita allungate, alcune sproporzioni nel rappresentazione di spalle delle figure, la presenza di grossi blocchi di pietra nel paesaggio e di sottili steccati realizzati con un leggero tratto, il paesaggio con casette dal tetto rosso unite tra loro da ponti sottili, e la presenza di stradicciole dall’andamento sinuoso coperte da ciottoli arrotondati.

Pur mancando riscontri precisi, è evidente che la nostra coppa sia un esemplare di grande qualità formale e tecnica, confermata da numerosi elementi: la particolare perizia nel delineare i volti, che ci ricorda alcune opere della bottega dei Fontana, l’uso sapiente del bianco nel sottolineare alcuni tratti del viso dei personaggi, la disposizione della scena su tutta la superficie senza alcun scadimento o sproporzione dovuti al mutare della forma, l’accorto uso dei colori.

La coppa è transitata sul mercato antiquario nel 1962 in un’asta londinese.

Si riscontra infine una certa affinità stilistica con il piatto con San Girolamo del Museo Civico Medievale di Bologna datato 1542. Si vedano per esempio, alcune anomalie prospettiche nel paesaggio e soprattutto l'aggiunta di elementi paesaggistici quali i blocchi di pietra squadrati, ma soprattutto il cespuglio ramificato, quasi privo di fogliame, con caratteristiche pittoriche molto prossime a quello rappresentato nella nostra coppa. Una certa affinità si intuisce anche nelle figure e in particolare nella realizzazione delle mani.

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

COPPA

Ducato di Urbino o Urbino, “1549”

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, ocra, arancio, turchino, blu, verde e bruno di manganese; sbavature di verde ramina sul retro

alt. cm 8,8; diam. cm 32,4; diam. piede cm 12,9

Sul retro, sotto il piede iscrizione “Ovidio narra/ del parto de Mirra. 1549

Sul retro, sotto il piede parte di cartellino con manoscritto il numero “5386

 

Rotture della tesa in alto, felature e incollature stabilizzate con restauro archeologico

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, ochre, orange, turquoise, blue, green, and manganese; on the back, remains of green colour

H. 8.8 cm; diam. 32.4 cm; foot diam. 12.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Ovidio narra/ del parto de Mirra. 1549’

On the back, beneath the base, remains of a hand-written paper tag ‘5386’

 

Cracks, hairline cracks, and reglued damages, consolidated using archaeological restoration

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa poggia su un basso piede ad anello poco svasato, listato in giallo sulla parte esterna; il cavetto è ampio, concavo e ha un bordo obliquo appena rilevato, con labbro arrotondato. Sul retro, al centro del piede, è visibile in corsivo la scritta “Ovidio Narra/ del parto de Mirra. 1549”.

Sul fronte la decorazione si sviluppa su tutta la superficie della coppa: in basso a sinistra, davanti ad architetture rinascimentali, Cinira, un cipriota nativo di Pafo, insegue la figlia Mirra per ucciderla, dopo aver scoperto che la stessa, aiutata dalla nutrice Lucina, qui raffigurata mentre esce dal palazzo sorreggendo una fiaccola, l’ha sedotto con l’inganno. Al centro della scena, inserito in un paesaggio lacustre con montagne rocciose e paesini, è rappresentato il soggetto principale della narrazione: la nascita di Adone o, come recita la scritta sul retro, “il parto di Mirra”: Mirra, infatti, trasformata in albero per sfuggire alla vendetta del padre, partorisce Adone tra le braccia di Lucina e delle Naiadi. Adone è quindi ritratto, in primo piano a sinistra, mentre riposa con Venere all’ombra di un albero, a raffigurare un’altra parte del mito.

Il cielo è reso con pennellate larghe e diluite, mentre il paesaggio è caratterizzato da diverse colline; le figure hanno corpi massicci e muscolosi, con polpacci arrotondati, piedi lunghi e sottili e tratti fisiognomici ben marcati; gli elementi architettonici sono realizzati con cura.

La decorazione istoriata presenta una narrazione simultanea di più episodi del mito narrato, quello di Mirra e Cinira (Ov., Met., X, 298-502) e quello di Venere e Adone (Ov., Met., X, 503-559; 681-739). Le fonti incisorie del piatto, non ancora identificate, sembrano essere diverse, ma comunque, almeno per l’episodio del parto, sono probabilmente derivate dalle versioni in volgare del testo di Ovidio.

Il soggetto ebbe un buon successo nel ’500 e lo troviamo riprodotto con diverse interpretazioni in numerose opere, come ad esempio nella coppa con Cinira e Mirra del Victoria and Albert Museum, attribuita al “Pittore del servizio della Rovere” e databile al 1540, che raffigura la stessa scena con modalità stilistiche scenografiche meno pacate.

In base al confronto stilistico con alcune opere coeve e concentrando la ricerca nell’ambito urbinate, ci pare di poter attribuire la coppa alla bottega dei Fontana e nella fase iniziale di attività, cioè al periodo in cui, sotto la guida di Guido Durantino, vi lavorarono numerosi pittori.

Il pittore è abile, la scena è impostata con grande attenzione per la composizione e le figure, ben proporzionate, sono realizzate con cura; gli incarnati sono schiariti con l’applicazione di bianco sopra il color carne, a sottolineare la muscolatura e i dettagli anatomici.

Interessante il confronto tra la figura di Cinira sulla coppa in esame e lo Zeus dipinto su una fiasca da pellegrino con narrazione del ratto di Europa del Museo di Weimar: il dio, pur essendo raffigurato in una posa differente, mantiene caratteristiche stilistiche molto prossime al personaggio del nostro oggetto: si vedano in particolare la forma dei piedi, il modo di sottolineare i tratti fisiognomici con sottili tocchi di bruno, e il panneggio aggiunto al corpo o che gira intorno ad esso. Ugualmente significativo per le molte affinità il paragone tra le figure femminili rappresentate su questa coppa, in particolare quella di Diana che giace distesa appoggiata ad Adone, e quella di Callisto, che compare su un’altra fiasca del Museo di Weimar: si osservino per esempio il corpo muscoloso, il ventre e il seno arrotondato, il volto paffuto con la bocca semichiusa, il naso piccolo, i capelli raccolti, ma soprattutto il modo accorto nel dosare i colori, nel lumeggiare le carni e altro ancora. Le due fiasche del Museo di Weimar sono databili attorno alla metà del secolo e quindi ancora associabili alla nostra coppa.

Ma anche il raffronto con opere della bottega realizzate negli anni successivi ci rassicura nel confronto, quasi ci fosse una direttiva comune nella scelta dei soggetti e nella “maniera” di utilizzare la materia. In una fiasca da pellegrino del Museo del Vino di Torgiano, anch’essa attribuita agli anni 1560-1570 della bottega Fontana, è raffigurata una divinità con lunga barba bianca con le stesse caratteristiche fisiognomiche dei due personaggi precedentemente descritti, ma rese con una modalità pittorica più di maniera, e un po’ più corriva. Anche il volto della divinità seduta, quasi al piede della bottiglia, mostra un volto che richiama quello di Lucina nella nostra coppa. La fiasca ha una forma che diverrà usuale nella bottega dei Fontana e che sarà utilizzata fino agli anni Settanta del secolo, ma la mano del pittore appare ancora differente.

Anche il riscontro con le divinità fluviali dell’importante vaso firmato da Orazio Fontana, proposto al lotto 54 di questa vendita, mostra analogie tra le figure, ma non quelle affinità stilistiche tali da condurci ad attribuire l’opera a uno dei primi momenti della produzione della nuova bottega Fontana di Urbino, già attiva dopo il 1545.

Proprio le caratteristiche stilistiche nel delineare i corpi ci hanno portato ad indagare anche nella zona di produzione pesarese, ma i confronti fino ad ora effettuati non ci hanno soddisfatto. Un’indagine più accurata in quest’ambito potrebbe probabilmente condurre a un’attribuzione più certa. Per il momento ci limitiamo a segnalare che il raffronto calligrafico della scritta con opere di Sforza di Marcantonio trova delle marcate affinità. Si confronti il modo di scrivere la lettera “Q” iniziale dell’iscrizione, caratterizzata da un decoro che ne “barra” il cerchio, con una “P” iniziale, anch’essa decorata da una sottile barra, che ritroviamo in un’opera attribuita allo stesso autore e raffigurante Diogene e Alessandro, ora conservata nella raccolta della Cassa di Risparmio di Perugia: tutto l’andamento della scritta è molto simile, come pure il modo di separare la data dell’opera tra due punti. Il pittore, nativo di Castel Durante, è menzionato per la prima volta a Pesaro il 17 maggio del 1548 e qui lavorerà e trascorrerà tutto il resto della vita producendo molto. Alcune sue opere sono spesso firmate con una sola “S”, mentre se ne conoscono soltanto due firmate per intero, una delle quali datata 1567 è conservata al British Museum. L’opera appartiene a un periodo più tardivo della produzione del pittore e presenta tratti marcati, nonché la raffigurazione in un interno architettonico, tipica della produzione dell’artista quanto meno dopo il 1530. Ciononostante, il confronto tra il volto dell’Onnipotente e quello di Cinira della nostra coppa non delude, come pure quello tra la “paffuta” pacatezza del viso dell’Annunciata e l’espressione della Lucina e delle figure femminili dell’esemplare in esame.

