Importanti Maioliche Rinascimentali

27 OTTOBRE 2014

Importanti Maioliche Rinascimentali

Asta, 0025
FIRENZE
Palazzo Ramirez- Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 17
Esposizione

FIRENZE
dal 23 - 27 Ottobre 2014
orario 10–13 / 14–19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it

 
 
 
Stima   2000 € - 150000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 62
62

Due alzate

Savona, manifattura Salamone, Bartolomeo Guidobono (?), post 1695

 

Maiolica decorata in blu di cobalto e bruno di manganese con l’aggiunta di giallo, verde e arancio nello stemma

a) alt. cm 7,1; diam. cm 33; diam. piede cm 14

b) alt. cm 6,4; diam. cm 33; diam. piede cm 15

Sul retro, sotto il piede, stemma savonese in blu su ambedue

 

Intatte salvo profonde sbeccature al piede.

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in cobalt blue and manganese with touches of yellow, green, and orange for the coat-of-arms

a) H. 7.1 cm; diam. 33 cm; foot diam. 14 cm

b) H. 6.4 cm; diam. 33 cm; foot diam. 15 cm

Beneath the base of both items, is a Savonese coat-of-arms painted in blue

 

In very good condition, with the exception of some heavy chips to foot

 

An export licence is available for this lot

 

Le due alzate in maiolica foggiata al tornio sono sorelle, parte della stessa serie. Hanno un piano piatto profilato da un orlo leggermente crescente e poggiano su un piede svasato ad anello. Il corpo sottile ha grana fine color camoscio rivestita da un sottile strato di smalto stannifero leggermente azzurrato, dalla stesura molto leggera sul retro.

La scena figurata è impostata in monocromia blu: la rapida esecuzione in sciolte pennellate blu di cobalto è poi ripassata con una sottilissima linea nera di manganese che, con fluida rapidità, ridisegna contorni, particolari e certi tocchi chiaroscurali. Solo lo stemma vede l’aggiunta di giallo uovo, arancio e pochi colpi in verde ramina.

Ambedue le scene pittoriche sono dominate da uno stemma matrimoniale bipartito: lo scudo a sinistra è trinciato da due bande diagonali blu in campo bianco, mentre lo scudo a destra porta una sottile croce rossa e ha i campi profilati con una fascia di piccole punte gialle e verdi. L’insegna araldica è dominata da una corona a sette punte d’imprecisa appartenenza marchionale.  Una sottile cornice a volute chiude il motivo araldico.

Le insegne araldiche appartengono a due famiglie fiorentine Alamanni e Popoleschi. Le nostre maioliche testimoniano così il matrimonio tra Vincenzio Maria Alemanni (1672–1756) e Maria Maddalena Popoleschi che avvenne a Firenze nel 1695.

Le due scene si svolgono in un paesaggio realizzato con un gioco sintetico dal disegno fortemente stilizzato. Nel piatto a) la parte superiore è occupata da un paesaggio dipinto in estrema scioltezza e composto di un edificio a fortezza turrita e due monti dalla linea inclinata con la cima appuntita. Attorno allo stemma l’aria è mossa da virgole vibranti e, nella parte più alta, il cielo chiude l’orlo con nuvole scure. Al centro una giovane coppia “all’antica” è protagonista: i due sono seduti nel prato, lei tiene in mano un arco, un giovane uomo loricato regge uno scudo. Due putti gli sono accanto. È raffigurato un istante: le figure si muovono con naturalezza e paiono parlare tra loro sorridendo. Il bordo inferiore è incorniciato da zolle erbose e arbusti fogliati. Il piatto b) vede una scena ancora più viva: il movimento è accentuato. La giovane donna siede su un cocchio tirato da due pavoni. Il movimento delle braccia e il volo del suo mantello ci mostrano che è in velocità. Accanto, un ragazzino alato, correndo, porta una torcia ardente e due putti paiono partecipare allegramente alla scena. Il casale è dipinto nell’esergo e ciuffi erbosi e piante fogliate inquadrano la scena.

In ambedue i pezzi il retro della tesa presenta una serie corrente di girali. La marca è disegnata a filo sottile a punta di pennello fine, con una forma stilizzata quasi triangolare. Il fondo del pezzo b) porta anche una pennellata libera.

Questa tipologia decorativa “istoriata barocca” ebbe una straordinaria diffusione nella produzione savonese per più di un secolo, ma un piccolo gruppo di pezzi di sicura assonanza formale con le nostre alzate è stato individuato per la sua qualità formale artistica.

Nel 1939, nella celebre esposizione tenuta a Palazzo Reale di Genova, curata da Orlando Grosso e Giuseppe Morazzoni, i pezzi riconosciuti con questo carattere stilistico considerati della fine del ’600, sono definiti “ispirati ai Guidobono”. (Talvolta marcati con lo stemma e, raramente, anche con la “S”).

Giovanni Antonio Guidobono e suo figlio Bartolomeo sono grandi pittori, autori della decorazione di molte chiese liguri e piemontesi. La loro alta qualità artistica e freschezza stilistica farà sì che vengano chiamati come decoratori dai Savoia a Torino a Palazzo Madama. Il padre lavorava regolarmente come decoratore delle ceramiche della manifattura savonese Salamone: collaborazione viva fino al 1683, anno in cui si trasferisce a Torino. Alla sua morte, due anni dopo, il figlio Bartolomeo lo sostituisce con grandissimo successo. Bartolomeo (1654 – 1709) è un artista geniale: prosegue l’attività pittorica del padre dipingendo pale d’altare, decorazioni a fresco di edifici raggiungendo lo straordinario incarico di decorare sale di Palazzo Madama, ammirabili ancor oggi. Arrigo Cameirana (1997, 2001, 2002) e Cecilia Chilosi (2004) hanno studiato la più innovativa, magnifica serie ceramica dei Guidobono in figure libere, in acceso movimento con forti scorci dipinti “con mano in aria senza appoggio”. Ma è evidente che i Guidobono, anche se non si possono considerare gli inventori del dipingere con scene istoriate in monocromia blu, ne sono certamente molto raffinati esecutori. 

Le nostre alzate si collocano con sicurezza in questo mondo ceramico: un piatto “reale” (45 centimetri di diametro) marcato con lo stemma di Savona e la lettera “S”, pubblicato da Cecilia Chilosi nel Thesaurus ligure è decorato con la stessa scena di Giunone sul cocchio con i pavoni di stile entusiastico (Collezione della Banca di Risparmio di Savona). La scena è certamente sorella di quella affrescata da Bartolomeo Guidobono su una volta di Palazzo Cambiaso Centurione a Genova. E si notano altre straordinarie assonanze con alcuni disegni considerati da Newcombe preparatori per questo lavoro: su un foglio, Giunone nel carro ha un movimento più libero dell’affresco e più simile a quello della maiolica, e un altro foglio con Venere e Adone vede la stesura a penna e “ampie acquerellature”, mostrando una straordinaria affinità tecnico-pittorica con lo stile decorativo della nostra maiolica, come aveva già rilevato Cameirana.

L’altra nostra alzata con le figure festosamente sedute a terra non trova in un’opera così alta culturalmente pilastri attributivi, ma è evidente la sua perfetta coerenza materica e tecnico-stilistica con il pezzo analizzato e la familiarità iconografica con le altre opere citate “dei Guidobono”.

I nostri pezzi sono stati prodotti nel 1695 o poco dopo. Quest’anno è l’ultimo di attività della manifattura Salamone con cui l’ormai celebre Bartolomeo Guidobono molto attivo alla corte torinese forse collaborava ancora.  La presenza della lettera “S” nella marca del piatto affine citato, pubblicato da Cecilia Chilosi, lo conferma. Possiamo così pensare che le nostre alzate siano opere sfornate o nell’ultimo anno della manifattura citata o nei primi anni successivi in un’altra fabbrica di ceramica fina della vivace città ligure e la loro perfetta coerenza pittorica ci permette di considerarli, pur senza voler forzare, forse dipinti da Bartolomeo stesso.

A Bartolomeo stesso erano commissionate maioliche dai Duchi di Savoia e quella ligure era molto apprezzata anche Firenze dai Medici dalla metà del Seicento. Nel nostro stesso nostro anno, il 1694, in un inventario completo della Villa medicea di Poggio Imperiale si elencano più di mille pezzi in “Terra di Savona”. E oggi sono noti diversi piatti da parata decorati con scene istoriate dominate da scudi medicei.

“A Roma un vescovo, Alessandro Falconieri, appartenente a una famiglia aristocratica di origine fiorentina, possedeva una sottocoppa traforata stilisticamente coerente alle nostre e marcata allo stesso modo. Essa è databile dopo il 1691 grazie al carattere araldico dello stemma che porta nel decoro".

 

Raffaella Ausenda

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
61

PIATTO

Napoli, Francesco Antonio Saverio Grue, “1727”

 

Maiolica decorata in policromia a gran fuoco con verde ramina, bruno di manganese, blu di cobalto, giallo antimonio e dorature

alt. cm 4; diam. cm 33,2

Iscrizioni sulla tesa “NEAPOLI An.1727” “ Dr. Fra. Ant. Xav. Grue pinxit”

 

In basso a destra una fenditura consolidata attraversa la tesa e la balza con due rami perpendicolari corti e sottili.

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware with high-fired polychrome decoration painted in copper green, manganese, cobalt blue, antimony yellow, and gold

H. 4 cm; diam. 33.2 cm

On the broad rim, two inscriptions: ‘NEAPOLI An.1727’ and ‘Dr. Fra. Ant. Xav. Grue pinxit’

 

At 5–7 o’clock consolidated hairline crack running across broad rim and part of the well

 

An export licence is available for this lot

 

Il corpo del grande piatto in terracotta è ricoperto da uno strato di smalto stannifero dal colore leggermente beigiato. Il retro presenta una finissima crettatura con molte pulci e punte di spillo.

Tutto l’ornato è disegnato con una sottilissima linea bruno-arancio (ad esclusione delle fronde arboree e delle parti poi dipinte in blu). La tavolozza dei colori a gran fuoco mostra una scala cromatica dominata dal verde, che vede toni chiari dall’accento olivastro, e dal bruno con stesure beige molto chiare. Il bruno scuro del manganese disegna i dettagli e modella i volumi. Le vesti dei protagonisti portano un beige aranciato e blu chiaro. Lumeggiature auree profilano l’intero tessuto decorativo puntinando gli elementi della tesa, le ali e i tessuti dei putti, oltre ad arricchire tessuti e gioielli delle donne sedute al tavolo e, infine, le fronde fogliate.

Il grande piatto tondo ha la tesa leggermente inclinata e orlo liscio. La balza scende addolcendo il passaggio al fondo liscio.

La tesa è riccamente decorata. L’orlo esterno è profilato con una sottile bordura blu accompagnata da filetti manganese, blu e giallo. La fascia maggiore della tesa vede, sul fondo giallo, quattro importanti elementi barocchi, a cartouche, dominati da conchiglie con ciuffi fogliati, fiori e frutti accompagnati da putti in movimento. I due più in alto sono a mezza figura in scorcio e quello a destra si mostra espressivo mentre gioca con un insetto. Altre “zanzare” abitano i piccoli spazi liberi della tesa. Gli elementi ornamentali centrali portano un nastro bianco sottile su cui è leggibile un’iscrizione: “Neapoli” [con la “N” invertita] e “An. 1727”, e nel motivo inferiore: “DR. FRAC.s ANT.s XAV.s/ GRVE pinxit.”

La scena vede protagoniste cinque persone sedute a tavola all’aria aperta davanti ad una locanda, mentre stanno mangiando, servite da due giovani osti: la ragazza con l’abito blu porge un piatto, mentre un giovane uomo versa il vino in un calice. Tre figure sedute ci voltano le spalle: un uomo, un ragazzino e una signora dalla veste arancio decorata con una puntinatura dorata. Davanti a lei vi è la donna più giovane: una ragazza elegante che sembra rivolgere serenamente il suo sguardo verso l’osservatore; le è accanto il giovane uomo sorridente che porge il proprio calice all’oste. Il calice pare prezioso: forse si festeggia un matrimonio. La scena è arricchita da tanti elementi secondari: la facciata della locanda è ricca di particolari, come l’ampia tettoia di frasche. Un ragazzino mangia con le mani, seduto a terra accanto a piccole gerle e a una piccola botte lignea dalla sezione trilobata. Un cappello, una sacca e una cesta sono buttati a terra dall’altra parte. In primo piano, al centro dell’esergo, vi è un cane che abbaia. Lo sfondo paesistico si apre incorniciato da piante dalle ricche fronde fogliate; al centro, in lontananza, è dipinto un complesso architettonico con un torrione cilindrico. Il paesaggio termina in un profilo di monti azzurrati, dove il cielo ha il fondo luminoso in giallo chiaro. In alto vi sono ampie nubi gialle e grigie sul celeste. Qualche uccello è in volo.