Certo nel “parto di Mirra” l’influenza urbinate è veramente molto marcata, tanto da lasciare l’attribuzione ancora sospesa, senza con questo nulla togliere all’indiscutibile qualità e importanza dell’opera.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
47

COPPA O "SCUDELLA"

Pesaro, Sforza di Marcantonio, “1551”

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, turchino, blu, verde ramina, bruno di manganese nei toni del nero e del marrone e bianco

alt. cm 4,2; diam. cm 22,6; diam. piede cm 10

Sul retro, sotto il piede, iscrizione “De Alcione la vision/ tremenda: e vera 1551

 

Intatto, salvo lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, yellow, turquoise, blue, copper green, blackish and brownish manganese, and white

H. 4.2 cm; diam. 22.1 cm; foot diam. 10 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘De Alcione la vision / tremenda: e vera 1551’

 

In very good condition, with the exception of some minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa ha ampio cavetto e tesa breve molto alta con orlo aggettante. Il piede è basso, ad anello e con profilo concavo. Il retro del piatto non presenta decorazioni, salvo la scritta corsiva in blu di cobalto all’interno del piede.

Sul fronte è raffigurato il momento in cui Alcione, distesa sul letto posto al margine destro del piatto, vede in sogno la morte del marito sotto gli occhi della dea Diana, sua acerrima nemica; sul lato sinistro si sviluppa la scena che mostra il naufragio di Ceice, in un paesaggio marino con un porto sullo sfondo. In alto, seduta su una corona di nuvole a chiocciola, la divinità ostile è raffigurata accompagnata da un pavone, suo simbolo distintivo.

Una mattina, durante una passeggiata nel bosco, la giovane Alcione si distese sull'erba soffice per asciugarsi al sole. La sua bellezza attirò i molti abitatori del bosco, che la scambiarono per Diana. Alcione, mossa da vanità, accettò gli elogi senza rivelare chi fosse veramente, e non lo fece neppure dopo la comparsa della vera dea, evitando di chiarire l’equivoco. La dea scatenò allora la sua ira implacabile, inviando sciagure al popolo di Trascina. Ceice, sposo di Alcione, per placare l’ira della dea andò quindi a interrogare l’oracolo di Apollo. Tre mesi dopo la partenza del marito apparve in sogno ad Alcione un messaggero alato, Morfeo, che le annunziò la morte dello sposo avvenuta tra le onde, durante la traversata. Alcione, svegliatasi di soprassalto, corse al mare e salì sullo scoglio più alto per scrutare lontano: ad un tratto le parve di veder galleggiare un corpo, e disperata si gettò in mare. In quello stesso momento Giove si mosse a pietà e, proprio mentre Alcione si lanciava nel vuoto, le donò due ali che le permisero di librarsi dolcemente nell’aria. Come per incanto, spuntarono due ali anche sul corpo galleggiante di Ceice, che fu visto sollevarsi dalle acque e andare incontro alla sua sposa. Fu così che nacquero nel mondo gli alcioni, uccelli che con il privilegio di fare il nido sulle stesse onde del mare.

Il soggetto, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (Ov., Met. XI, vv. 592-749), non è tra quelli più frequentemente riprodotti nelle opere in maiolica, ma si conosce tuttavia un bellissimo piatto con il medesimo soggetto e la stessa frase dipinto da Francesco Xanto Avelli.

La forma e le caratteristiche stilistiche del decoro, quali l’attenzione nella resa dei particolari architettonici – come i vetri delle finestre, i mattoni, il cornicione e la cupola sul letto a baldacchino – e la cromia, con il sapiente uso delle lumeggiature bianche, ci portano a pensare ad una buona mano e comunque ad una bottega importante in ambito urbinate o nei confini del Ducato.

La forma è attestata come in uso nel Ducato e trova alcuni riscontri in manufatti attribuiti alle botteghe pesaresi: tale attribuzione sembra suffragata dal raffronto con le opere del pittore Sforza di Marcantonio de Julianis, originario di Castel Durante ma attivo a Pesaro a partire dal 1548, i cui lavori più noti sono databili negli anni Cinquanta del ’500, considerato uno dei seguaci di Francesco Xanto Avelli e dal quale sembra mutuare alcune composizioni.

In quest'ambito troviamo un confronto puntuale in un pezzo conservato all’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig: si tratta di un piatto raffigurante il re di Lidia che mostra la propria donna al suo futuro successore Gige, attribuito alle manifatture di Pesaro; sul retro si sviluppa un’iscrizione con caratteri grafici assai prossimi a quelli del nostro esemplare nella resa della “S”, e soprattutto con la stessa data (“1551”), scritta nel medesimo modo. In entrambe le opere la scena d’interno comprende delle finestre con vetri a piombo, un soffitto a cassettoni e un letto a baldacchino realizzati con uno stile pittorico omogeneo.

Johanna Lessmann propone un confronto con un piatto della Walters Art Gallery di Baltimora che ci pare pertinente; e si veda anche la coppa firmata e datata 1551 conservata nei Musei Civici di Padova.

Un bel piatto del Museo di Philadelphia sul quale è raffigurata la scena della morte di Cassandra, ci conferma ancora l’attribuzione a Sforza di Marcantonio: il volto di Cassandra ci pare molto prossimo a quello della divinità e così pure le architetture, come il baldacchino, le finestre, il muro di mattoni realizzato in bruno di manganese e il dettaglio dei gradini del letto riquadrati. Ma soprattutto ancora una volta molto simile a quella del piatto in esame è la grafia della scritta sul retro del, recante anch’essa la data “1551”.

L’ultima e definitiva conferma a supporto di questa attribuzione ci deriva dal confronto con la coppa di dimensioni minori del British Museum con Astage e Mandane, di recente pubblicazione, anch’essa datata 1551, con evidenti affinità stilistiche e con simile grafia sul retro.

La coppa dunque per morfologia e stile si inserisce in una serie di opere, accomunate da grande uniformità e assegnate al pittore durantino Sforza di Marcantonio, tutte ugualmente datate nell’anno 1551.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
34

COPPA SU ALTO PIEDE

Gubbio, lustro firmato da Mastro Giorgio Andreoli, “1526”

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, blu, turchino, verde, rosso, arancio e bruno di manganese; lustro rosso e oro

alt. cm 6; diam. cm 31,5; diam. piede cm 12,6

Sul retro, in lustro dorato, è dipinta la sigla “1526/M°G°

Sul retro piccola etichetta di carta con stampa “ON LOAN FROM” e iscritta a china “The Rev.o S Berney”; grande etichetta, poco leggibile, con la seguente scritta a china “Berney collection/ The Taddea da Carrara Della Scala/ Giorgio/ After Marc Antonio from Raphael/ The portrait of Taddea della Scala (who is being led/ to the Saviour in token of her great charity as foundress/ of the great Casa di Pietà at Verona) is taken from/ a grotesque picture which is over the altar in the/ church as S. Anastasia in Verona which represents/ Mastino II (prince of Verona) Della Scala & Taddea/ da Carrara, his wife kneeling before the Virgin./ The landscape […] the bridge to the fortress of Verona/ the Castellum Vetus, the old castle & the further parts of/ the tower seen in the distance to the right/ the Episcopal palace with its […]/ are […] visible/ R.S.Berney”

 

Intatta

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, blue, turquoise, green, red, orange, and manganese; red and golden lustre

H. 5.3 cm; diam. 31.5 cm; foot diam. 12.6 cm

On the back, ‘1526/M°G°’ painted in golden lustre

Small paper printed label ‘ON LOAN FROM’ with hand-written in black ‘The Rev.o S Berney’; small label hand-written in black ink ‘In Rev.o S Bernay’/ ‘18’; larger label (hardly readable) hand-written in black ink ‘Berney collection/ The Taddea da Carrara Della Scala/ Giorgio/ After Marc Antonio from Raphael/ The portrait of Taddea della Scala (who is being led/ to the Saviour in token of her great charity as foundress/ of the great Casa di Pietà at Verona) is taken from/ a grotesque picture which is over the altar in the/ church as S. Anastasia in Verona which represents/ Mastino II (prince of Verona) Della Scala & Taddea/ da Carrara, his wife kneeling before the Virgin./ The landscape […] the bridge to the fortress of Verona/ the Castellum Vetus, the old castle & the further parts of/ the tower seen in the distance to the right/ the Episcopal palace with its ” […]/ are […] visible/ R.S.Berney”

 

In very good condition

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa, dalla foggia ampia e liscia, è orlata da un bordo appena rialzato e poggia su un piede ad anello basso e svasato.

Sul retro, la coppa presenta delle decorazioni a lustro con spirali fogliate e la marca “M°G°” della bottega di Mastro Giorgio Andreoli, associata alla data 1526.

Sul fronte in primo piano, su una ripida scalinata sale Marta che accompagna la giovane Maria Maddalena introducendola al Cristo. Questi, benedicente, siede su un trono dai braccioli di forma leonina, collocato tra due colonne. Molti spettatori assistono alla scena mostrando perplessità: i quattro apostoli attorno al Cristo, e – in basso - due gruppi di figure ne discutono animatamente. A sinistra, una quinta è formata da una libera composizione di elementi architettonici, con archi spezzati, portali e finestre. Lo sfondo presenta un complesso gioco paesaggistico: a sinistra un’altura con strade, porte urbane ed edifici disordinatamente collocati a diverse altezze, sormontata da una figura di erma. A destra, dietro un’ampia area pratosa col sentiero a zigzag e un forte steccato, si apre un profondo paesaggio con fiumi, una città murata dominata da un castello turrito, un’alta montagna pietrosa e un leggero profilo montuoso in lontananza. Il cielo scende alleggerendo il tono blu fino al giallo nell’incontro degli ultimi monti. Piccoli cirri nuvolosi si muovono lasciando chiare scie.

Marta, centro narrativo della composizione, porta una veste gialla con manto nerastro, permettendo così alla forza cromatica della veste blu e del manto giallo-arancio e rosso di Maddalena una superiore potenza visiva. Anche la combinazione cromatica delle vesti del Cristo ne esalta la figura: rosa, arancio e viola. L’accordo nei colori è impreziosito dall’uso dei pregiati lustri metallici in rosso e oro di Mastro Giorgio Andreoli che appone la sua marca sul retro, unitamente alla data. Con questa tecnica un finissimo tessuto di ornati arricchisce l’intera scena: profila le architetture, lumeggia cielo e montagne, decora i tessuti degli abiti delle figure fino a ingioiellare la bellezza femminile della Maddalena.

Il soggetto è ricavato dall’incisione di Marcantonio Raimondi nota come la Madonna della scala, tratta dalla composizione eseguita dopo la morte di Raffaello da Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni e terminata da Perino del Vaga per la lunetta della cappella di Trinità dei Monti a Roma.

L’incisione è utilizzata integralmente per quanto riguarda i personaggi, salvo per lo stile dei volti, alcuni resi più anziani. Il paesaggio e le architetture, invece, si discostano dal modello, lasciandoci intravvedere sullo sfondo un ampio scorcio incorniciato da alcune architetture classiche, secondo il gusto della pittura su maiolica.

Ad oggi questo rimane un esempio insuperato di rigore tecnico formale e di stile pittorico: sono infatti veramente rari i piatti di qualità artistica paragonabile.

La datazione della nostra coppa s’inserisce nel periodo in cui la bottega di Mastro Giorgio Andreoli a Gubbio produce alcuni dei suoi massimi capolavori, e in cui vediamo variamente impiegati sia il raffinato Nicola, che lì porta a lustrare le sue opere, sia altri pittori probabilmente attivi nella bottega. Timothy Wilson ricorda questa coppa come parte di un gruppo di piatti a lustro di grande qualità prodotti dalla bottega di Gubbio negli anni Venti del ’500, tutti marcati a lustro “M°G°” e datati “1526”, ritenendo che tutti i pezzi siano stati prodotti e lustrati nella bottega di Mastro Giorgio. A questa serie associa anche un piatto datato “1524” con scena biblica, attribuito poi da Sannipoli al pittore di Fetonte. Wilson sottolinea come la stesura risenta di una sorta di manierismo pittorico, evidente per esempio nel disegno dei nasi dalla linea dritta, e ne riconosce alcune caratteristiche stilistiche vicine alla mano del pittore Nicola da Urbino, presente in quegli anni a Gubbio insieme a numerosi altri.

Il confronto con le opere certe di Nicola, o con opere a lui attribuite, si concentra sui dettagli stilistici coerenti, che sono qui ben evidenti nei profili dei volti, nelle mani e nelle architetture. È quindi nella cerchia del maestro che s’inserisce l’opera del pittore sopra individuato.

La nostra opera è stata recentemente pubblicata da Claudio Paolinelli per illustrare come la stessa incisione fosse variamente interpretata o usata all’interno delle singole botteghe. Il raffronto è fatto con un piatto raffigurante la stessa scena, ma con personaggi modificati rispetto all’incisione di Raimondi da Raffaello, come spiega l’iscrizione sul retro, che specifica: “La Regina di Sabba...”. Altri piatti sui quali ricorre la medesima incisione, ma rielaborata in maniera sempre diversa, sono ricordati da Paolinelli, con particolare riferimento al grande piatto della collezione Wallace.

Un’altra coppa con lo stesso soggetto figurativo, conservata al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e firmata “Fabriano/ 1527”, fu per lungo tempo attribuita alla mano di Nicola. Nel 2003 Ivanova ha ribadito questa attribuzione.

La coppa è stata citata anche da Carmen Ravanelli Guidotti in relazione allo studio delle incisioni da Raffaello e al loro utilizzo nella maiolica italiana.

L’opera è dunque, con quelle che seguono (lotti 35 e 36 di questo catalogo), tra gli oggetti di maggior interesse nella storia della manifattura eugubina e nell’ambito del complesso lavoro di riconoscimento delle personalità pittoriche che vi lavorarono.

L’oggetto, noto agli studiosi perché pubblicato nella collezione Adda, passò nel 1967 a Cyril Humphris, il quale, nella documentazione allegata al piatto, ci informa circa la precedente provenienza, e cioè la collezione Berney. La scritta sull’etichetta apposto sul retro testimonia l’entusiasmo di questo collezionista: Berney infatti scrive che la Maddalena cela il ritratto di Taddea della Scala, giustificandone l’attribuzione con la presenza sullo sfondo della rocca di Verona. Ipotizziamo che si volesse giustificare con un’ispirazione veneta la presenza di Xanto Avelli a Gubbio, oppure semplicemente leggere un’esaltazione in chiave simbolica della scena di Raffaello, associando la supposta “Madonna della Scala” alla gentildonna veronese.

 

Stima   € 120.000 / 180.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Coppa umbonata e baccellata

Gubbio, post 1530

 

Maiolica decorata in blu di cobalto; lustri rosso e dorato

alt. cm 4,8; diam. cm 22,2; diam. piede cm 9,6

Sul retro etichetta di esportazione datata 1962; etichetta con numero “1117” scritto a mano; etichetta con scritta “TAGUA/ SOTH/ CYY/ O

 

Restauri alla tesa: rotture incollate su tutto il lato sinistro e nella parte alta a destra; sbeccature ricoperte all’orlo.

 

Earthenware, painted in cobalt blue; red and golden lustre

H. 4.8 cm; diam. 22.2 cm; foot diam. 9.6 cm

On theback, exportation label ‘1962’ (hardly readable); hand-written label ‘1117’; hand-written label ‘TAGUA/ SOTH/ CYY/ O’

 

Restorations to broad rim: some reglued cracks on the left side and on the upper right side; chips to rim, repainted; restoration covers an area larger than the damage

 

La coppa su basso piede ha il corpo realizzato a stampo e presenta un decoro a rilievo che corre lungo il bordo alternando un melograno ad una foglia d’acanto tra foglie arricciate sormontate da un fruttino. Il motivo è dipinto con lustro dorato e sottolineato con ombre rese a larghe pennellate blu. Sul retro, si osservano tracce di verde e tre ampie spirali a lustro in parte coperte dal restauro.

Al centro dell’umbone, incorniciato da una sottile fascia rilevata, è dipinta la figura di Santa Apollonia. La martire è raffigurata di profilo, il capo adornato dall’aureola, e di fronte a lei il simbolo del martirio: una grande tenaglia che stringe ancora un dente.

Il martirio di Apollonia, patrona dei dentisti, avvenne ad Alessandria d’Egitto, dove fu catturata, percossa e privata dei denti, prima di gettarsi volontariamente nel fuoco, pur di non far opera di abiura alla fede.

Questo tipologia di coppe in maiolica decorata a rilievo ebbe ampia diffusione durante il ’500. Gli esemplari datati si attestano prevalentemente attorno agli anni Trenta, mai conosce anche un esemplare con l’insegna di Giulio II, papa del primo decennio del secolo (1503-1513), e di uno con le insegne di papa Paolo III (1534-1549). Alcuni esemplari noti presentano sul retro la marca “N”, ormai concordemente ritenuta simbolo della bottega urbinate di Vincenzo Andreoli, riconducibile agli anni successivi al 1538 e fino al 1547. La produzione di questi oggetti, vista la richiesta di vasellame a imitazione del metallo e il successo dei lustri di Gubbio prima e di quelli di Deruta poco dopo, fu notevole. Si vedano in merito i numerosi esempi presenti nelle collezioni francesi studiate da Giacomotti, tra i quali due coppe (nn. 735 e 739) con figure di Santa Maddalena, di dimensioni appena maggiori della nostra. Numerosi altri esempi, sempre di dimensioni superiori, sono conservati nella collezione del Museo delle Arti Decorative di Lione.

Molti esemplari di dimensioni varie sono presenti in collezioni private.

Tutti gli esempi fin qui citati presentano però la bordura adorna di pigne rilevate e non di melograni. Una coppa conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, anch’essa con una figura femminile al centro, presenta nella tesa caratteristiche morfologiche simili nelle foglie a rilievo, ma è priva del melograno.

Questa coppa appartiene ad una precisa tipologia, dove la preziosità del manufatto non era data tanto dallo stile pittorico, quanto dalla tecnica del lustro e dalla realizzazione morfologica dell’oggetto.