La scena centrale deriva sicuramente dal mondo pittorico olandese del pieno Seicento: pare affine alle raffigurazioni delle feste popolari, le “Kermesse”, di David Teniers le Jeune e delle locande del contemporaneo Adriaen Van Ostade, dove incontriamo edifici dalle facciate con muri sbrecciati e tettoie molto simili alla nostra, ma le narrazioni popolari che le animano sono più pauperistiche.

Il sistema decorativo della tesa trova invece nella cultura pittorica di, Carlo Antonio Grue a Castelli d’Abruzzo, la sua radice: le sue composizioni decorative create dall’accostamento di elementi decorativi plastici, festoni fioriti e fruttati e putti volanti sono qui citati chiaramente.

Francesco Antonio Saverio Grue, il figlio primogenito di Carlo Antonio Grue, ebbe sempre grande fortuna data l’ampia quantità di pezzi siglati e le notevoli vicende storiche che lo avevano riguardato. Infatti Francesco Antonio Saverio, dedicatosi a studi teologici, suo malgrado, diventò “Dottore” nel 1706 ad Urbino: titolo che citerà sempre nelle sigle con cui firmerà molte maioliche. Questa cultura alimentò fortemente il suo mestiere ceramico e il sistema relazionale con la clientela nobile o ecclesiastica che lo portò a trasferirsi a Napoli. La sua forte personalità lo aveva fatto tornare a Castelli nel 1716 per scrivere, in aiuto dei suoi concittadini, una supplica al viceré napoletano contro il suo feudatario locale.

L’anno successivo Grue sarà uno dei protagonisti della violenta ribellione castellana e catturato: i documenti storici non ci spiegano chiaramente come sia possibile che la reclusione nel carcere della Vicaria a Napoli per otto anni combaci con la presenza di diverse ceramiche firmate e datate in quel periodo.

La data sul nostro piatto (1727) ci permette di non dover cercare soluzione al capitolo meno facile della storia del nostro artista, anche se (forse) Francesco Antonio Saverio era uscito di prigione due anni prima, il 5 febbraio 1727 venne redatto l’“Instromento” che rendeva pubbliche al paese le nuove regole legali per la vita pacifica. E un mese dopo, il 10 marzo, tutti i castellani erano stati liberati.

La dimensione del nostro piatto e la ricchezza decorativa rendono il pezzo unico. La scritta che sigla e data in un nastro sulla tesa è presente su pochi altri pezzi, il più celebre dei quali è un tondino conservato al Museo di San Martino di Napoli (“1718”) schedato da Fittipaldi. La formula scrittoria di dieci anni precedente è molto più leggera e corsiva della nostra, ma Francesco Saverio usa più spesso lo stampatello. La curiosa formula della “N” specchiata della parola Napoli e quella del numero “7” nella data (con la linea superiore orizzontale), però, non incontrano simili nella grande quantità di parole che Francesco Antonio dipinge sui pezzi per manifestare la propria cultura. In un’opera di questa complessità pittorica, tuttavia, questi errori calligrafici non devono essere sopravvalutati, anche se non riusciamo a comprenderne la causa.

La coerenza della tipologia del materiale e della tavolozza, il linguaggio formale rilevabile nella composizione della scena, nella raffigurazione delle persone e nella qualità dei dettagli già sottolineati durante la descrizione sono riconoscibili, ma la ricca grandezza comporta certe particolarità uniche.

Facciamo alcuni precisi esempi: l’ornato della tesa mostra un carattere insolito nella solidità del motivo plastico, perché la stragrande maggioranza dei pezzi prodotti dall’artista a noi noti sono di ben minori dimensioni e non ne presentano. Ma gli elementi che lo compongono, volute e conchiglie, accanto ai grandi grappoli d’uva, e gli elementi floreali simili ai nostri sono riconoscibili su altri pezzi; anche la straordinaria esecuzione delle figure infantili espressive ha un raro confronto, ma testimoniale nel versatoio delle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco di Milano.

Un’altra scena istoriata dal Dottore di questa complessità, con un gruppo figurato come il nostro, non è mai stata pubblicata. Ma scene festanti all’olandese decorano diverse sue maioliche, certamente di un numero ben inferiore a quelle con soggetti sacri o storici o pastorali. Questo mondo abita, per esempio, un gruppo di pezzi che oggi appartiene al Museo Civico di Padova. Quattro tondi (diametro cm 26-27), di cui tre datati “1722” e uno “1723”, portano raffigurate scene di gioco e danza “particolarmente festosi […] che paiono un riflesso della gioia provata per la scomparsa (quell’anno del nemico politico)” scrive l’Arbace. Molte figure sembrano derivate dalle incisioni olandesi sui “giochi”, anche se lo stile pittorico è qui più corsivo del nostro. In ogni modo, in primo piano, sul terreno, gerle o sacchi sono accanto a botti trilobate: le stesse che troviamo nel nostro prato. Il fatto che questi pezzi siano stati sicuramente raccolti dal collezionista padovano prima del 1844 permette di confermare la certezza della loro autenticità. E, così, di aiutare ulteriormente a supportare la nostra.

 

Raffaella Ausenda

Stima   € 45.000 / 65.000
60

ALBARELLO

Napoli, Maestro della Cappella Brancaccio, 1470-1480

 

Maiolica decorata in policromia con verde ramina, arancio e bruno di manganese nei toni del marrone e del nero su smalto povero bianco leggermente azzurrato

alt. cm 32,5; diam. bocca cm 10,7; diam. piede cm 12

Sotto la base etichetta stampata di spedizione da Parigi con dattiloscritto: “HUMPHRIS C/ N. 7”; etichetta ovale con il numero “44459”; in rosso, numeri di inventario “L.1660.79” e “L.3730.79”

 

Intatto; tracce di usura alla spalla e all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered with a poor white glaze with a light-bluish tinge, and painted in copper green, orange, and brownish and blackish manganese

H. 32.5 cm; diam. 10.7 cm; foot diam. 12.2 cm

On the bottom, shipping paper label (from Paris), typewritten with ‘HUMPHRIS C/ N. 7’; oval paper label with ‘44459’; inventory numbers in red ink: ‘L.1660.79’ and ‘L.3730.79’

 

In very good condition; wear to shoulder and rim

 

An export licence is available for this lot

 

L’albarello ha forma cilindrica appena rastremata al centro con spalla angolata verso il basso, collo breve con orlo estroflesso, piede piano leggermente aggettante all’esterno. La superficie del vaso è interamente decorata e presenta motivi puntinati, a palmette e a ventaglio sul collo e sulla spalla. Lo smalto, spesso e abbondante, ricopre l’intera superficie, compreso l’interno; parte del piede presenta craquelure ma nessuna caduta di colore.

Il corpo è interessato, nella parte anteriore, dalla raffigurazione di un personaggio ritratto di profilo, di fronte al quale è tracciato un cartiglio svolazzante con iscrizione di difficile interpretazione “B.N.BIA.BIA.B.NB.”, forse la descrizione del principio farmaceutico. Il ritratto ha una cornice che ne segue i contorni. Tutt’intorno si estende un motivo a foglie accartocciate.

L’albarello appartiene a un gruppo studiato da De Ricci e da Borenius: e mentre De Ricci lo attribuisce variamente alla Toscana, lasciando aperta l’attribuzione anche ad ambito faentino o romano, Borenius dal canto suo riferisce la provenienza, basata su testimonianze orali, da una farmacia di Caltagirone. Negli esemplari conservati al Louvre e acquistati nel 1903 è conservato un sigillo di cera pertinente a una farmacia palermitana.

Guido Donatone, grazie al confronto con alcune mattonelle esagonali della cappella Brancaccio di Sant’Angelo a Nilo e con altri pavimenti poi attribuiti allo stesso pittore, ha proposto l’ipotesi di una produzione napoletana. Tra i confronti suggeriti dallo stesso autore con medaglie e bassorilievi raffiguranti personaggi aragonesi, spicca proprio l’albarello con personaggio di questa raccolta, che viene così identificato come Alfonso duca di Calabria.

Gli albarelli con stemmi aragonesi del museo parigino recanti le armi di Alfonso II d’Aragona e della moglie Ippolita Sforza, in particolare, forniscono un’indicazione cronologica compresa tra il 1465 e il 1484. A quegli anni si fa risalire anche l’albarello con stemma aragonese del British Museum.

Il nostro vaso è passato sul mercato in occasione della vendita della collezione Bak di New York nel 1965, e nella scheda d’asta, ancora con attribuzione a manifattura faentina del 1480, viene indicata la provenienza dalla collezione Arthur Sambon e dalla raccolta Mortimer Schiff. Abbiamo notizia di una successiva vendita all’asta del Palais Galliera nel 1970 e della pubblicazione dell’oggetto come presente nella collezione Jean-George Rueff nel 1973.

L’opera è stata esposta al Metropolitan Museum of Art di New York negli anni 1917-1919 e 1937-1941.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
59

Vaso a boccia “bombola”

Sciacca, bottega dei fratelli Lo Bue, “1629”

 

Maiolica decorata in policromia con verde ramina, blu di cobalto molto sordo, rosso ferraccia, giallo antimonio, arancio cupo e bruno di manganese su smalto stannifero molto povero

alt. cm 29; diam. cm 10,9; diam. piede cm 11,9

Sul corpo in cartigli “S.P.Q.R.” e la data “1629

Sotto il piede un appunto manoscritto: “ceramica di Sciacca”; etichetta del negozio “Daneu Palermo

 

Fenditura incollata al collo

 

Earthenware, covered with a very poor tin glaze and painted in copper green, dull cobalt blue, iron red, antimony yellow, dark orange, and manganese

H. 29.7 cm; diam. 10.9 cm; foot diam. 11.9 cm

Inscriptions in cartouches on body: ‘S.P.Q.R.’ and ‘1629’

On the bottom, hand-written inscription ‘ceramica di Sciacca’; shop printed label ‘Daneu Palermo’

 

Hairline crack to neck, consolidated

 

Il vaso a bombola ha orlo piano, con labbro arrotondato ed estroflesso, e corto collo leggermente troncoconico che scende su una spalla arrotondata. La pancia del vaso ha forma ovoidale e si stringe in un calice, che termina in un piede con base a disco ed estroflesso, dal profilo leggermente angolato.

Sul corpo, entro una cornice baccellata, costituita da due volute combacianti e su fondo interamente dipinto in giallo, è raffigurata Santa Rosalia dalla corona di rose, dipinta con formula molto corriva, nell’atto di adorare la Croce. Il resto del vaso è ornato da un motivo a trofei a risparmio su fondo blu, con scudi, else di spade, faretre e strumenti musicali disegnati in blu e colorati con ampie pennellate acquarellate, uno scudo tondeggiante è decorato da una faccia di luna sorridente, mentre in un secondo scudo si legge la data “1629” e in un cartiglio compare la sigla “S.P.Q.R.”. Un sottile tralcio continuo di foglie d’acanto su fondo arancio corre sulla spalla, mentre il collo e il calice del piede sono decorati con larghe foglie stilizzate, accompagnate da un motivo a corona anch’essa stilizzata. Il collo e la parte del calice del piede sono decorati con una fascia di cunei con larghe foglie stilizzate, ripetute anche sul piede e accompagnate ancora da un motivo a corona stilizzata.

La tipologia decorativa di questo vaso ha le sue radici nella produzione faentina grazie a Geronimo Lazzaro, attivo a Palermo all’inizio del secolo XVII. Il modello si diffuse nelle botteghe palermitane, e di qui in tutta l’isola con formule di qualità tecnico-stilistica diversa: dai pezzi confondibili con i faentini fino a formule ben più corsive, come nel caso del nostro vaso.

La qualità dell’oggetto, messa a confronto con quella dei manufatti posteriori al 1625, è certamente superiore alla media. La comparazione con esemplari saccensi conservati al Museo del Castello Sforzesco di Milano ci porta a soffermarci sul raffronto con una boccia con cartiglio “Facta a Axacca 1610” attribuita al pittore palermitano Andrea Pantaleo e a un’eventuale presenza dell’artista in un’officina saccense. La sua qualità pittorica nel decoro del collo e quello della spalla e la qualità stilistica nei dettagli dei trofei e nella loro disposizione, l’avvicinano al vaso in esame, il cui pittore è ancora influenzato dallo stile palermitano.

Un vaso simile, con Cristo che regge la croce e decoro a trofei, è conservato al National Museum of Fine Arts de la Valletta a Malta: il vaso è morfologicamente affine, ma di fattura meno accurata, e ha una datazione più avanzata.

Il confronto con una bombola raffigurante il martirio di un santo, proveniente da una raccolta privata palermitana, sostiene infine l’attribuzione alla manifattura dei fratelli Lo Bue di Sciacca. Il vaso mostra le stesse caratteristiche stilistiche, sia nella scelta del decoro con fondo giallo nel medaglione, sia nella realizzazione del motivo sul collo del vaso e della sottile ghirlanda stilizzata collocata nella strozzatura del piede. Altre opere dei Lo Bue, datate agli anni 1628-1629, si avvicinano maggiormente alla nostra e anch’esse mostrano un decoro a trofei e il cartiglio variamente iscritto con la sigla “S.P.Q.R.” o “S.P.Q.S.”.

La bottega dei fratelli Lo Bue produsse esempi non raffinatissimi, ma senza dubbio originali, e che ben si distinguono nel panorama della maiolica siciliana con i loro santi, madonne, profeti ed eroi, spesso raffigurati con “profonda religiosità”: si tratta di “figure che nella sottile ma straordinariamente efficace stilizzazione, diventano anch’esse un tentativo di rendere quotidiano il divino”.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
Aggiudicazione  Registrazione
58

VASO A BOCCIA

Venezia, circa 1575

 

Maiolica decorata in policromia con verde rame, giallo antimonio e arancio, con tocchi di manganese e bianco a risparmio

alt. cm 22,4; diam. cm 10,5; diam. piede cm 11

Sotto il piede etichette “ufficio esportazioni 19.06.1962”; “Parigi 1964”; “Antichità Bellini Firenze

 

Probabile lacuna all’orlo con rottura che scende lungo il corpo intersecandosi con fessurazioni passanti lungo la circonferenza, coperte da restauri mimetici talvolta eccessivi

 

Earthenware, painted in copper green, antimony yellow, and orange with touches of manganese and white reserves

H. 22.4 cm; diam. 10.5 cm; foot diam. 11 cm

On the bottom, three labels: ‘ufficio esportazioni 19.06.1962’; ‘Parigi 1964’; ‘Antichità Bellini Firenze’

 

Probable loss to rim with a crack running through body and crossing some heavy hairline cracks around circumference, covered by large mimetic restorations

 

Il contenitore farmaceutico è forgiato secondo le caratteristiche tipiche della bottega veneziana di Mastro Domenico. Il corpo globulare sale e si restringe in un collo breve che termina nell’imboccatura larga, con bordo estroflesso e orlo piano dal profilo netto. Il piede è quasi tutt’uno con il corpo e ha base piana senza bordura.

Il decoro mostra due ampi medaglioni opposti con orlo mistilineo, bordati da un doppio profilo blu; all’interno due ritratti (il maschile, collocato di profilo, ha un copricapo, quello femminile, di tre quarti, indossa una cuffia) spiccano sul fondo bianco a risparmio, lumeggiato da piccoli tocchi di bianco a creare un alone, delineato da una larga fascia gialla decorata con sottili trattini arancio a raggera. Il resto del vaso è decorato con fiori dalla larga corolla, foglie accartocciate, foglie lanceolate e piccoli fruttini, su un fondo riempito da uno spesso strato di blu cobalto, ingentilito e illuminato da lumeggiature sinuose realizzate con sottili linee incise a retro di pennello.

Per le modalità pittoriche e stilistiche, nonostante alcune ridipinture, si può con sicurezza attribuire questo vaso alla bottega di Mastro Domenico, a Venezia, negli anni intorno al 1575.

Numerosi gli esemplari di confronto, collocabili nella categoria più alta della produzione. Il ritratto maschile, più integro, ci permette un raffronto preciso con un albarello con ritratto nella modalità di resa degli occhi, grandi e con un taglio triangolare e pupilla molto marcata, nei tocchi di arancio e di bianco con cui viene lumeggiato il volto e nella camicia aperta con colletto arricciato visibile sul volume dedicato alla pittura veneziana dell’Alverà Bortolotto. Anche il notevole parallelo con l’albarello della raccolta Mereghi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza ci aiuta nel confronto, così come le due grandi bocce della collezione della Cassa di Risparmio di Perugia, sebbene queste di dimensioni maggiori, o con il piccolo albarello della collezione della Fondazione Banco di Sicilia.

Questa tipologia di vasi costituisce una delle produzioni più ricercate della bottega veneziana dalla metà del XVI secolo, e comprende esemplari di qualità e decorazioni varie, con figure di Santi dipinte a figura intera, ritratti barbati di vecchi, ritratti di giovinetti, turchi con turbanti, guerrieri con elmo, fanciulle o donne variamente atteggiati e inseriti in cornici più o meno elaborate. La qualità della pittura e della materia e il confronto con altri esemplari ci fanno pensare comunque alla produzione più antica della bottega veneziana.

 

Stima   € 4.000 / 6.000
57

PIATTO

Venezia, Mastro Domenico, “1569”

 

Maiolica decorata in policromia con blu, verde, viola di manganese, giallo, grigio di bistro e bianco

alt. cm 4,2; diam. cm 24,5; diam. piede cm 9,6

Sul retro, sotto il piede, iscrizione in blu “- 1569 -/ - SVSANA -

Sul retro, sotto il piede, una piccola etichetta imbrunita “1870/ Februsa (?)/ PL (?)” manoscritto

 

Intatto; solo una piccola sbeccatura interessa l’anello d’appoggio

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in blue, green, manganese purple, yellow, grey and white

H. 4.2 cm; diam. 24.5 cm; foot diam. 9.6 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘- 1569 -/ - SVSANA -’

On the back, beneath the base, small and old hand-written label ‘1870/Februsa (?)/ PL (?)’

 

In very good condition, with the exception of a minor chip to foot ring

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto fondo ha un’ampia tesa e base ad anello. Il fitto tessuto pittorico riveste completamente lo smalto stannifero sul fronte del pezzo.

Il verso reca un sottile strato di smalto, che assume un tono beigiato, con poche grosse pulci e, sul retro della balza, leggeri aloni verdastri. L’anello d’appoggio è sottile e cilindrico. Sei filetti gialli profilano e decorano la tesa. Il fondo del piede smaltato presenta la data e l’iscrizione in blu.

La decorazione istoriata vede la scena maggiore, dipinta nel cavetto, svolgersi all’aperto, in un giardino, sotto un’ampia tettoia verde posta in un campo pratoso con un villaggio sullo sfondo. Vi è raffigurata una giovane donna nuda, con un panneggio aranciato che le copre il pube, seduta al centro di un’ampia fontana semicircolare. Un uomo anziano sta dietro di lei, vicino, e le avvinghia il corpo, spingendole il mento per voltarle la testa verso un’altra figura maschile, che, in secondo piano, pare nascondersi dietro un esile tronco. L’orlo del cavetto è profilato con un sottile motivo a ovuli azzurri su fondo aranciato.

La tesa è completamente ricoperta da un fregio in cui quattro riserve ovali, incorniciate con volute, sono istoriate con scene marine classiche con coppie di Tritoni e Nereidi. La pittura sottolinea il movimento delle figure con onde marine, ciuffi di capelli in volo, spirali dei corpi animali, mitre e trombe. A separare le riserve sono dipinte figure in monocromia giallo-bruna: in alto, due volti virili barbati con un’espressione triste, e in basso piccole erme con putti senza braccia, mentre piccole girali fogliate dipinte e filetti graffiati animano il fondo blu.

La scena è dipinta in vivace policromia dominata dall’accostamento di forti colori, come i verdi luminosi del prato e delle fronde della tettoia in contrasto con le tonalità aranciate del giallo. Il blu di cobalto è cromaticamente dominante e fa da sfondo sia alle scene marine degli ovali, sia ai motivi decorativi minori. Sottili fili bianchi di smalto stannifero lumeggiano le figure della scena, mentre un fittissimo gioco puntinato a leggerissimo rilievo di stagno colorato di giallo muove le fronde del bersò, simulando l’effetto luministico della doratura.

La scena riprodotta deriva dall’illustrazione del XIII capitolo di Daniele ne Les Figures de la Bible, illustrées de huitcains figurato da Pierre Vase ed edito a Lione nel 1564. La ripresa dell’immagine è integralmente fedele, con una sola eccezione: il secondo uomo anziano non è addossato alla ragazza, come vediamo nell’incisione, ma allontanato e nascosto dietro un tronco. Questo indubbiamente sbilancia un poco l’equilibrio compositivo del dipinto.

È interessante sottolineare come passino soltanto cinque anni tra la pubblicazione del volume a stampa francese e la produzione del piatto veneziano. Del resto xilografie bibliche lionesi coeve sono state riconosciute in opere figurate di Mastro Domenico, che si dimostra anche in questo artista d’avanguardia.

Domenico de’ Betti è il più celebre ceramista veneziano. Nel 1547 Domenico sposa la figlia di Jacomo da Pesaro, maiolicaro attivo a Venezia, raffinato artista, autore di splendidi pezzi marcati. Domenico, depentor over bochaler (pittore o vasaio), riuscì a inventare delle formule decorative innovative legate alla nuova cultura artistica veneziana di Giorgione e Tiziano, con una nuova energia pittorica basata sulla potenza dei toni cromatici nella natura. Il suo successo fu tale da permettergli l’apertura di un’importante bottega vicino a Campo San Polo a Venezia attorno alla metà del ’500.

Pochi sono i pezzi di Mastro Domenico firmati e datati e di alta qualità formale considerati oggi opera diretta dell’artista (meno di una decina). Ma l’impostazione dell’ornato del nostro piatto, con il cavetto abitato da una scena istoriata e la tesa dominata da quattro scene minori in ovali con la cornice a cartelle, è totalmente coerente con i tre pezzi più noti firmati da Mastro Domenico e datati 1568: due sono conservati all’Herzog Anton Ulrich - Museum di Braunschweig e uno al Museo Internazionale delle Ceramica di Faenza.

Il nostro piatto, appartenuto fino al 1930 a un’altra raccolta nella città di Braunschweig, la Vieweg, entrò poi a far parte della collezione Bohnewand a Berlino, pubblicato da Otto von Falke nella rivista Pantheon nel 1942. Confrontandolo con i pezzi marcati della collezione Herzog Anton Ulrich, lo studioso tedesco lo assegna con sicurezza a Mastro Domenico. Lessmann e Wilson-Sani, conoscendo la pubblicazione di Falke, lo citano tra i pezzi-documento dell’artista, confermandone l’alto valore estetico.

Gli altri tre pezzi citati hanno diametro ben superiore al nostro (40 centimetri circa), che è invece più consueto nella produzione della bottega veneziana, ma non con questo raffinato e complesso tipo decorativo. I cerchi gialli, visibili sul retro, sono presenti su diversi piatti della nostra dimensione a lui assegnati.

Se la composizione della scena centrale, leggermente disequilibrata rispetto a quella visibile nelle altre opere citate, crea il solo piccolo dubbio sulla diretta mano del maestro, i caratteri tecnico-formali del decoro pittorico aiutano a sostenere fermamente l’opera come lavoro di Mastro Domenico. È riconoscibile il suo linguaggio, manifesto nella rapidità nella stesura sia disegnativa che pittorica. Il dominio del colore, protagonista dalla vivace tavolozza “tonale veneziana”, è accentuato dall’aggiunta alla materia pigmentosa, talvolta pastosa, di giochi tattili con puntinature a leggerissimo rilievo o sottili graffi della punta del manico del pennello nel fondo blu, creando effetti aerei vibranti. Un mestiere da maestro fedelmente riconoscibile sul piatto faentino.

Osservando la marca, la stesura calligrafica dei diversi numeri della data risulta assolutamente identica a quella presente sui pezzi sopracitati considerati di stesura diretta del capo-bottega (talvolta queste date sono sul fronte, scritte in un libro inserito nel decoro della tesa).