Il retro della coppa conserva alcune etichette di collezione con numero: l’expertise che accompagna l’oggetto ci svela l’appartenenza alle collezioni Heilbronner prima e Rueff poi; è inoltre presente un’etichetta con timbro dell’Ufficio Esportazioni di Firenze datata 1962.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
8

COPPIA DI ALBARELLI

Montelupo, 1500 CIRCA

 

Maiolica decorata in policromia con verde, giallo, arancio, blu e bruno di manganese nei toni del nero-violaceo

a) alt. cm 25,5; diam. bocca cm 11,7; diam. base cm 11

b) alt. cm 26,8; diam. bocca cm 11,2; diam. base cm 11

Sotto la base entrambi gli albarelli presentano etichette e numeri di inventario delle collezioni di provenienza:

a) Etichetta dattiloscritta: “M.M.14.”/ MAIOLICA DRUG VASE (Albarello)/ Painted with leafy scrolls/ and the inscription “Coloquintida” (Colocynth) Faenza (Casa/Pirota) Italian. 15th century/ J.P. Morgan Collection.”;Etichetta Humphris C./ ”n° 8/2.“. Numeri di inventario L.37.30.17, PM 2191, L.1650.17, scritti in rosso sulla terracotta

b) Etichetta dattiloscritta: "M.M.16”/ MAIOLICA DRUG VASE (Albarello)/ Painted with leafy scrolls &/ the inscription “Dictivio/ Bia(N)cho” Faenza. (Casa/ Pirota) Italian. 15th century./ J.P. Morgan Collection.”; Etichetta “Humphris C. n° 8/2.”. Numeri di inventario L.37.30.18, PM 2199, L.1650.18, scritti in rosso sulla terracotta

 

Intatti; a) usure all’orlo e alla spalla; b) cadute di smalto

 

Corredato da doppio attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in green, yellow, orange, blue, and blackish manganese purple

a) H. 25.5 cm; mouth diam. 11.7 cm; foot diam. 11 cm

b) H. 26.8 cm; mouth diam. 11.2 cm; foot diam. 11 cm

On the bottom, old collection labels and inventory numbers:

a) Label, typewritten with: ‘M.M.14.’/ MAIOLICA DRUG VASE (Albarello)/ Painted with leafy scrolls/ and the inscription ‘Coloquintida’ (Colocynth) Faenza (Casa/ Pirota) Italian. 15th century/ J.P. Morgan Collection.’; label ‘Humphris C./’n° 8/2.‘; inventory numbers ‘L. 37.30.17, PM 2191, L.1650.17’ written in red on earthenware

b) Label, typewritten with:

‘M.M.16’/ MAIOLICA DRUG VASE (Albarello)/ Painted with leafy scrolls &/ the inscription “Dictivio/ Bia(N)cho” Faenza. (Casa/ Pirota) Italian. 15th century./ J.P. Morgan Collection.’; label ‘Humphris C. n° 8/2.’; inventory numbers ‘L. 37.30.18, PM 2199, L.1650.18’ written in red on earthenware

 

In very good condition; a) wear to rim and shoulder; b) glaze losses

 

An export licence is available for this lot

 

Gli albarelli hanno forma cilindrica, con larga imboccatura ad orlo estroflesso e base piana. La superficie è smaltata anche all’interno. La decorazione presenta, al centro del corpo, una corona fogliata che incornicia un emblema, probabilmente quello della farmacia di provenienza, costituito da un garofano su stelo con due foglie stilizzate. Tutt’intorno corre un motivo gotico a larghe foglie accartocciate, tra le quali s’inseriscono sottili spirali e puntini a riempimento delle campiture libere. Nella parte bassa del vaso, entro un nastro orizzontale, corre la scritta apotecaria “COLO qVINTIDA” nel primo albarello, e “DIcTIVIO. BIACHO” nel secondo. Nelle fasce decorative secondarie si scorgono leggere differenze: sulla spalla e nella parte bassa dei vasi è presente un motivo a spina nel primo albarello e a “S“ nell’altro; e, a scendere fino al piede, compaiono un decoro a fioretti e righe parallele nell’albarello a) e uno a nodo ”a groppo” seguito da una riga a spina nell’esemplare b).

Entrambi gli albarelli conservano ancora il cartellino che ne indica l’appartenenza alla celebre collezione newyorkese Morgan con la tradizionale attribuzione a Faenza.

Questo tipo di maioliche era considerato opera delle botteghe faentine del secolo XVI: l’attribuzione è riportata da Seymour de Ricci nel 1927, che sposava l’attribuzione proposta da Castellani in occasione del passaggio sul mercato di questi due vasi a Roma nel 1884. La paternità faentina fu confermata da Wallis nella schedatura di un vaso dello stesso corredo apotecario, oggi conservato al Victoria & Albert Museum, nonché di uno venduto all’asta a Berlino nel 1913 e proveniente dalla collezione Beckerath. L’assegnazione alla città romagnola venne accettata da Mario Bellini e Giovanni Conti che, nel loro volume sulla maiolica italiana, pubblicarono come presente nella collezione Bak di New York proprio uno dei vasi in esame.

Nel 1973 Galeazzo Cora ha infine attribuito questa serie di vasi all’area toscana, più probabilmente a quella fiorentina. La presenza della foglia accartocciata in particolare evidenzia l’appartenenza dell’oggetto all’area montelupina: fino agli anni Quaranta del ’500 questo motivo si mantiene invariato fino alle forme più estenuate.

Questa tipologia chiamata carnation-series (o “servizio della calendula”) è ancora oggi attribuita ad area Toscana. Un orciolo, proveniente dalla stessa farmacia, è conservato al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza e reca sotto l’ansa la lettera “I”, che ne conferma l’attribuzione alla Toscana. Si veda in proposito il vaso farmaceutico della raccolta Bayer di Milano acquistato negli anni Novanta del ’900.

La pubblicazione nel 2006 di un altro albarello della serie conferma l’esistenza di un intero corredo farmaceutico.

Per quanto riguarda la formula farmaceutica, è stato possibile individuare con certezza il Coloquintide (Citrullus colocynthis (L.) Schrad.), una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Cucurbitacee, mentre supponiamo che il Dictivio Biacho possa corrispondere al dittamo bianco (Dictamnus albus) delle Rutacee, chiamato anche timonella, dittamo o frassinella.

Entrambi gli albarelli conservano ancora il cartellino che ne indica l’appartenenza alla collezione Morgan. I vasi furono acquistati nel 1901 da Charles Mannheim ed erano entrambi attribuiti a Faenza. Seymour de Ricci suggerisce che gli albarelli provenissero dalla collezione Castellani.

Come si è detto L'albarello a) è pubblicato da Bellini e Conti come appartenente alla collezione Bak. Conti pubblica poi entrambi i vasi sempre nella collezione Bak di New York nel 1973. Nello stesso anno l’albarello con scritta “Coloquintida” è pubblicato da Cora come collezione Jean-George Rueff (Parigi). Oggi possiamo aggiungere un passaggio attraverso Humphris di Londra e poi, da lì, all’attuale raccolta, passaggio avvenuto comunque attorno agli anni Settanta del secolo scorso.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
9

COPPIA DI ALBARELLI

Montelupo, 1480-1495

 

Maiolica decorata in policromia con rosso, arancio, giallo, verde e blu

a) alt. cm 22,6; diam. bocca cm 9,8; diam. piede cm 9,9

b) alt. cm 22,7; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 10,4

Sotto la base numero a china manoscritto: a) 744; b) 741

 

a) minime sbeccature al piede e usure all’orlo;

b) minime sbeccature al piede e usure all’orlo

 

Earthenware, painted in red, orange, yellow, green, and blue

a) H. 22.6 cm; mouth diam. 9.8 cm; foot diam. 9.9 cm

b) H. 22.7 cm; mouth diam. 10 cm; foot diam. 10.4 cm

On the bottom, number hand-written in black ink: a) ‘744’; b) ‘741’

 

a) minor chips to foot and wear to rim;

b) minor chips to foot and wear to rim

 

I vasi presentano corpo cilindrico con base carenata e piede piano. Hanno spalla stretta e alta molto inclinata, bocca ampia con orlo appena estroflesso e orlo a taglio netto.

La superficie degli albarelli è interamente ricoperta da smalto color crema, su cui è tracciato con ampie pennellate un motivo a “occhio di penna di Paona”.

Questo decoro, di origine medio-orientale, costituisce insieme al decoro con palmetta persiana uno degli elementi caratterizzanti della fase propriamente rinascimentale della maiolica italiana (1480-1520). Questa tipologia decorativa ebbe un notevole successo nelle botteghe faentine, tanto che spesso molti manufatti di diversa provenienza, sui quali era presente questo motivo, erano attribuiti alla città romagnola. Galeazzo Cora ha poi conferito la classe ceramica qui presentata alle manifatture toscane: in particolare, un piccolo albarello appartenente alla collezione G.C. con caratteristiche stilistiche decorative affini a quelle del nostro esemplare viene ascritto ad area fiorentina. Gli scavi condotti nel territorio di Montelupo hanno permesso di aggiudicare con maggior certezza questo gruppo, anche se i due centri di produzione, Faenza e Montelupo, hanno entrambi utilizzato questo ornato in forme variate e, talvolta, contaminate da altri decori, ma sempre con un diverso equilibrio formale e cromatico. Lo stesso motivo decorativo, che si inserisce nella produzione montelupina come elemento accessorio attorno al 1470, è stato riproposto anche dalle manifatture senesi e derutesi, ma con esiti più contenuti.