Non sono rare scritte sul retro dei suoi pezzi, ma l’ortografia in lettere maiuscole visibile nel “Susana” è molto insolita: un nome (“Thobie”) coerente nella formula scrittoria con il nostro è però presente su un piatto conservato a Braunschweig e considerato da Johanna Lessmann opera diretta di Mastro Domenico databile attorno al 1570.

Come abbiamo già scritto il pezzo appartenne alla collezione Vieweg di Braunschweig (fino al 1930), e quindi alla raccolta Bohnewand di Berlino (1942).

 

Raffaella Ausenda

 

Stima   € 28.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
56

PIATTO

Venezia, Mastro Jacomo, “1540

 

Maiolica dipinta in turchino, blu di cobalto e bianco

alt. cm 3; diam. cm 24,5; diam. piede cm 10

Sul fronte due iscrizioni: in cartiglio “Propertio” e, all’interno di uno scudo pelta, “1540

 

Intatto, sbeccatura sul retro e lievi sbeccature all’orlo.

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in turquoise, cobalt blue, and white

H. 3 cm; diam. 24.5 cm; foot diam. 10 cm

On the front, two inscriptions: ‘Propertio’, in a cartouche, and ‘1540’, in a shield

 

In very good condition; chip on the back and minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto, quasi apodo, presenta un profondo cavetto e una larga tesa leggermente inclinata.

Sul recto vi è una decorazione a grisaille nei toni del grigio-azzurro su fondo blu: l’ornato a trofei si estende su tutta la tesa, mentre il centro del cavetto racchiude un ritratto romano posto di profilo con cartiglio recante la scritta “Propertio”. Il busto classico laureato, raffigurato di profilo al centro del cavetto, ritrae in modo ideale il poeta latino Sesto Properzio, autore delle celebri “Elegie Romane” nel 28 a.C. dedicate anche a soggetti politici e civili. Sulla tesa cinque gruppi di oggetti militari con elmi, armature, scudi tondi, ovali e a mezzaluna (tipico delle amazzoni), faretre e spade, asce, accompagnati da flauti e lituo decorano la tesa. Tra questi uno scudo ovale, verso cui è rivolto lo sguardo del poeta, è decorato con un volto maschile urlante che pare possedere la vita, mentre nella pelta amazzonica spicca la data “1540”.

Il retro presenta una decorazione “alla porcellana” a punta di pennello tracciata in blu attorno al basso anello di appoggio, su fondo di smalto appena azzurrato.

L’ornato di questo piatto appartiene alla decorazione “all’antica” detta “a trofei”: fortunato motivo delle maioliche rinascimentali a Venezia e in tutt’Italia, molto diffuso attraverso le incisioni. Il decoro del nostro piatto vede forte affinità con stampe coeve (celebri quelle di Enea Vico).

La formula pittorica vede lo smalto chiaro azzurrato, dal tono leggermente grigiastro, rimanere riservato nella stesura di un fondo a pennellate di un blu di cobalto forte, di tonalità brillante. Con una tecnica pittorica sapiente un sottile disegno blu imposta il decoro, il modellato dei volumi realizzato con leggere stesure più scure e arricchito con un tessuto di fini pennellate in blu cobalto e bianco stannifero.

Un riscontro calzante col nostro si trova in un piatto con trofei con armi, spartiti musicali, Luna antropomorfa e con, al centro, un ritratto all’antica di profilo circondato da panoplie: la composizione e i caratteri disegnativi sono quasi sovrapponibili ai nostri. Il pezzo di confronto, allora appartenente alla collezione J.C., fu segnalato da Joseph Chompret con attribuzione a una manifattura di Padova e pubblicato nel suo repertorio di maioliche rinascimentali nel Répertoire de la majolique italienne del 1949; anche il retro di questo esemplare (purtroppo non visibile in fotografia) sembra corrispondere a quello del piatto in esame.

Come ormai è noto è invece in Mastro Ludovico, attivo a Venezia proprio in quegli anni, che è comunemente riconosciuto, in base al carattere stilistico e materico con l’autore di questa formula ceramica con cui troviamo le affinità maggiori, tanto nella qualità del ritratto quanto nella formula pittorica.

Johanna Lessmann nel catalogo dell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig ha pubblicato una serie di piatti coerenti stilisticamente col nostro alcuni dei quali datati 1540, considerandoli veneziani. Tra questi piatti, fortemente affini al nostro esemplare, il n. 549 mostra un ritratto sovrapponibile al nostro in una posizione appena più angolata, con un cartiglio disposto diversamente e recante l’iscrizione “Salustio.R.”.

Il carattere materico e stilistico del nostro esemplare mostra forte affinità con un grande piatto, conservato al Victoria and Albert Museum, con decoro “a cerquate“ in monocromia azzurra, marcato nella bottega veneziana di Mastro Ludovico e datato “1540” al centro di una corona fiorita “alla porcellana”, come il nostro. Questa familiarità permetterebbe di sostenere l’attribuzione del piatto con Properzio.

La tipologia ceramica, la fine declinazione del decoro classico “a trofei” e lo stile pittorico richiamano poi altri pezzi, tra cui un altro piatto del Victoria and Albert Museum, databile attorno agli anni Cinquanta-Sessanta del secolo, ed uno conservato nel Herausgegeben vom Kunstgewerbemuseum di Berlino (considerato erroneamente degli anni trenta del XVI secolo), anch’esso sul retro decorato “alla porcellana”.

Angelica Alverà Bortolotto nel suo testo sulla storia della ceramica a Venezia aveva dedicato grande spazio ai " versi con ghirlanda alla porcellana". La studiosa ci informa della difficoltà attributiva tra le botteghe veneziane di Mastro Ludovico e Mastro Jacomo da Pesaro, denunciando come la maiolica veneziana del periodo riveli una grande uniformità di tecniche e di stili, tale da far pensare ad uno scambio di pittori tra botteghe. Individua pertanto stili diversi, rimarcando il fatto che non tutti i lavori stilisticamente attribuiti all' una o all'altra bottega riportino al verso un segno di distinzione. Sulla traccia di questi studi siamo venuti a conoscenza dell'imminente pubblicazione di un saggio di Elisa Sani sul prossimo numero della rivista "Faenza", nel quale la studiosa sostiene l'attribuzione di questi piatti a trofei alla bottega di Mastro Jacomo.

Il nostro piatto appartenne alla collezione del Museo Nazionale Svizzero di Zurigo fino agli inizi del XX secolo. Nel 1970 è passato sul mercato nella famosa asta tenutasi a Firenze a Palazzo Capponi ancora erroneamente attribuito a Casteldurante.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
55

PIATTO                                                                    

Urbino, 1570-1580                                                         

                                                                          

Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, verde e bruno di     

manganese                                                                 

alt. cm 3,5; diam. cm 23; diam. piede cm 8,5                              

Sul retro scritta in bruno di manganese Crasitone:                        

Sul retro etichetta circolare con manoscritto numero 6176; sul retro altra

etichetta rettangolare dattiloscritta poco leggibile 6176/ VENEZIA/ 1565  

CIRCA... PIATTO ISTORIATO/ DELLA/ BOTTEGA DI MAESTRO LUDOVICO             

                                                                          

Intatto                                                                   

                                                                          

Corredato da attestato di libera circolazione                             

                                                                          

Earthenware, painted in yellow, orange, green, and manganese              

H. 3.5 cm; diam. 23 cm; foot diam. 8.5 cm                                 

Inscription in manganese Crasitone                                        

On the back, beneath the base, round hand-written label 6176; rectangular 

label, typewritten with 6176/ VENEZIA/ 1565 CIRCA... PIATTO ISTORIATO/    

DELLA/ BOTTEGA DI MAESTRO LUDOVICO (hardly readable)                      

                                                                          

In very good condition                                                    

                                                                          

An export licence is available for this lot                               

                                                                          

Il piccolo piatto, poggiante su un basso piede ad anello, ha cavetto      

piccolo e poco profondo e larga tesa orizzontale.                         

Sul fronte la decorazione mostra al centro Erisittone, accompagnato da due

personaggi, mentre abbatte un albero: dal tronco dellalbero esce un fiotto

di sangue. Sullo sfondo si staglia un paesaggio lacustre blu con montagne 

dal profilo arrotondato; il terreno si presenta con zolle erbose interrotte

da ampie zone sabbiose cosparse di ciottoli rotondi.                      

Sul retro, ove i profili del piatto sono sottolineati da linee gialle, al 

centro del cavetto si legge la parola Crasitone, delineata in corsivo in  

bruno di manganese.                                                       

La scena ci riporta alla mitologia ovidiana, tanto cara agli istoriatori  

del 500. In Ovidio troviamo numerosi esempi di trasformazioni di esseri   

umani in piante, ma soltanto in tre casi si tratta di piante sanguinanti. 

Tra questi il mito di Erisittone (Ov., Met. XVIII, 779; 823-840), che     

consapevolmente, in aperto spregio agli dè insieme a venti compagni osa   

profanare un bosco consacrato alla dea Demetra abbattendone gli alberi, tra

i quali una quercia sotto la quale si nasconde una ninfa assai cara alla  

stessa divinità scopo del disboscamento era ricavare il legname per       

costruire una sala per i suoi banchetti. Demetra appare sotto mentite     

spoglie a Erisittone e lo prega di interrompere la sua opera empia, ma    

questi la minaccia; la dea quindi, manifestandosi apertamente lo punisce  

condannandolo a patire una fame inestinguibile. Di conseguenza Erisittone 

dilapiderà tutte le proprie sostanze e quelle dei suoi familiari.         

Nonostante lindicazione tradizionale alle manifatture venete, lopera ci   

pare più prossima alla produzione urbinate degli anni Sessanta del 500. Un

riscontro particolarmente attinente è stato individuato nel confronto con 

alcuni personaggi e dettagli compositivi di un piatto del servizio Carafa 

conservato al Museo Civico Medievale di Bologna e databile negli anni     

1560-70. Nei due esemplari si notano infatti notevoli affinità come ad    

esmpio nel modo di delineare i volti e il corpo dei personaggi, con       

abbondante uso di lumeggiature bianche a dare rotondità alla muscolatura; 

assai simili sono anche la mano del personaggio femminile in corsa sul lato

destro del piatto Carafa e quella del compagno di Erisittone vicino       

allalbero. Inoltre, il modo di sottolineare lo sguardo dei personaggi con 

il bruno di manganese si ritrova anche in alcuni volti raffigurati su opere

della bottega urbinate dei Fontana databili a partire dagli anni Quaranta.

Ci pare inoltre corretto associare il piatto in esame a oggetti di        

dimensioni più prossime: si veda pertanto il piatto con Ercole e Deianira 

del museo di Braunschweig, con il quale ci pare di ravvisare una vicinanza

anche nella grafia sul retro (in cui si legge Erculle e dianira), e quello

con Mosè nello stesso museo, entrambi databili alla fine del secolo XVI.  

Stima   € 7.000 / 10.000
Aggiudicazione  Registrazione
54

VASO

Urbino, bottega  di Orazio Fontana, 1565-1570

 

Maiolica decorata in policromia in arancio, verde, blu e bruno di manganese nei toni del nero e del violaceo

alt. cm cm 37 (cm 39,2 con base aggiunta); diam. bocca cm 11; ingombro massimo alle anse cm 32

Sul plinto della base corre l’iscrizione “FATTO IN BOTEGA DE M ORATO FONTANA”

 

Vasta lacuna reintegrata in terracotta all’orlo; mascheroni alla base delle anse ricostruiti in terracotta smaltata a imitazione dell’originale; rottura del calice del vaso, che risulta non pertinente con l’opera originale; lacune e sbeccature ai riccioli dei sostegni, reintegrate in alabastro. Probabile pertanto la successione d’interventi di restauro in periodi diversi.

Il vaso è corredato di documentazione a cura del laboratorio di restauro.

 

Earthenware, painted in orange, green, blue, blackish manganese, and manganese purple

H. 37 cm (39.2 cm with added base); diam. 11 cm; maximum width with handles 32 cm

Inscription running around the plinth ‘FATTO IN BOTEGA DE M ORATO FONTANA’

 

Condition report from restoration department available

 

Il vaso ha corpo ovoidale poggiante su un’alta base triangolare (in parte rifatta in cotto), bocca larga con orlo estroflesso, alto collo cilindrico. Dall’imboccatura si dipartono due coppie di lunghe anse a forma di serpe e terminanti in un mascherone di satiro, molto integrato in restauro. Il piede, con anello a rilievo collocato a interrompere lo stelo, presenta tre riccioli che lo collegano al calice, quasi ad aumentare la tenuta del sostegno. Sotto il piede è collocata una base a triangolo che porta sul plinto una scritta in caratteri capitali delineata in bruno di manganese su fondo blu: “FATTO IN BOTEGA DE M ORATO FONTANA”. Questa base risulta coerente con la parte originale del vaso.

La somiglianza tra il vaso del British Museum e il nostro esemplare, come vedremo, era già stata notata da Tait, che nel suo saggio sulla maiolica del Rinascimento montata in bronzo dorato cita il vaso in esame, affermando che non pareva essere montato in bronzo.

Il corpo è decorato da due scene istoriate: da un lato è raffigurato un gruppo di quattro personaggi maschili barbati nelle vicinanze di una roccia, due dei quali mollemente adagiati su un‘anfora rovesciata, dalla quale scorre un fiume d’acqua; sull’altro lato due figure, una femminile, stante in posizione eretta con un piede appoggiato su un’anfora rovesciata, ed una maschile, anch’essa caratterizzata da un altro vaso simile rovesciato: si tratta certo della raffigurazione di divinità fluviali.

Il vaso è ben noto agli studiosi e ritenuto di grande interesse proprio per la presenza della scritta che lo assegna alla bottega di Orazio Fontana: essa serve a determinare così l’attribuzione di un’intera serie di vasi alla bottega urbinate. Due grandi vasi biansati affini con scene istoriate, uno al Victoria and Albert Museum e l’altro già nella collezione Spitzer, recano inoltre la scritta “FATTO IN URBINO” testimoniando della presenza della bottega a Urbino.

Il punto di riferimento per i corredi farmaceutici analoghi è costituito, insieme al nostro, da un esemplare appartenente a una coppia di vasi montati in bronzo conservata al British Museum, che reca la scritta “FATE IN BOTEGA. DE ORATIO. FONTANA”; l’altro vaso della coppia è del tutto simile al primo quanto a impostazione morfologica, ma non presenta alcuna scritta e ha un’impostazione stilistica differente, benché simile. L’affinità con il primo esemplare, invece, è notevole: anche il soggetto, ma soprattutto lo stile pittorico rivelano la presenza di una stessa mano. Questi oggetti sono molto simili alla prima serie di vasi della Santa Casa di Loreto e sono stati probabilmente realizzati nella prima fase della carriera di Orazio Fontana a Urbino. La bottega di Orazio dovette cominciare la sua attività nel 1565, per terminare con il passaggio al nipote Flaminio nel 1571, dopo la morte di Orazio: in quest’arco cronologico s’inserisce la nostra opera.

Di grande interesse l’analisi dei caratteri stilistici del corredo farmaceutico della Santa Casa di Loreto, quello che più si avvicina all’esemplare in esame per caratteri stilistici, anche se con varianti morfologiche dovute al contenuto farmaceutico, fattore questo che poteva influenzare anche la disposizione dei decori.

Un altro vaso di questa tipologia, anch’esso decorato con divinità fluviali, è stato studiato da Carmen Ravanelli Guidotti ed è conservato in una raccolta privata. Per la personificazione della figura del fiume in quell’oggetto la studiosa propone come fonte dell’ispirazione iconografica le incisioni del “Maestro del Dado” da Giulio Romano, tratte dalla serie che illustra la storia di Apollo e Dafne; riteniamo che questa proposta possa risultare valida anche per il nostro esemplare.

Il nostro vaso è riprodotto in una tavola del Recueil de faïences italiennes di Delange e Borneman del 1869, nella quale si può notare che gli attacchi dell’ansa sono a forma di testa di sfinge e non di mascherone, e lo stato di conservazione sembra migliore.

In seguito, questo vaso passò alla collezione Barker di Londra.

In una lettera del 1967 con la proposta di vendita del vaso da parte dell’antiquario Petreni di Firenze, si parla di un vaso del ’500 con incrinature, dichiarato come proveniente dalla collezione Rothschild e illustrato nel volume di Delange. Nel 1968, in una successiva lettera, ancora Petreni specifica che il vaso era in un primo tempo appartenuto alla collezione “Burke” di Londra, in seguito acquistata da Rothschild e poi venduta in parte all’Hôtel Drouot in data da precisare, e allega i dati riportati da Delange e Borneman nel testo del 1869, citando un vaso con iscrizione identica nella collezione del barone Seillières.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
53

Tagliere da impagliata

Urbino, bottega Fontana, 1540-1550 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, verde, blu, bianco e bruno di manganese nel tono del nero

alt. cm 3; cm 21,4 x 17,1; piede cm 16 x 12

 

Intatto

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, orange, green, blue, white, and blackish manganese

H. 3 cm; 21.4 x 17.1 cm; foot 16 x 12 cm

 

In very good condition

 

An export licence is available for this lot

 

Di quest’antico servizio da puerpera resta il tagliere, che mostra una forma ovale con incavo poco profondo, bordo appena rilevato ed estroflesso con orlo riccamente baccellato, e fondo piano e apodo. L’oggetto è interamente smaltato.

Il decoro in piena policromia interessa l’intera superficie con una scena animata da nutrice e balie indaffarate presso la culla, intente a fasciare il neonato.

L’orlo del tagliere è anch’esso dipinto con un’alternanza di colori, utilizzati per sottolineare la varietà delle forme delle baccellature.

Sul verso dell’oggetto è raffigurato un angelo in piedi su una nuvola, sorridente e con il capo chino, che regge una sottile croce cui è appesa la corona di spine; le vesti sono leggermente scostate sulle gambe e le ali multicolori aperte. Lo sfondo giallo intenso esalta il contrasto cromatico, facendo risaltare la figura; tutt’intorno gira una cornice di nuvolette arrotondate.

L’impalliata (o impagliata) era un servizio di maiolica che veniva offerto alla puerpera per il suo primo pasto a letto dopo il parto: più elementi sovrapposti formavano un unico insieme. Il Piccolpasso nel suo trattato sull’arte della maiolica ben ci descrive il manufatto e cita i cinque elementi che lo compongono: “schudella della donna di parto”, tagliere, ongaresca, saliera e coperchio. Sul primo oggetto, adatto a contenere il brodo o la zuppa, era posto il tagliere, sul quale era appunto collocata l’ongaresca, una sorta di contenitore che, una volta capovolto, serviva a coprire le pietanze; a quest’ultima si sovrapponeva una saliera munita di coperchio.

Per modalità decorative e caratteristiche morfologiche l’esemplare s’inserisce appieno nella serie di opere dalla foggia complessa che caratterizza la produzione urbinate della seconda metà del secolo XVI.

Tuttavia lo stile pittorico – i volti arrotondati, i tratti fisiognomici sottolineati in manganese e lumeggiati con tocchi di bianco, gli occhi abbassati, le bocche rese con un sottile tratto orizzontale, gli abiti panneggiati con un uso sapiente del colore, senza contorni – differisce fortemente da quello generalmente associato alla bottega dei Patanazzi, che domina la scena urbinate in quel periodo, caratterizzato da figure dalle forme più “bamboleggianti”, con teste grandi e leggermente sproporzionate.

Un’ongaresca con tagliere del Museo del Louvre mostra figure femminili con caratteristiche fisiognomiche molto simili associate a grottesche.

Ma è nel confronto con un’opera simile della bottega Fontana, già appartenuta alla collezione Adda, che riscontriamo le affinità maggiori: nella coppa da impagliata le figure femminili, intente ad accudire una puerpera coricata in un letto con baldacchino, mostrano la stessa pacatezza nei volti che vediamo nelle donne rappresentate sulla nostra opera, e anche la tenda ha il medesimo motivo decorativo. In particolare sono utili nel confronto le caratteristiche stilistiche del verso dell’oggetto: il piccolo putto mostra molte analogie stilistiche con il giovane angelo sul retro del nostro tagliere e anche il modo in cui vengono “incorniciati” i due protagonisti, circondati da nuvole arricciate, è identico.

La qualità complessiva del decoro ci fa ascrivere il manufatto ancora alla produzione della bottega Fontana e negli anni attorno al 1540 circa.

Non per questo abbiamo trascurato nella nostra analisi la notevole personalità di Antonio Patanazzi che, nonostante le opere sicuramente attribuibili alla sua mano siano poche, già attorno al 1540 era a capo di una bottega. Alcune analogie con opere analizzate da Fiocco e Gherardi nel loro articolo su questa personalità urbinate ci hanno fatto riflettere su una eventuale attribuzione a tale artista. Si vedano, a titolo di esempio, alcuni dettagli nei volti e nelle mani dei personaggi raffigurati nei medaglioni dei vasi attribuiti con sicurezza al pittore urbinate. Egli del resto lavora in parallelo e in collaborazione con Orazio e Flaminio Fontana, e non si possono quindi escludere forti influenze della bottega nella quale si era formato: da qui le affinità.

Anche quest’opera, come già detto per i piatti presentati ai lotti 43 e 44 di questo catalogo, sembra figurare tra gli esemplari appartenenti agli inizi del ’900 al Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, pubblicati da Mariaux: infatti nella figura n. 2, al centro, ci pare di individuare l’opera in esame, passata poi sul mercato nella famosa asta tenutasi a Firenze a Palazzo Capponi nel 1970.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
52

TONDINO

Castel Durante, bottega di Ludovico e Angelo Picchi, 1550-1560 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero e del marrone, bianco

alt. cm 3,5; diam. cm 16; diam. piede cm 4,5

Sul retro, sotto il piede, iscrizione “Tobia

Sul retro, sotto il piede, etichetta dattiloscritta “Venezia/ Coll. Adda/ 1545/50

 

Felatura sottile in basso a destra; due profonde sbeccature sull’orlo superiore

 

Earthenware, painted in orange, green, blue, blackish and brownish manganese, and white

H. 3.5 cm; diam. 16 cm; foot diam. 4.5 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Tobia’

Label typewritten with ‘Venezia/ Coll. Adda/ 1545/50’

 

Minor hairline crack at 5 o’clock; two deep chips to upper rim

 

Il tondino di maiolica ha un cavetto profondo, un’ampia tesa appena inclinata e una base con piede ad anello appena accennato.

Sul fronte, al centro della scena, l’Arcangelo Raffaele conduce per mano Tobia, detto anche Tobiolo, per fargli da guida nel viaggio che intraprende per andare del padre malato.

La scritta sul retro del piatto richiama il nome del personaggio, spesso raffigurato nelle maioliche cinquecentesche.

Due rocce cuspidate, realizzate con ombreggiature ocra, e due alberi dai tronchi sottili, sottolineati da tratti paralleli, fanno da quinta alla scena, mentre un prato verde scuro, con un sentiero cosparso di ciottoli arrotondati, lumeggiati di bianco e arricchiti da ciuffi di erba, è ai piedi dei protagonisti. Sullo sfondo, illuminato da un cielo al tramonto con nuvolette arrotondate, si stende un paesaggio lacustre con montagne quadrangolari in blu e in ocra e un villaggio costituito da palazzi quadrangolari che si specchia nel lago.

Le caratteristiche stilistiche ripetitive e l’esecuzione frettolosa avvicinano questo tondino all’esemplare presentato al lotto 50 di questo catalogo: si vedano il cielo e lo specchio d’acqua, realizzati con sottili linee parallele, che si ripetono nel segmento di luce arancio e in modo più diluito, nella volta che circonda il paesaggio.

Le montagne e l’abbondante uso del verde ramina nella realizzazione del prato e dei ciottoli disseminati sul sentiero ci portano ad assegnare l’opera alla bottega durantina di Ludovico e Angelo Picchi e al 1550-1560, secondo l’attribuzione più recente.

La bottega prediligeva forme quali le crespine e le coppe baccellate e mosse, mentre i tondini sono più rari, ma comunque presenti nella produzione.

Il piatto viene menzionato nel catalogo della raccolta Adda con attribuzione alla bottega di Mastro Domenico a Venezia e datato attorno al 1545-1550.