Nell’analisi degli esemplari della raccolta Fanfani Carmen Ravanelli Guidotti propone alcuni esemplari che, per impianto decorativo, si discostano dai nostri albarelli, con un’ornamentazione comunque maggiormente semplificata. Più affine per modalità decorative è il boccale della collezione Cora ora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. Esemplari che potremmo definire analoghi sono i due albarelli della collezione Mereghi, anch’essi al museo di Faenza, un altro conservato al Kunstgewerbemuseum di Berlino e un oggetto simile segnalato nella collezione Kahan e venduto in un’asta Sotheby’s negli anni Sessanta del ’900.

Le campiture tra i decori, nelle quali si possono riconoscere dei rombi riempiti da puntinature e motivi vegetali stilizzati, ci portano a datare i due albarelli tra il 1480 e il 1495.

 

Stima   € 8.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
16

COPPIA DI ALBARELLI

Deruta, 1500-1510 circa

 

Maiolica decorata in policromia con rosso, arancio, giallo scuro, blu, verde ramina e bruno di manganese

a) alt. cm 22,6; diam. bocca cm 10,5; diam. piede cm 11,7

b) alt. cm 21,8; diam. bocca cm 9,8; diam. piede cm 11

Sotto la base segni incisi dopo la cottura; numeri incisi e dipinti di bianco: a) “261”; b) “26”. Tracce di cartellini con numerazione

 

a) cadute di smalto e sbeccature sul fronte; usure alla spalla; sbeccatura al piede

b) felatura all’orlo; usure alla spalla

 

Corredato da doppio attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in red, orange, dark yellow, blue, copper green, and manganese

a) H. 22.6 cm; mouth diam. 10.5 cm; foot diam. 11.7 cm

b) H. 21.8 cm; mouth diam. 9.8 cm; foot diam. 11 cm

On the bottom, some marks have been carved in after firing; numbers incised and painted on in white: a) ‘261’; b) ’26’. Remains of paper tags with numbers

 

a) on the front, glaze losses and chips; wear to shoulder; chip to foot

b) hairline crack to rim; wear to shoulder

 

An export licence is available for this lot

 

I due contenitori apotecari hanno corpo cilindrico rastremato al centro, imboccatura larga con orlo svasato, un collo breve e spalla molto carenata. Il piede piano non smaltato, diviso dal corpo da una breve strozzatura, ha orlo arrotondato. Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno dei vasi, che non sono rivestiti da smalto, ma solo da invetriatura.

La decorazione dell’albarello a) mostra un busto maschile di profilo, racchiuso in una ghirlanda di foglie e frutti centrata da due fiori racchiusi in un medaglione azzurrato. Nella parte posteriore, si sviluppa un lungo stelo con foglie dalla forma gotica e fruttini trilobati, circondato da piccole spirali a riempitura dei campi. Lungo la base, si articola un motivo a cordone seguito da una corona stilizzata. Sotto il piede, sono visibili dei segni incisi dopo la cottura.

L’albarello b), fortemente coerente, è decorato da un profilo muliebre con capelli raccolti in una cuffia, abito con bustino e spalle coperte da uno scialle. Il profilo è circondato da una ghirlanda con foglie di quercia e piccole ghiande; anche in questo caso la ghirlanda è centrata da due fiori racchiusi in un medaglione. Il retro del vaso è occupato da un tralcio fitoforme con arricciature, piccole fogliette trilobate e fiori dalla corolla multipetalo, dipinti in verde e arancio. Il fondo vuoto è riempito da pennellature, cerchietti puntinati e spiraline. Lungo la base, un motivo a cordone, seguito da una corona stilizzata, riprende la decorazione del collo.

Diversi albarelli appartengono alla stessa celebre serie di vasi sfornati a Deruta: ad esempio una coppia di albarelli con profili assai simili è conservata nella raccolta Gillet del Musée des Arts Décoratifs di Lione. Le differenze, rispetto ai nostri esemplari, sono minime: il coprispalle, le ghiande al posto dei fruttini e la scelta decorativa nei retri. Un albarello coerente, decorato con un profilo di giovane con copricapo, è conservato al Metropolitan Museum of Art di New York e databile 1510.

Due esemplari simili dichiarati come datati 1507, l’uno decorato dal profilo di un giovane con berretto, l’altro da un profilo di donna, si trovavano nella collezione Adda: ad essi si fa generalmente riferimento per la cronologia di questo corredo farmaceutico. L’attribuzione è stata sostenuta per la prima volta da Rackham, che smentisce l’ipotesi di paternità senese sostenuta da Falke.

Si è ipotizzato che i nostri due albarelli potessero addirittura corrispondere ai due vasi pubblicati da Rackham nella sopracitata monografia sulla collezione Adda da cui provengono altri oggetti presenti in questa raccolta: gli albarelli sono infatti perfettamente sovrapponibili, ma non compare la data “1507” indicata dallo studioso.

Molto simile al nostro esemplare con profilo maschile è anche l’albarello riprodotto nel catalogo della collezione Sigismond Bardac, proveniente dalla raccolta Bardini e all’epoca ancora attribuito a manifatture faentine della fine del secolo XV, nella cui scheda non c’è alcuna indicazione relativa alla presenza di una data sul retro.

I due oggetti in esame sono pubblicati invece nel catalogo di Humphris del 1967 relativo alla mostra sugli oggetti provenienti dalla raccolta Adda ascritti a un arco cronologico tra il 1500 e il 1510 (anche qui nessun accenno alla presenza della data). Dal catalogo Humphris riportiamo l’elenco delle provenienze: collezione Stefano Bardini fino al 1899, collezione Sigismond Bardac e collezione Alfred Pringsheim fino al 1939, quindi nella raccolta Adda fino al 1965.

Possiamo a questo punto affermare che si tratta proprio dei due albarelli che, in uno dei momenti di maggior fervore degli studi sulla maiolica antica, hanno comportato la variazione di attribuzione di questo gruppo ceramico da Faenza-Siena a Deruta.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
11

CRESPINA

Montelupo, 1570-1575

 

Maiolica decorata in policromia con giallo antimonio, ocra, bruno di manganese nei toni del marrone, blu e verde

alt. cm 6; diam. cm 32; diam. piede cm 11,7

Sul retro iscrizione in bruno di manganese “.S. paulo/ Chonverso

 

Ricomposto da più frammenti; piede mancante (probabilmente tagliato per inserire l’oggetto in una cornice); sbeccature e cadute di smalto

 

Earthenware, painted in antimony yellow, ochre, brownish manganese, blue, and green

H. 6 cm; diam. 32 cm; foot diam. 11.7 cm

On the back, inscription in manganese ‘.S. paulo/ Chonverso’

 

Recomposed from fragments; missing foot (it has probably been cut away to fit the dish in a frame); chips and glaze losses

 

La coppa, o crespina, è modellata a stampo nella tipica forma con parete baccellata, orlo mosso con bordo arrotondato e piede svasato, qui mancante. Questa forma ebbe successo presso tutte le manifatture italiane del ’500, con alcune varianti morfologiche. Sul retro cerchi concentrici giallo-verdi, blu e arancio incorniciano la legenda.

Sul fronte della coppa è raffigurato l’episodio del Nuovo Testamento con la “Conversione di San Paolo”. Paolo, giudeo ormai cittadino romano, cade da cavallo, abbagliato da un raggio luminoso che scende dalla mano di Dio, raffigurato nella parte alta del piatto in un cerchio di nuvole. Intorno a lui alcuni soldati, tra quelli che lo stavano accompagnando a Damasco, fuggono spaventati, altri gli prestano soccorso. Sullo sfondo si apre un paesaggio con una città con torri, cupole e palazzi, probabilmente Damasco, che si specchia in un fiume. Poco lontano, sulla sinistra, nelle vicinanze di alcune grotte arcuate e di una grande erma, due soldati sembrano condurre in catene una terza persona con la barba: forse una prefigurazione dell’arresto di Paolo a Gerusalemme prima del trasferimento a Roma.

Le caratteristiche stilistiche e pittoriche della crespina ci indirizzano nell’attribuzione alle produzioni delle botteghe di Montelupo in un arco cronologico che va dal 1570 al 1575.

Infatti la pubblicazione di una crespina molto simile, considerata una pietra miliare nella storia dello studio della maiolica figurata di Montelupo, determina con sicurezza l’attribuzione e costituisce un importante punto di riferimento per facilitare il riconoscimento delle maioliche in stile istoriato prodotte dalle manifatture toscane, in precedenza attribuite a Casteldurante o a Faenza: si tratta infatti di “una delle più straordinarie realizzazioni di ‘figurato canonico’ di Montelupo”. Entrambe le opere presentano sul retro le caratteristiche fasce concentriche, a larghe pennellate, che si alternano nei colori del giallo e del blu, molto diluiti, a sottolinearne la foggia irregolare. Nella tavolozza domina il giallo intenso, ma si osserva anche la caratteristica variante marrone del manganese utilizzata nella definizione dei dettagli e in intere sezioni del decoro, non ultima per la scritta sul retro. In quest’ultima si nota la somiglianza fra il ductus del “Ch” e della “S” e quello riscontrabile in oggetti similari di manifattura montelupina. La scena raffigurata è la medesima, ma lo stile nel nostro esemplare è molto preciso; tuttavia sono molte le variazioni rispetto all’incisione da cui il pittore ha tratto spunto. La figura principale di San Paolo è molto fedele all’incisione in entrambe le crespine; diverso è invece l’uso, nella parte alta del cavetto, della figura del Padreterno al posto del Cristo nel nimbo, come pure il raggio che dà origine alla conversione di Saulo, particolarmente marcato nel nostro esemplare.