 

Stima   € 6.000 / 8.000
Aggiudicazione  Registrazione
51

PIATTO

Castel Durante, bottega di Ludovico e Angelo Picchi, 1550-1560 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero e del marrone e bianco

alt. cm 5,1; Ø cm 27,4; Ø piede cm 9,7

Sul fronte iscrizione “pirramo e Tisbi”

Sul retro etichetta stampata “[169 AN AMUSING URBINO DISH painted in the usual palette of blue,/ green, yellow and ochre, with the story of Pyramo and Thisbe, the hero/ lies with his spear through his body by the side of Ninus’ tomb. Thisbe/ and the lioness stand close by. A city in the background the tomb inscribed/ with the names of the lovers, 10 incs, circa 1540 / [See ILLUSTRATION]

 

Felatura passante sulla tesa a sinistra

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, green, blue, blackish and brownish manganese, and white

H. 5.1 cm; diam. 27.4 cm; foot diam. 9.7 cm

On the front, inscription ‘pirramo e Tisbi’

On the back, printed label ‘[169 AN AMUSING URBINO DISH painted in the usual palette of blue/, green, yellow and ochre, with the story of Pyramo and Thisbe, the hero/ lies with his spear through his body by the side of Ninus’tomb. Thisbe/ and the lioness stand close by. A city in the background the tomb inscribed/ with the names of the lovers, 10 incs, circa 1540 / [See ILLUSTRATION]’

 

Heavy hairline crack to broad rim at 9 o’clock

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto ha un cavetto largo e profondo, una tesa larga e obliqua con orlo arrotondato listato di giallo e un piede ad anello rilevato. Il retro è profilato di giallo.

La decorazione pittorica presenta una scena istoriata con un paesaggio marino con montagne sullo sfondo. Al centro del cavetto una città con palazzi e cupole, parzialmente coperta da un cumulo di rocce, si specchia in un fiume che scende verso la scena principale, nella parte inferiore del piatto: qui è raffigurata Tisbe con le braccia aperte e il manto gonfiato dal vento, mentre scopre il cadavere di Piramo, il quale si è ucciso credendola morta. Alle spalle della donna sono raffigurati due animali: un piccolo leone, origine dell’equivoco, e un cavallo bianco; poco distante a sinistra, si scorge Eros che alza l’arco nella mano sinistra. A destra una fonte scorre dal sepolcro di Nino, luogo del ferale appuntamento, e lì è frettolosamente scritta in corsivo l’epigrafe che descrive la scena: “pirramo e Tisbi”.

La favola, tratta probabilmente dalle Metamorfosi di Ovidio (Ovid., Met IV, vv. 55-166), ha molte fonti illustri, classiche, medievali e rinascimentali e fu soggetto di grande successo. In maiolica ne conosciamo una versione di Xanto Avelli, ma la bottega durantina, cui l’esemplare è attribuito, segue generalmente le fonti classiche dell’istoriato urbinate.

Il piatto è stato pubblicato come opera di bottega di Urbino, ma a nostro giudizio è stilisticamente riferibile alla produzione di Ludovico e Angelo Picchi a Castel Durante. L’attribuzione si basa sul confronto con un piatto del Walters Art Museum di Baltimora, attribuito alla bottega di Andrea da Negroponte, che raffigura la sfida tra Apollo e Marsia. Si veda ed esempio la somiglianza stilistica dei volti di Apollo e della divinità sulla sinistra con quella della figura di Tisbe in questo piatto e in particolare il naso dritto a “L”, la bocca semiaperta e gli occhi con le palpebre abbassate, ma anche il modo ancora molto tradizionale di circondare la figura con il manto gonfiato dal vento. Anche le ali di Eros, disposte ad angolo retto, il nastro sottile che regge la faretra e la postura del dio, ricordano gli amorini nel piatto di Baltimora. Inoltre in entrambi gli oggetti i volti lumeggiati con tocchi di bianco, i cespugli ad alberello e il paesaggio di sfondo, con torri con cupole e casette con portico, si differenziano dalle modalità compositive più consuete della bottega durantina. Il satiro sulla destra nell’esemplare di Baltimora è molto simile a quello raffigurato sul piatto presentato al lotto 50 di questo catalogo, attribuito alla stessa bottega, a conferma dell’uso ripetitivo di alcuni soggetti in questa manifattura durantina. C’è poi da osservare che entrambi gli oggetti sono di dimensioni importanti, quindi non comuni.

Anche il confronto con un altro grande piatto conservato nello stesso museo americano, anch’esso anomalo rispetto alle serie attribuite alla bottega durantina, sorregge l’ipotesi attributiva. Si tratta di un piatto raffigurante la raccolta della manna, il quale si discosta dalla media per la complessità della raffigurazione, per il numero dei personaggi e per le dimensioni. Ciononostante, sono molti i dettagli stilisticamente affini all’opera degli artefici durantini: per esempio lo stile pittorico nella resa dei volti e le figurine sedute in alto a destra, la cui impostazione è assai prossima allo stile della bottega durantina; e anche il cavallo bianco al centro della scena presenta caratteristiche molto simili a quelle dell’animale raffigurato sul piatto in esame, in particolare per quanto riguarda la rappresentazione del muso.

Riguardo alla provenienza, l’unica notizia si ritrova nel lavoro di Bellini e Conti, che pubblicano l’opera come appartenente alla collezione Genova di Venezia.

Il piatto è passato all’asta di Palazzo Capponi a Firenze nel 1970.

Stima   € 18.000 / 25.000
50

TONDINO

Castel Durante, bottega di Ludovico e Angelo Picchi, 1550-1560 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, verde, blu, bianco e bruno di manganese nei toni del nero

alt. cm 4,4; diam. cm 22; diam. piede cm 6,6

Sul retro, sotto il piede, iscrizione “apollo et panno

 

Restauro mimetico sul nella parte bassa del piatto; la rottura doveva essere netta: il restauro non inficia la lettura della scena.

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, green, blue, white, and blackish manganese

H. 4.4 cm; diam. 22 cm; foot diam. 6.6 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘apollo et panno’

 

On the back, mimetic restoration to lower part of the dish; the crack was probably sharp: restoration does not prevent reading the scene depicted on the plate

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto ha forma di tondino, con profondo cavetto, tesa obliqua, orlo arrotondato e piede ad anello appena rilevato e segnato di giallo. Il ductus della scritta sul retro è poco accurato.

La scena è centrata da una roccia impervia e da un albero dal tronco spoglio con una chioma a ombrello; sullo sfondo un paesaggio lacustre con alte montagne e una citta turrita; ai lati, sulla tesa, sono dipinti uno di fronte all’altro Apollo che suona una lira da braccio, e Pan che suona la siringa.

Si tratta del duello tra Apollo e Pan secondo il racconto di Ovidio (Ov., Met. XI, 146-193). Il mito narra di come un giorno la divinità silvestre avesse voluto sfidare Apollo, pur consapevole di non poter competere con il suono della lira del dio della musica. Ciononostante vinse la competizione, ma solo grazie al giudizio di re Mida che, ignorante di musica, era stato scelto come arbitro.

Dal punto di vista pittorico si notano i volti appuntiti, gli zigomi ombreggiati di ocra e lumeggiati di bianco, i profili e le figure orlati di manganese. Il cielo e lo specchio d’acqua sono realizzati con sottili linee parallele che si ripetono nel segmento di luce di sfondo color arancio e, in modo più diluito, nella porzione che circonda il paesaggio. Due montagne sullo sfondo sono realizzate in blu, hanno forma quadrangolare e sono sormontate da una torre, anch’essa quadrata. Il paesino in riva al mare mostra una serie di edifici movimentati da una cupola, torri e alberelli. Una caratteristica particolare è l’abbondante uso del verde ramina nella realizzazione del prato nell’esergo, interrotto da un sentiero ocra punteggiato da ciottoli arrotondati realizzati in ocra, lumeggiati di bianco e arricchiti da un sottile ciuffo d’erba.

Come noto la favola ovidiana fu spesso raffigurata sulle maioliche, e questo soggetto in particolare fu utilizzato di frequente nelle opere attribuite alla bottega di Andrea da Negroponte datate tra il 1550 e il 1560 circa.

Tutte queste caratteristiche tecniche pittoriche e stilistiche ci indirizzano verso l’attribuzione: a tal proposito si vedano come confronto i numerosi piatti conservati al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, tra i quali una crespina firmata che può essere considerata capostipite per le numerose attribuzioni ad Andrea da Negroponte di Castel Durante. Anche il bel piatto, conservato nel Walters Art Museum di Baltimora, che vede Apollo impegnato in un’affollata sfida con il sileno Marsia si aggiunge alla serie dei confronti raccolti da Johanna Lessmann, un lavoro ineludibile per la definizione del corpus di questa prolifica bottega durantina attiva dalla metà del ’500.

Studi più recenti – vista l’assenza nei documenti dell’epoca di notizie circa maiolicari chiamati “Negroponte” attivi a Castel Durante – suggeriscono di collocare il pittore fra quelli attivi nell’importante e prolifica bottega dei fratelli Ludovico e Angelo Picchi.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
49

PIATTO

Pesaro, “1553”

 

Maiolica decorata a policromia in turchino, verde, rosso ferro, arancio, ocra, bianco e bruno di manganese nei toni del nero e del marrone

alt. cm 2,8; diam. cm 22,7; diam. piede cm 9,6

Sul retro, sotto il piede, in caratteri corsivi, delineati in blu di cobalto compare la scritta “Mercurio quando / ucise argo 1553”;

Sul retro, sotto il piede etichetta rotonda con manoscritta “FL40/11 (3)”; altra etichetta con manoscritta “6/£150

 

Intatto; lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in turquoise, green, iron red, orange, ochre, white, and blackish and brownish manganese

H. 2.8 cm; diam. 22.7 cm; foot diam. 9.6 cm

On the back, beneath the base, inscription in cobalt blue ‘Mercurio quando / ucise argo 1553’; round hand-written label ‘FL40/11 (3)’; hand-written label ‘6/£150’

 

In very good condition; minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto, poggiante su un piede appena accennato, presenta un cavetto poco profondo, una larga tesa orizzontale e un orlo arrotondato listato di giallo. La superficie è interamente smaltata con abbondanza di materia e la decorazione la occupa interamente.

Sul retro tracce di colore verde sotto smalto e la scritta in caratteri corsivi delineati in blu di cobalto collocata al centro del piede: “Mercurio quando/ ucise argo 1553”.

Al centro della narrazione, appoggiato a una roccia, è raffigurato il pastore Argo, riconoscibile per il corpo coperto di occhi, addormentato al suono del flauto di Mercurio, seduto di fronte a lui. La composizione principale è compresa tra una roccia coperta da radici e cespugli, e un albero dal tronco sinuoso, la cui corteccia è ricreata con pennellate scure appena lumeggiate da sottili tratti bianchi. Alle spalle della roccia pascola una mandria di armenti, e tra loro forse anche la fanciulla Io, trasformata da Giunone in una mucca. Tutt’intorno un paesaggio lacustre con un paesino su cui troneggiano torri e palazzi, circondato da alte montagne dal profilo arrotondato. Sulla superficie del lago si scorgono delle barchette dalla forma ricurva: le sponde sono sottolineate dalla presenza di ciuffi di fiori rossi; in primo piano una fonte d’acqua.

Il fulcro della scena è dunque lo scontro dinamico tra i due personaggi. Il pastore Argo era preposto a sorvegliare Io, ma Giove, innamorato della fanciulla, mandò Mercurio per ucciderlo. Alla sua morte Giunone trasferì gli occhi di Argo sulla coda del pavone, suo animale simbolo.

Il pittore utilizza la versione di Ovidio, sposando però l’iconografia che prevede la distribuzione degli occhi su tutto il corpo del pastore.

Il piatto trova un preciso riscontro stilistico e morfologico in quello presentato al lotto 48 di questo stesso catalogo, al quale si rimanda per l’analisi stilistica e per la possibile attribuzione. E come il piatto appena ricordato anche questo all’inizio del Novecento faceva parte delle collezioni del Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, come riferisce Mariaux in un suo articolo, dove propone l’attribuzione alla bottega durantina di Andrea da Negroponte.

Il piatto è stato presentato nell’asta di Palazzo Capponi a Firenze nel 1970.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
48

PIATTO

Pesaro, “1553”

 

Maiolica decorata a policromia in turchino, verde, rosso ferro, arancio, ocra, bianco e bruno di manganese nei toni del nero e del marrone

alt. cm 2,6; diam. cm 22,3; diam. piede cm 9,5

Sul retro, sotto il piede in caratteri corsivi in blu di cobalto, una scritta poco leggibile con alternanza di lettere e punti “N[.]rc[…]s[..](?)alf[..][..]n / f[..](?)[..]t [..]cch[..][..](?) […]ns[.]s[..][..] / 1553

Sul retro, sotto il piede etichetta rotonda manoscritta “FL40/11 (4)”; altra etichetta con scritta a mano “8/842/£100

 

Intatto; lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in turquoise, green, iron red, orange, ochre, white, and blackish and brownish manganese

H. 2.6 cm; diam. 22.3 cm; foot diam. 9.5 cm

On the back, beneath the base, hardly-readable inscription in cobalt blue (with an alternation of letters and dots): ‘N[.]rc[…]s[..](?)alf[..][..]n / f[..](?)[..]t [..]cch[..][..](?) […]ns[.]s[..][..] / 1553’

Round hand-written label ‘FL40/11 (4)’; hand-written label ‘8/842/£100’

 

In very good condition; minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto, poggiante su un anello appena accennato, presenta un cavetto poco profondo, una larga tesa orizzontale e un orlo arrotondato listato di giallo. La superficie è interamente smaltata con abbondanza di materia interamente occupata dalla decorazione.