La stessa scena, probabilmente tratta da un’incisione differente, con una ulteriore variante del Padreterno nel nimbo accompagnato da angeli e serafini, compare su un altro piatto pubblicato nel 2007 attribuito a bottega forlivese. La diffusione di questo tema in ambito romagnolo pare confermare l’influenza delle manifatture prossime a Faenza per questo tipo di istoriato.

Carmen Ravanelli Guidotti ipotizza la presenza, presso le manifatture montelupine, di un pittore faentino che, dopo essersi espresso nel primo istoriato di Faenza o comunque nelle prime manifestazioni dell’istoriato in stile compendiario, si sarebbe trasferito in Valdarno dove, sul finire del ’500, avrebbe fatto suoi i caratteri tecnici peculiari montelupini, pur mantenendo le caratteristiche stilistiche faentine.

In quest’ambito va pertanto collocata questa crespina che, per caratteristiche tecniche e stilistiche, va ascritta alla mano di un decoratore di qualità, abituato all’uso delle incisioni. Le proporzioni, la qualità della pittura, lo stile sicuro nella definizione delle figure principali – in contrasto con uno stile più personale nelle figure secondarie, nelle quali gli elmi e le teste sono leggermente allungati – e la raffinatezza nel delineare i paesaggi e i dettagli ci paiono indicare in quest’opera la presenza di personalità artistica chiaramente sviluppata.

 

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
62

Due alzate

Savona, manifattura Salamone, Bartolomeo Guidobono (?), post 1695

 

Maiolica decorata in blu di cobalto e bruno di manganese con l’aggiunta di giallo, verde e arancio nello stemma

a) alt. cm 7,1; diam. cm 33; diam. piede cm 14

b) alt. cm 6,4; diam. cm 33; diam. piede cm 15

Sul retro, sotto il piede, stemma savonese in blu su ambedue

 

Intatte salvo profonde sbeccature al piede.

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in cobalt blue and manganese with touches of yellow, green, and orange for the coat-of-arms

a) H. 7.1 cm; diam. 33 cm; foot diam. 14 cm

b) H. 6.4 cm; diam. 33 cm; foot diam. 15 cm

Beneath the base of both items, is a Savonese coat-of-arms painted in blue

 

In very good condition, with the exception of some heavy chips to foot

 

An export licence is available for this lot

 

Le due alzate in maiolica foggiata al tornio sono sorelle, parte della stessa serie. Hanno un piano piatto profilato da un orlo leggermente crescente e poggiano su un piede svasato ad anello. Il corpo sottile ha grana fine color camoscio rivestita da un sottile strato di smalto stannifero leggermente azzurrato, dalla stesura molto leggera sul retro.

La scena figurata è impostata in monocromia blu: la rapida esecuzione in sciolte pennellate blu di cobalto è poi ripassata con una sottilissima linea nera di manganese che, con fluida rapidità, ridisegna contorni, particolari e certi tocchi chiaroscurali. Solo lo stemma vede l’aggiunta di giallo uovo, arancio e pochi colpi in verde ramina.

Ambedue le scene pittoriche sono dominate da uno stemma matrimoniale bipartito: lo scudo a sinistra è trinciato da due bande diagonali blu in campo bianco, mentre lo scudo a destra porta una sottile croce rossa e ha i campi profilati con una fascia di piccole punte gialle e verdi. L’insegna araldica è dominata da una corona a sette punte d’imprecisa appartenenza marchionale.  Una sottile cornice a volute chiude il motivo araldico.

Le insegne araldiche appartengono a due famiglie fiorentine Alamanni e Popoleschi. Le nostre maioliche testimoniano così il matrimonio tra Vincenzio Maria Alemanni (1672–1756) e Maria Maddalena Popoleschi che avvenne a Firenze nel 1695.

Le due scene si svolgono in un paesaggio realizzato con un gioco sintetico dal disegno fortemente stilizzato. Nel piatto a) la parte superiore è occupata da un paesaggio dipinto in estrema scioltezza e composto di un edificio a fortezza turrita e due monti dalla linea inclinata con la cima appuntita. Attorno allo stemma l’aria è mossa da virgole vibranti e, nella parte più alta, il cielo chiude l’orlo con nuvole scure. Al centro una giovane coppia “all’antica” è protagonista: i due sono seduti nel prato, lei tiene in mano un arco, un giovane uomo loricato regge uno scudo. Due putti gli sono accanto. È raffigurato un istante: le figure si muovono con naturalezza e paiono parlare tra loro sorridendo. Il bordo inferiore è incorniciato da zolle erbose e arbusti fogliati. Il piatto b) vede una scena ancora più viva: il movimento è accentuato. La giovane donna siede su un cocchio tirato da due pavoni. Il movimento delle braccia e il volo del suo mantello ci mostrano che è in velocità. Accanto, un ragazzino alato, correndo, porta una torcia ardente e due putti paiono partecipare allegramente alla scena. Il casale è dipinto nell’esergo e ciuffi erbosi e piante fogliate inquadrano la scena.

In ambedue i pezzi il retro della tesa presenta una serie corrente di girali. La marca è disegnata a filo sottile a punta di pennello fine, con una forma stilizzata quasi triangolare. Il fondo del pezzo b) porta anche una pennellata libera.

Questa tipologia decorativa “istoriata barocca” ebbe una straordinaria diffusione nella produzione savonese per più di un secolo, ma un piccolo gruppo di pezzi di sicura assonanza formale con le nostre alzate è stato individuato per la sua qualità formale artistica.

Nel 1939, nella celebre esposizione tenuta a Palazzo Reale di Genova, curata da Orlando Grosso e Giuseppe Morazzoni, i pezzi riconosciuti con questo carattere stilistico considerati della fine del ’600, sono definiti “ispirati ai Guidobono”. (Talvolta marcati con lo stemma e, raramente, anche con la “S”).

Giovanni Antonio Guidobono e suo figlio Bartolomeo sono grandi pittori, autori della decorazione di molte chiese liguri e piemontesi. La loro alta qualità artistica e freschezza stilistica farà sì che vengano chiamati come decoratori dai Savoia a Torino a Palazzo Madama. Il padre lavorava regolarmente come decoratore delle ceramiche della manifattura savonese Salamone: collaborazione viva fino al 1683, anno in cui si trasferisce a Torino. Alla sua morte, due anni dopo, il figlio Bartolomeo lo sostituisce con grandissimo successo. Bartolomeo (1654 – 1709) è un artista geniale: prosegue l’attività pittorica del padre dipingendo pale d’altare, decorazioni a fresco di edifici raggiungendo lo straordinario incarico di decorare sale di Palazzo Madama, ammirabili ancor oggi. Arrigo Cameirana (1997, 2001, 2002) e Cecilia Chilosi (2004) hanno studiato la più innovativa, magnifica serie ceramica dei Guidobono in figure libere, in acceso movimento con forti scorci dipinti “con mano in aria senza appoggio”. Ma è evidente che i Guidobono, anche se non si possono considerare gli inventori del dipingere con scene istoriate in monocromia blu, ne sono certamente molto raffinati esecutori. 

Le nostre alzate si collocano con sicurezza in questo mondo ceramico: un piatto “reale” (45 centimetri di diametro) marcato con lo stemma di Savona e la lettera “S”, pubblicato da Cecilia Chilosi nel Thesaurus ligure è decorato con la stessa scena di Giunone sul cocchio con i pavoni di stile entusiastico (Collezione della Banca di Risparmio di Savona). La scena è certamente sorella di quella affrescata da Bartolomeo Guidobono su una volta di Palazzo Cambiaso Centurione a Genova. E si notano altre straordinarie assonanze con alcuni disegni considerati da Newcombe preparatori per questo lavoro: su un foglio, Giunone nel carro ha un movimento più libero dell’affresco e più simile a quello della maiolica, e un altro foglio con Venere e Adone vede la stesura a penna e “ampie acquerellature”, mostrando una straordinaria affinità tecnico-pittorica con lo stile decorativo della nostra maiolica, come aveva già rilevato Cameirana.

L’altra nostra alzata con le figure festosamente sedute a terra non trova in un’opera così alta culturalmente pilastri attributivi, ma è evidente la sua perfetta coerenza materica e tecnico-stilistica con il pezzo analizzato e la familiarità iconografica con le altre opere citate “dei Guidobono”.

I nostri pezzi sono stati prodotti nel 1695 o poco dopo. Quest’anno è l’ultimo di attività della manifattura Salamone con cui l’ormai celebre Bartolomeo Guidobono molto attivo alla corte torinese forse collaborava ancora.  La presenza della lettera “S” nella marca del piatto affine citato, pubblicato da Cecilia Chilosi, lo conferma. Possiamo così pensare che le nostre alzate siano opere sfornate o nell’ultimo anno della manifattura citata o nei primi anni successivi in un’altra fabbrica di ceramica fina della vivace città ligure e la loro perfetta coerenza pittorica ci permette di considerarli, pur senza voler forzare, forse dipinti da Bartolomeo stesso.

A Bartolomeo stesso erano commissionate maioliche dai Duchi di Savoia e quella ligure era molto apprezzata anche Firenze dai Medici dalla metà del Seicento. Nel nostro stesso nostro anno, il 1694, in un inventario completo della Villa medicea di Poggio Imperiale si elencano più di mille pezzi in “Terra di Savona”. E oggi sono noti diversi piatti da parata decorati con scene istoriate dominate da scudi medicei.

“A Roma un vescovo, Alessandro Falconieri, appartenente a una famiglia aristocratica di origine fiorentina, possedeva una sottocoppa traforata stilisticamente coerente alle nostre e marcata allo stesso modo. Essa è databile dopo il 1691 grazie al carattere araldico dello stemma che porta nel decoro".

 

Raffaella Ausenda

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
6

ORCIOLO

Montelupo, Lorenzo di Piero di Lorenzo, 1513-1534

 

Maiolica decorata in blu di cobalto in tono intenso e materico, rosso ferraccia e giallo antimonio

alt. cm 23,5; diam. bocca cm 8,5; diam. base cm 11

Sul retro, sotto l’ansa, marca incrociata “L. O. P.”

Sotto la base, numero “988” timbrato in inchiostro blu

 

Intatto; sbeccature d’uso sull’orlo, sull’ansa e sul piede; lievi cadute di smalto sul corpo; segni di appoggio in cottura

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in an intense and textured cobalt blue, iron red, and antimony yellow

H. 23.5 cm; mouth diam. 8.5 cm; foot diam. 11 cm

On the back, below the handle, ‘L. O. P.’ crossed mark

On the bottom, number ‘988’ stamped in blue ink

 

In very good condition; wear chips to rim, handle and foot; minor glaze losses to body; kiln-support marks

 

An export licence is available for this lot

 

L’orciolo, con orlo tagliato a stecca, ha un versatore a beccuccio che si diparte dal corpo verso l’alto ed è raccordato al collo da un cordolo a sezione cilindrica. Il piede è piano, appena estroflesso. L’ansa, a nastro e con costolatura al centro, parte poco sotto il bordo e si raccorda al corpo nel punto più largo della pancia. La superficie del vaso è interamente smaltata, anche all’interno, fatta eccezione per la base del piede.

Lungo tutto il corpo si sviluppa un decoro a “palmette”, interrotto solo da uno stemma collocato sotto il beccuccio e da una riserva al di sotto dell’ansa, nella quale si legge la sigla della bottega. L’ansa è decorata con pennellate blu. Il decoro principale è realizzato in blu di cobalto con il ferraccia e il giallo antimonio utilizzati per dar luce alle palmette e poi riutilizzati nella decorazione dello stemma. Il gioco cromatico che alterna il giallo e il ferraccia è utilizzato nelle chiavi di San Pietro, e nelle rosette laterali allo stemma dominato dalla tiara papale. Lo stemma d’oro a sei palle – poste in cinta la prima, in capo d’azzurro caricata in tre gigli, le altre cinque in rosso – si riferisce a un papa della famiglia Medici: Leone X (1513-1521) oppure Clemente XVII (1523-1534).

Lo stemma è ampiamente rappresentato in opere di maiolica delle manifatture fiorentine e di Montelupo, spesso senza riferimenti attributivi iconografici, e quindi difficilmente assegnabile all’uno o all’altro papa Medici.

Gli studi più recenti hanno meglio definito gli ambiti produttivi toscani, spostando l’attribuzione di molti esemplari dalle manifatture di Cafaggiolo a quelle di Montelupo Fiorentino. In particolare, sappiamo che le botteghe montelupine furono spesso ingaggiate per i “fornimenti” di maioliche per il patriziato fiorentino.

Per quanto riguarda l’attribuzione a Montelupo, e con maggiore precisione alla bottega dei Sartori, si deve obbligatoriamente fare riferimento agli studi che negli anni Ottanta del secolo scorso hanno visto le osservazioni tipologiche proposte dagli studiosi suffragate da una vasta e nuovissima indagine archeologica, avviata negli anni Settanta. In particolare Alessandro Alinari, nell’analisi della sigla presente anche nel nostro orciolo, ricorda una delle ipotesi di G. Guasti, che nel 1902 aveva indicato una possibile lettura in un intreccio tra una “L”, una “P” e una “O”, attribuendo la sigla a un “Lorenzo di Philippo orciolaio”. Marco Spallanzani si associa a tale attribuzione, anche alla luce dell’identica provenienza dei reperti recanti questa sigla. Alinari approfondisce la lettura e in base ai caratteri stilistici dei frammenti crea un insieme di gruppi, diverse botteghe riconoscibili tramite la mano di più pittori.

La recente pubblicazione, da parte di Berti, dell’opera monografica su Montelupo Fiorentino supporta l’attribuzione a Lorenzo di Piero di Lorenzo nella bottega montelupina dei Sartori.

Questa tipologia è considerata prodotta dal 1490 al 1530, ma anche in base alla doppia interpretazione dello stemma papale si può circoscrivere la datazione tra il 1513 (inizio del pontificato di Leone X) e il 1534 (fine di quello di Clemente VII).

Il motivo a “palmette persiane” venne usato molte da botteghe italiane, ma la precisa analisi tipologica di tale decoro nel nostro pezzo, con palmetta alternata a rosetta gialla e blu, porta al confronto con una bottiglia trilobata della collezione Cora, ed anche ad altri confronti, prevalentemente su forme chiuse, databili intorno al 1520 circa.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

ORCIOLO BIANSATO

Montelupo, 1470-1480

 

Maiolica decorata in policromia con blu, bruno violaceo, verde e giallo ocra su fondo a smalto stannifero bianco crema

alt. cm 23; diam. bocca cm 10,4; diam. piede cm 10,6

Sotto le anse è delineata una marca con il segno della “scala”

Sotto la base etichetta di spedizione da Parigi stampata con dattiloscritto “C. HUMPHRIS n. 3”, che copre un’altra etichetta. Sotto la base numeri rossi di collezione “L.37.30.75” e “L.1660.75

 

Sbeccature d’uso al piede e alle anse; consunzione all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered with a creamy-white tin glaze and painted in blue, manganese purple, green, and ochre yellow

H. 23 cm; diam. 10.4 cm; foot diam. 10.6 cm

Below each handle, ‘ladder mark’ (painted)

Shipping paper label from Paris typewritten with ‘C. HUMPHRIS n. 3’, covering another collection label; on the bottom, collection numbers in red: ‘L.37.30.75’ and ‘L.1660.75’

 

Wear chips to foot and handles; wear to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Il vaso ha corpo ovoidale con larga imboccatura dall’orlo piano ed estroflesso che scende in un collo basso e troncoconico. Il piede è a base piana con un accenno di orlo. Dalla spalla, appena sotto il collo, si distaccano due anse a nastro appena incavato, che scendono fino alla parte più prominente della pancia.

La decorazione del collo vede un sottile nastro di colore verde, profilato di blu, che orla una fascia con una serie continua di segni blu a virgola alternati a sottilissime puntinature in manganese: un nastro giallo separa il collo dal corpo. Qui la decorazione mostra due ritratti di profilo racchiusi entro medaglioni circolari incorniciati da fasce concentriche di colore verde e giallo, e da una più larga a tratti blu con puntinature in manganese. I profili sono circondati da una riserva che ne segue la forma, le campiture vuote sono riempite da piccoli fiori multipetalo e da decori fitomorfi. Il ritratto maschile indossa un copricapo a punta, mentre quello femminile ha un fazzoletto annodato attorno al capo. La parte restante del corpo del vaso è decorata da larghe girali fitomorfe con foglie alternate a piccoli fiori e a sottili elementi a tratteggio. Sotto l’attacco delle anse compare una marca con il segno della “scala”.

Numerosi gli esempi di vasi di questa foggia in ambito montelupino a partire dalla metà del XV fino agli inizi del secolo XVI.

Le forme sono attestate con decori di derivazione orientale, “a zaffera”, cioè dominati da elementi vegetali realizzati in blu cobalto, “a palmetta persiana” o “in azzurro prevalente”, cui appartiene il decoro qui scelto, definito da Fausto Berti come “floreale a girali”, spesso utilizzato nelle forme aperte, ma testimoniato anche in quelle chiuse.

I contesti di scavo di Montelupo hanno restituito reperti databili agli anni Sessanta del ’400, anch’essi caratterizzati dal segno della scala.

Si tratta comunque di esempi relativi alla fase di transizione verso i motivi rinascimentali, durante la quale l’influenza orientale è ancora sentita, ma viene sempre più spesso trasformata e adeguata al gusto dell’epoca, orientandosi verso decori di gusto già gotico, per arrivare all’abbandono della tavolozza fredda.

Berti, pubblicando un boccale con ritratto femminile assai simile al nostro, afferma che la forte fisicità del ritratto richiama certe raffigurazioni femminili dell’epoca, ma spiega anche che nel caso in cui il pittore avesse voluto raffigurare alcune caratteristiche più “naturalistiche” del soggetto, quali ad esempio i capelli che escono fluenti dal copricapo, ne sarebbe risultato comunque un ritratto da inserire nell’uso amatorio, caratteristico della produzione ceramica dell’epoca. La marca, già studiata da Galeazzo Cora, è attestata a partire dal 1380 e per tutto il ’400, con particolare concentrazione negli anni Quaranta del secolo.