Sul retro, privo di decori, si legge una scritta in caratteri corsivi delineati in blu di cobalto, che vede alternare lettere e punti, utilizzati al posto delle vocali: “N[.]rc[…]s[..](?)alf[..][..]n / f[..](?)[..]t [..]cch[..][..](?) […]ns[.]s[..][..] / 1553”. Ne proponiamo la lettura come segue: “Narcise al fon fecet Ecco in saso 1553”.

Al centro della composizione campeggia un’alta roccia da cui sembra emergere una fanciulla con gli arti che si trasformano in pietra; ai suoi piedi è raffigurato un giovane accucciato nell’atto di rimirarsi in uno specchio d’acqua. Sullo sfondo si scorge, parzialmente coperto da un albero, un paesaggio lacustre con paesini e montagne dal profilo arrotondato.

Protagonista del mito narrato da Ovidio è Narciso, figlio di Cefiso e della ninfa Liriope; alla nascita del bimbo ella aveva consultato il profeta Tiresia, il quale predisse che Narciso avrebbe raggiunto la vecchiaia “se non avesse mai conosciuto se stesso”. Il giovane era così bello che chiunque lo vedesse s’innamorava di lui, ma ne veniva respinto. Un giorno la ninfa Eco lo seguì furtivamente, desiderosa di rivolgergli la parola, ma non potendo attirarne l’attenzione in altro modo, corse ad abbracciare il bel giovane, il quale però l’allontanò immediatamente in malo modo. La ninfa, delusa, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, finché di lei rimase soltanto la voce. Nemesi, uditi i suoi lamenti, decise di punire Narciso: il ragazzo, imbattutosi in una pozza d’acqua profonda, si accucciò su di essa per bere, ma non appena, per la prima volta nella vita, vide la propria immagine riflessa se ne innamorò perdutamente. Solo dopo un po' si accorse che quell’immagine riflessa gli apparteneva e, rendendosi conto che si trattava di un amore impossibile, si lasciò morire struggendosi invano. Si compiva così la profezia di Tiresia.

In questo piatto, come pure in quello che segue in questo catalogo (lotto 49), scorgiamo i volti con il naso a “L” e le labbra carnose, la presenza alcuni fiori dal lungo stelo e barche dalla forma stilizzata. Lo stile pittorico è particolare, ma del tutto coerente con l’esemplare appena citato: si noti ad esempio la stessa abbondanza nell’uso del colore e la stessa rapidità nel tratto, per certi versi quasi caricaturale, nella resa delle figure.

Il paragone con un piatto raffigurante il ratto di Proserpina al Museo di Weimar, nel quale i volti dei personaggi e lo stile degli scorci paesaggistici rivelano una certa somiglianza, purtroppo non è del tutto sufficiente ad attribuire l’oggetto alla stessa mano o allo stesso ambito.

Ci pare anche di ravvisare nella figura di Narciso un’ispirazione da fonti incisorie simili a quella forse all’origine del giovane niobide riprodotto su un piatto datato 1541 del Museo dell’Ermitage.

Mariaux pubblica questo e il piatto che segue come appartenenti alle collezioni del Museo Nazionale Svizzero di Zurigo all’inizio del Novecento. I due piatti di questo stesso catalogo compaiono nell’immagine fotografica dei primi del Novecento in un gruppo di 11 esemplari “provenienti senza dubbio dallo stesso servizio datato 1553” e per i quali l’uguaglianza morfologica e i tratti iconografici e stilistici comuni fanno ipotizzare un’unica bottega di produzione. Mariaux propone quindi un’attribuzione, sulla base della sola visione fotografica e con tutte le cautele del caso, alla bottega durantina di Andrea da Negroponte. Il confronto diretto, anche materico, con i piatti durantini presenti in questo stesso catalogo riferiti alla bottega Picchi non ci pare però soddisfacente. È indubbia la presenza di elementi stilistici affini, come per esempio la forma delle barche, ma l’impostazione delle scene e lo stile pittorico sono differenti. Tuttavia, pur nella scarsa leggibilità delle immagini riprodotte nell’articolo, la presenza di una calligrafia molto affine, ma non uguale, la medesima datazione “1553” e lo stile pittorico coerente denunciano l’appartenenza delle opere a un’unica serie. Alcuni dettagli decorativi sono particolarmente significativi: i volti arrotondati, le labbra carnose dei protagonisti, i corpi tarchiati con la muscolatura evidenziata, la foggia stilizzata delle barche e la presenza di i fiori rossi dai lunghi steli. L’area d’influenza pare essere quella Ducato di Urbino, ma alcune caratteristiche, in modo particolare la foggia dei corpi, ci fanno pensare a una d’influenza bottega pesarese.

Anche la recente pubblicazione di un piatto morfologicamente affine, anch’esso datato 1553 e con calligrafia molto prossima ai nostri, attribuito all’ambito del Pittore di Zenobia pare confermare la produzione pesarese.

Il piatto è stato presentato nell’asta di Palazzo Capponi a Firenze nel 1970.

 

Stima   € 12.000 / 18.000
Aggiudicazione  Registrazione
47

COPPA O "SCUDELLA"

Pesaro, Sforza di Marcantonio, “1551”

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, turchino, blu, verde ramina, bruno di manganese nei toni del nero e del marrone e bianco

alt. cm 4,2; diam. cm 22,6; diam. piede cm 10

Sul retro, sotto il piede, iscrizione “De Alcione la vision/ tremenda: e vera 1551

 

Intatto, salvo lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, yellow, turquoise, blue, copper green, blackish and brownish manganese, and white

H. 4.2 cm; diam. 22.1 cm; foot diam. 10 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘De Alcione la vision / tremenda: e vera 1551’

 

In very good condition, with the exception of some minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa ha ampio cavetto e tesa breve molto alta con orlo aggettante. Il piede è basso, ad anello e con profilo concavo. Il retro del piatto non presenta decorazioni, salvo la scritta corsiva in blu di cobalto all’interno del piede.

Sul fronte è raffigurato il momento in cui Alcione, distesa sul letto posto al margine destro del piatto, vede in sogno la morte del marito sotto gli occhi della dea Diana, sua acerrima nemica; sul lato sinistro si sviluppa la scena che mostra il naufragio di Ceice, in un paesaggio marino con un porto sullo sfondo. In alto, seduta su una corona di nuvole a chiocciola, la divinità ostile è raffigurata accompagnata da un pavone, suo simbolo distintivo.

Una mattina, durante una passeggiata nel bosco, la giovane Alcione si distese sull'erba soffice per asciugarsi al sole. La sua bellezza attirò i molti abitatori del bosco, che la scambiarono per Diana. Alcione, mossa da vanità, accettò gli elogi senza rivelare chi fosse veramente, e non lo fece neppure dopo la comparsa della vera dea, evitando di chiarire l’equivoco. La dea scatenò allora la sua ira implacabile, inviando sciagure al popolo di Trascina. Ceice, sposo di Alcione, per placare l’ira della dea andò quindi a interrogare l’oracolo di Apollo. Tre mesi dopo la partenza del marito apparve in sogno ad Alcione un messaggero alato, Morfeo, che le annunziò la morte dello sposo avvenuta tra le onde, durante la traversata. Alcione, svegliatasi di soprassalto, corse al mare e salì sullo scoglio più alto per scrutare lontano: ad un tratto le parve di veder galleggiare un corpo, e disperata si gettò in mare. In quello stesso momento Giove si mosse a pietà e, proprio mentre Alcione si lanciava nel vuoto, le donò due ali che le permisero di librarsi dolcemente nell’aria. Come per incanto, spuntarono due ali anche sul corpo galleggiante di Ceice, che fu visto sollevarsi dalle acque e andare incontro alla sua sposa. Fu così che nacquero nel mondo gli alcioni, uccelli che con il privilegio di fare il nido sulle stesse onde del mare.

Il soggetto, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (Ov., Met. XI, vv. 592-749), non è tra quelli più frequentemente riprodotti nelle opere in maiolica, ma si conosce tuttavia un bellissimo piatto con il medesimo soggetto e la stessa frase dipinto da Francesco Xanto Avelli.

La forma e le caratteristiche stilistiche del decoro, quali l’attenzione nella resa dei particolari architettonici – come i vetri delle finestre, i mattoni, il cornicione e la cupola sul letto a baldacchino – e la cromia, con il sapiente uso delle lumeggiature bianche, ci portano a pensare ad una buona mano e comunque ad una bottega importante in ambito urbinate o nei confini del Ducato.

La forma è attestata come in uso nel Ducato e trova alcuni riscontri in manufatti attribuiti alle botteghe pesaresi: tale attribuzione sembra suffragata dal raffronto con le opere del pittore Sforza di Marcantonio de Julianis, originario di Castel Durante ma attivo a Pesaro a partire dal 1548, i cui lavori più noti sono databili negli anni Cinquanta del ’500, considerato uno dei seguaci di Francesco Xanto Avelli e dal quale sembra mutuare alcune composizioni.

In quest'ambito troviamo un confronto puntuale in un pezzo conservato all’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig: si tratta di un piatto raffigurante il re di Lidia che mostra la propria donna al suo futuro successore Gige, attribuito alle manifatture di Pesaro; sul retro si sviluppa un’iscrizione con caratteri grafici assai prossimi a quelli del nostro esemplare nella resa della “S”, e soprattutto con la stessa data (“1551”), scritta nel medesimo modo. In entrambe le opere la scena d’interno comprende delle finestre con vetri a piombo, un soffitto a cassettoni e un letto a baldacchino realizzati con uno stile pittorico omogeneo.

Johanna Lessmann propone un confronto con un piatto della Walters Art Gallery di Baltimora che ci pare pertinente; e si veda anche la coppa firmata e datata 1551 conservata nei Musei Civici di Padova.

Un bel piatto del Museo di Philadelphia sul quale è raffigurata la scena della morte di Cassandra, ci conferma ancora l’attribuzione a Sforza di Marcantonio: il volto di Cassandra ci pare molto prossimo a quello della divinità e così pure le architetture, come il baldacchino, le finestre, il muro di mattoni realizzato in bruno di manganese e il dettaglio dei gradini del letto riquadrati. Ma soprattutto ancora una volta molto simile a quella del piatto in esame è la grafia della scritta sul retro del, recante anch’essa la data “1551”.

L’ultima e definitiva conferma a supporto di questa attribuzione ci deriva dal confronto con la coppa di dimensioni minori del British Museum con Astage e Mandane, di recente pubblicazione, anch’essa datata 1551, con evidenti affinità stilistiche e con simile grafia sul retro.

La coppa dunque per morfologia e stile si inserisce in una serie di opere, accomunate da grande uniformità e assegnate al pittore durantino Sforza di Marcantonio, tutte ugualmente datate nell’anno 1551.

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
46

COPPA

Ducato di Urbino o Urbino, “1549”

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, ocra, arancio, turchino, blu, verde e bruno di manganese; sbavature di verde ramina sul retro

alt. cm 8,8; diam. cm 32,4; diam. piede cm 12,9

Sul retro, sotto il piede iscrizione “Ovidio narra/ del parto de Mirra. 1549

Sul retro, sotto il piede parte di cartellino con manoscritto il numero “5386

 

Rotture della tesa in alto, felature e incollature stabilizzate con restauro archeologico

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, ochre, orange, turquoise, blue, green, and manganese; on the back, remains of green colour

H. 8.8 cm; diam. 32.4 cm; foot diam. 12.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Ovidio narra/ del parto de Mirra. 1549’

On the back, beneath the base, remains of a hand-written paper tag ‘5386’

 

Cracks, hairline cracks, and reglued damages, consolidated using archaeological restoration

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa poggia su un basso piede ad anello poco svasato, listato in giallo sulla parte esterna; il cavetto è ampio, concavo e ha un bordo obliquo appena rilevato, con labbro arrotondato. Sul retro, al centro del piede, è visibile in corsivo la scritta “Ovidio Narra/ del parto de Mirra. 1549”.