Un esemplare proveniente da una collezione privata con caratteristiche morfologiche e decorative simili, ma privo dei medaglioni con ritratti, che presenta analogie stilistiche e cromatiche nella resa dei fiori trilobati dipinti in manganese, è stato esposto a una mostra svoltasi a Brescia.

Il nostro vaso fu pubblicato da De Ricci, con attribuzione “alla ben nota farmacia di Santa Maria della Scala di Firenze”, come facente parte della collezione Mortimer Schiff e proveniente dalla raccolta Sigismond Bardac.

Il vaso entrò a far parte dell’attuale collezione nel 1970 tramite acquisto dall’antiquario Humphris di Londra, che definiva l’esemplare come opera fiorentina della metà del secolo XV, proveniente dalle collezioni Sigismond Bardac, quindi Mortimer Schiff e infine Bak. Nella pubblicazione di Cora il vaso è dichiarato come parte della collezione Jean-George Rueff. Dal 1917 al 1919 e poi dal 1937 al 1941 il vaso è stato esposto al Metropolitan Museum of Art di New York.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
12

PIATTO

Montelupo, pittore “Istoriatore della Bibbia”, 1575

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo ocra, bruno di manganese nella tonalità del marrone, verde e blu su smalto stannifero molto povero

alt. cm 5,8; diam. cm 31; diam. piede cm 11

Sul retro, al centro del cavetto, iscrizione in bruno di manganese nel tono del marrone “Come sollomoñ/ trouo di chera/ il fanciullo morto/ el il vivo Dettolle/ ala madre sua

 

Piccole felature; cadute di smalto fittamente crettato sul retro

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered with a very poor white tin glaze and painted in yellow, yellowy ochre, brownish manganese, green, and blue

H. 5.8 cm; diam. 31 cm; foot diam. 11 cm

On the back, at the centre of the well, inscription in brownish manganese ‘Come sollomoñ/ trouo di chera/ il fanciullo morto/ el il vivo Dettolle/ ala madre sua’

 

Minor hairline cracks; glaze losses; the glaze on the reverse is extensively crackled

 

An export licence is available for this lot

 

Piatto con cavetto poco profondo, ampia tesa appena inclinata e basso piede ad anello poco rilevato. Attorno al disco che ospita l’iscrizione è disegnata una doppia corona di petali.

Sul fronte, ambientata nell’agorà di un’antica città, è rappresentata la drammatica scena biblica del giudizio di Salomone (Re 3, 16-28), descritta poi anche nella lunga frase apposta sul retro.

Salomone, re d’Israele (961-922) e figlio di David, fu nominato alla successione per le pressioni della madre Betsabea. Ereditò uno stato assai ampio, ma rinunciò alle attività militari e perse alcuni territori, mantenendo buoni rapporti con le popolazioni vicine al punto da sposare una figlia del faraone. Nella capitale costruì il palazzo reale e il tempio per cui è famoso. Rimasero proverbiali le sue doti di giustizia e di sapienza, obiettività e imparzialità assolute. L’episodio descritto nel piatto è la celebre storia del giudizio di Salomone, che narra di due donne che vivevano insieme e avevano partorito negli stessi giorni un bambino: uno dei due morì nella notte e la madre ne scambiò il corpo con il figlio della compagna, la quale per questo motivo portò in giudizio l’altra donna rivolgendosi al re. Salomone ordinò allora di tagliare il bambino conteso in due e di darne una metà all’una e una metà all’altra. La vera madre allora rifiutò, piuttosto di fare del male al bimbo, e quindi il saggio re salvò il piccolo riconsegnandolo alla vera madre.

Sul piatto, Salomone è raffigurato mentre, seduto sul trono, collocato sotto un porticato antistante la piazza, indica il bambino tenuto in braccio da un soldato incaricato di ucciderlo; le due madri sono sulla destra del piatto, una in piedi e l’altra inginocchiata in segno di preghiera; dei soldati, alcune donne e un giovane appoggiato a una colonna alle spalle del re assistono curiosi alla scena.

Il disegno rapido e la tavolozza basata sui toni del giallo ocra aranciato, accompagnato dal blu cobalto acquarellato e dal verde ramina, presenta un carattere stilistico originale. Il piatto trova infatti riscontro nella serie prodotta dall’anonimo pittore attivo a Montelupo negli anni 1570-1575 denominato da Fausto Berti “Istoriatore della Bibbia”, il cui corpus di opere è stato recentemente aumentato e riordinato grazie alla pubblicazione dello studio di Carmen Ravanelli Guidotti. Particolarmente interessante è il confronto con uno di quei piatti: coerente è la distribuzione delle figure intorno a un personaggio in trono; lo stile pittorico è assai simile anche nell’aspetto dei personaggi, caratterizzati dalla figura snella e dai piedi allungati, con volti dal naso piccolo e sottile; lo stesso dicasi per i panneggi degli abiti, larghi e appiattiti. Pure la narrazione figurata, sapientemente espressiva, deriva dalle Figure de la Biblia illustrate da stanze tuscane di Gabriel Symeoni, opera pubblicata a Lione nel 1565 presso Guglielmo Rovello.

Gli elementi di confronto ci conducono quindi a un’attribuzione in ambito montelupino, contesto in cui questo prolifico pittore dipinse in maniera innovativa in questo stile così particolare e riconoscibile.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
20

PIATTO

Deruta, 1520 circa

 

Maiolica decorata a policromia in blu, giallo antimonio, verde ramina e rosso ferro

alt. cm 4,1; diam. cm 22,2; diam. piede cm 7,9

Sul retro etichetta stampata “ESPOSTO ALLA MOSTRA NAZ. DELL’ ANTIQUARIATO/ Milano - 19 nov. 11 dic. 1960”; altra etichetta dattiloscritta con “piatto Deruta sec XVI/ (Amatorio)”

 

Rottura radiale sulla parte alta, restaurata con qualche integrazione alla pittura; piccola lacuna reintegrata sulla tesa; coperture lungo il bordo del cavetto e in prossimità della frattura

 

Earthenware, painted in blue, antimony yellow, copper green, and iron red

H. 4.1 cm; diam. 22.2 cm; foot diam. 7.9 cm

On the back, printed label ‘ESPOSTO ALLA MOSTRA NAZ. DELL’ANTIQUARIATO/ Milano – 19 nov. 11 dic. 1960’; label typewritten with ‘piatto Deruta sec XVI/ (Amatorio)’

 

On the upper part, a radial crack restored with areas of repaint; a minor loss to broad rim, repainted; some areas of repaint along the edge of the well and close to the crack

 

Il piatto presenta cavetto profondo, larga tesa piana con orlo arrotondato, piede a fondo leggermente concavo. Il decoro al centro del cavetto raffigura due mani che si stringono sopra una fiamma ardente, sormontate da una corona affiancata dalle iniziali “E.” ed “E.” scritte in blu in caratteri capitali. Il decoro è realizzato in policromia con l’utilizzo del blu di cobalto, del giallo antimonio, del verde ramina e del rosso ferro. Il motivo decorativo centrale è racchiuso da una corniciatura a sottili fasce concentriche decorate da linee parallele, puntinature rosse e tratti decorativi sporgenti sull’ultima linea a simulare dei nodi. La tesa è interessata da un motivo decorativo a tralci incrociati con spine sporgenti, detto a “corona di spine”.

Il decoro centrale è tipico dei piatti cosiddetti “amatori” e raffigura il motivo della Fede: simboleggia cioè il patto d’amore o la promessa tra i fidanzati. Di origine romana, questo decoro spesso era accompagnato dalla parola “Fides”. Il motivo è frequente anche nella maiolica faentina del ’500. I piatti di questa tipologia erano donati alla persona amata e costituivano talvolta un regalo di fidanzamento. Il decoro ebbe successo e fu poi riprodotto da molte manifatture dell’Italia centro-settentrionale.

Il motivo della tesa a ”corona di spine”, contemporaneo di altri ornati, è usato dalle manifatture di Deruta dell’epoca. Frequente nei piatti da pompa, è variamente associato a decorazioni principali, che presentano anche figure diverse: al Museo Regionale di Deruta, per esempio, lo troviamo tra gli altri sia con un ritratto amatorio, sia con San Pietro.

Un piatto, fortemente lacunoso, decorato sulla tesa in maniera molto simile al nostro, databile al periodo tra gli anni Venti e Cinquanta del ’500, è conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge. Il decoro a tralci verdi è utilizzato dalle maestranze derutesi anche in piatti da parata di maggiori dimensioni, talvolta con modalità stilistiche più complesse e con l’aggiunta di rosette: si vedano, per esempio, i piatti di questo tipo, decorati al centro con figure, conservati al Museo del Louvre, datati ai primi anni del secolo XVI. Infine un esemplare da parata con lo stemma di papa Paolo III Farnese (1534-1549) che è considerato datante per le produzioni minori porta sulla tesa la decorazione.

Il piatto in esame ha uno smalto povero alla derutese, molto crettato e ricco di difetti e bolliture; il decoro sul retro si limita a una serie di archetti appena visibili in prossimità dell’orlo.

L’opera reca sul retro un cartiglio di collezione e l’etichetta di esposizione alla Mostra Nazionale di Antiquariato, che si svolse a Palazzo Reale di Milano nel 1960.

 

Stima   € 3.000 / 5.000
1 - 30  di 62