Sul fronte la decorazione si sviluppa su tutta la superficie della coppa: in basso a sinistra, davanti ad architetture rinascimentali, Cinira, un cipriota nativo di Pafo, insegue la figlia Mirra per ucciderla, dopo aver scoperto che la stessa, aiutata dalla nutrice Lucina, qui raffigurata mentre esce dal palazzo sorreggendo una fiaccola, l’ha sedotto con l’inganno. Al centro della scena, inserito in un paesaggio lacustre con montagne rocciose e paesini, è rappresentato il soggetto principale della narrazione: la nascita di Adone o, come recita la scritta sul retro, “il parto di Mirra”: Mirra, infatti, trasformata in albero per sfuggire alla vendetta del padre, partorisce Adone tra le braccia di Lucina e delle Naiadi. Adone è quindi ritratto, in primo piano a sinistra, mentre riposa con Venere all’ombra di un albero, a raffigurare un’altra parte del mito.

Il cielo è reso con pennellate larghe e diluite, mentre il paesaggio è caratterizzato da diverse colline; le figure hanno corpi massicci e muscolosi, con polpacci arrotondati, piedi lunghi e sottili e tratti fisiognomici ben marcati; gli elementi architettonici sono realizzati con cura.

La decorazione istoriata presenta una narrazione simultanea di più episodi del mito narrato, quello di Mirra e Cinira (Ov., Met., X, 298-502) e quello di Venere e Adone (Ov., Met., X, 503-559; 681-739). Le fonti incisorie del piatto, non ancora identificate, sembrano essere diverse, ma comunque, almeno per l’episodio del parto, sono probabilmente derivate dalle versioni in volgare del testo di Ovidio.

Il soggetto ebbe un buon successo nel ’500 e lo troviamo riprodotto con diverse interpretazioni in numerose opere, come ad esempio nella coppa con Cinira e Mirra del Victoria and Albert Museum, attribuita al “Pittore del servizio della Rovere” e databile al 1540, che raffigura la stessa scena con modalità stilistiche scenografiche meno pacate.

In base al confronto stilistico con alcune opere coeve e concentrando la ricerca nell’ambito urbinate, ci pare di poter attribuire la coppa alla bottega dei Fontana e nella fase iniziale di attività, cioè al periodo in cui, sotto la guida di Guido Durantino, vi lavorarono numerosi pittori.

Il pittore è abile, la scena è impostata con grande attenzione per la composizione e le figure, ben proporzionate, sono realizzate con cura; gli incarnati sono schiariti con l’applicazione di bianco sopra il color carne, a sottolineare la muscolatura e i dettagli anatomici.

Interessante il confronto tra la figura di Cinira sulla coppa in esame e lo Zeus dipinto su una fiasca da pellegrino con narrazione del ratto di Europa del Museo di Weimar: il dio, pur essendo raffigurato in una posa differente, mantiene caratteristiche stilistiche molto prossime al personaggio del nostro oggetto: si vedano in particolare la forma dei piedi, il modo di sottolineare i tratti fisiognomici con sottili tocchi di bruno, e il panneggio aggiunto al corpo o che gira intorno ad esso. Ugualmente significativo per le molte affinità il paragone tra le figure femminili rappresentate su questa coppa, in particolare quella di Diana che giace distesa appoggiata ad Adone, e quella di Callisto, che compare su un’altra fiasca del Museo di Weimar: si osservino per esempio il corpo muscoloso, il ventre e il seno arrotondato, il volto paffuto con la bocca semichiusa, il naso piccolo, i capelli raccolti, ma soprattutto il modo accorto nel dosare i colori, nel lumeggiare le carni e altro ancora. Le due fiasche del Museo di Weimar sono databili attorno alla metà del secolo e quindi ancora associabili alla nostra coppa.

Ma anche il raffronto con opere della bottega realizzate negli anni successivi ci rassicura nel confronto, quasi ci fosse una direttiva comune nella scelta dei soggetti e nella “maniera” di utilizzare la materia. In una fiasca da pellegrino del Museo del Vino di Torgiano, anch’essa attribuita agli anni 1560-1570 della bottega Fontana, è raffigurata una divinità con lunga barba bianca con le stesse caratteristiche fisiognomiche dei due personaggi precedentemente descritti, ma rese con una modalità pittorica più di maniera, e un po’ più corriva. Anche il volto della divinità seduta, quasi al piede della bottiglia, mostra un volto che richiama quello di Lucina nella nostra coppa. La fiasca ha una forma che diverrà usuale nella bottega dei Fontana e che sarà utilizzata fino agli anni Settanta del secolo, ma la mano del pittore appare ancora differente.

Anche il riscontro con le divinità fluviali dell’importante vaso firmato da Orazio Fontana, proposto al lotto 54 di questa vendita, mostra analogie tra le figure, ma non quelle affinità stilistiche tali da condurci ad attribuire l’opera a uno dei primi momenti della produzione della nuova bottega Fontana di Urbino, già attiva dopo il 1545.

Proprio le caratteristiche stilistiche nel delineare i corpi ci hanno portato ad indagare anche nella zona di produzione pesarese, ma i confronti fino ad ora effettuati non ci hanno soddisfatto. Un’indagine più accurata in quest’ambito potrebbe probabilmente condurre a un’attribuzione più certa. Per il momento ci limitiamo a segnalare che il raffronto calligrafico della scritta con opere di Sforza di Marcantonio trova delle marcate affinità. Si confronti il modo di scrivere la lettera “Q” iniziale dell’iscrizione, caratterizzata da un decoro che ne “barra” il cerchio, con una “P” iniziale, anch’essa decorata da una sottile barra, che ritroviamo in un’opera attribuita allo stesso autore e raffigurante Diogene e Alessandro, ora conservata nella raccolta della Cassa di Risparmio di Perugia: tutto l’andamento della scritta è molto simile, come pure il modo di separare la data dell’opera tra due punti. Il pittore, nativo di Castel Durante, è menzionato per la prima volta a Pesaro il 17 maggio del 1548 e qui lavorerà e trascorrerà tutto il resto della vita producendo molto. Alcune sue opere sono spesso firmate con una sola “S”, mentre se ne conoscono soltanto due firmate per intero, una delle quali datata 1567 è conservata al British Museum. L’opera appartiene a un periodo più tardivo della produzione del pittore e presenta tratti marcati, nonché la raffigurazione in un interno architettonico, tipica della produzione dell’artista quanto meno dopo il 1530. Ciononostante, il confronto tra il volto dell’Onnipotente e quello di Cinira della nostra coppa non delude, come pure quello tra la “paffuta” pacatezza del viso dell’Annunciata e l’espressione della Lucina e delle figure femminili dell’esemplare in esame.

Certo nel “parto di Mirra” l’influenza urbinate è veramente molto marcata, tanto da lasciare l’attribuzione ancora sospesa, senza con questo nulla togliere all’indiscutibile qualità e importanza dell’opera.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
45

PIATTO

Pesaro, bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce (nei modi del “Pittore del Pianeta Venere”), “1545”

 

Maiolica decorata in policromia con blu, verde, arancio, giallo-arancio, bianco di stagno e bruno di manganese su fondo di smalto corposo; i colori sono stesi con abbondanza

alt. cm 2,8; diam. cm 23; diam. piede cm 8,9

Sul retro, sotto il piede, iscrizione in blu “orfeo 1545

 

Intatto

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, covered by a rich glaze and painted in blue, green, orange, yellowy orange, tin white, and manganese, with lavishly applied colours

H. 2.8 cm; diam. 23 cm; foot diam. 8.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘orfeo 1545’

 

In very good condition

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto ha un cavetto largo e poco profondo, un’ampia tesa piana poco obliqua, orlo arrotondato e piede basso ad anello, al centro del quale è leggibile la scritta “Orfeo 1545”. Il retro è orlato da tre anelli gialli concentrici.

Al centro del cavetto il protagonista, Orfeo, suona la lira da gamba con un archetto; tutt’attorno sono raffigurate le creature dei boschi, reali e fantastiche, mentre si avvicinano a Orfeo, incantate dalla musica. La figura principale è incorniciata da una roccia voluminosa dall’insolita forma ramificata; alle sue spalle si apre sul fondo un paesaggio lacustre con alte montagne a cuspide e piccoli paesini.

Orfeo è figlio della musa Calliope e di Eagro, re della Tracia, regione nota fin dall’antichità per l’esistenza di sciamani capaci di provocare uno stato di trance per mezzo della musica e in grado di fare da tramite tra il regno dei vivi e quello dei morti. Il giovane è rappresentato nell’atto di incantare gli animali secondo un’iconografia che ha derivazioni antiche e ricorre in numerose versioni diverse. Le modalità pittoriche sono alquanto corrive e molto legate al tratto, mentre le caratteristiche fisiognomiche sono ben precise e riconoscibili: occhi con pupilla a punta di spillo, naso marcato solo alle narici, bocca leggermente aperta, mento piccolo; gli animali hanno musi allungati dallo sguardo antropomorfo.

La disposizione della scena prevede la consueta presenza di un paesaggio lacustre alle spalle della rappresentazione principale. Anche in questo caso il paesaggio ha connotazioni ben precise, sia nelle alte montagne dal profilo acuminato, a torre, sia nei paesini, caratterizzati da alte torri e tetti acuti e spioventi, colorati di un rosso intenso. Prevale il disegno: le campiture di colore sono stese a strati, con parti che debordano dall’orlo giallo, come si osserva per esempio nella zolla erbosa in basso a destra. Si scorge tuttavia un sapiente uso del bianco di stagno nelle lumeggiature utilizzate a sottolineare i contorni dei volti o in alcuni dettagli minuti, quali la sottile linea che orla il manto di Orfeo o i piccoli fiori che scendono dalla roccia.

I confronti stilistici più prossimi si riscontrano in ambito pesarese, come ad esempio nel piatto datato 1545 del British Museum di Londra con Orfeo che riceve la notizia della morte di Euridice, attribuito alla bottega pesarese di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce. Un confronto a nostro giudizio più pertinente è con un piatto su cui è rappresentata “la morte di Procri”, conservato nella collezione della Cassa di Risparmio di Perugia, anch’esso datato 1545 e attribuito alla mano del “Pittore del Pianeta Venere”, attivo probabilmente nella bottega pesarese di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce. Il piatto di Perugia mostra molte caratteristiche affini, a cominciare dalla figura del cervo e dai musi degli animali, ma anche gli elementi vegetali, come i tronchi degli alberi lumeggiati di bianco, le zolle in cui il manto erboso è descritto con sottili pennellate scure, il modo di sottolineare con pennellate e tratti sottili la roccia. Lo stesso dicasi per il paesaggio di sfondo, nel quale ritroviamo case caratterizzate da porticati ad arco, montagne a cuspide e alberelli messi in risalto con tocchi di verde scuro a delimitare la sponda del lago. Nella resa delle penne del grifone, raffigurato sul nostro piatto, ritroviamo inoltre l’uso del verde scuro, lo stesso impiegato nel piatto di Perugia per sottolineare i dettagli di alcune armature. Analogo è anche il modo di descrivere gli occhi delle figure, resi con un piccolo tratto sotto il quale, con un puntino scuro, è definita la sola pupilla. Un altro dettaglio che ricorre in entrambi gli esemplari è il seno di una delle sfingi, di forma sferica e con il capezzolo rivolto verso il basso, che pare essere una delle caratteristiche distintive dell’opera di questo pittore.

Da ultimo la somiglianza fra la calligrafia nella scritta sul piatto perugino e quella dell’esemplare in esame ci conforta nell’attribuzione.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
44

TONDINO

Urbino, bottega di Guido di Merlino, Francesco Durantino?, “1543”

 

Maiolica decorata in policromia in blu, verde, arancio, giallo-arancio, bianco di stagno e bruno di manganese

alt. cm 5,2; diam. cm 23,9; diam. piede cm 8

Sul retro iscrizione “di ioue mutato/ in Toro 1543” (la data in cartiglio)

Etichetta con numero “30” stampato; coppia di etichette dell’antiquario “Bossi et Fils, Genes-Nice”;

 

Intatto, salvo lievi sbeccature all’orlo e segni di usura al piede

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in blue, green, orange, yellowy orange, tin white, and manganese

H. 5.2 cm; diam. 23.9 cm; foot diam. 8 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘di ioue mutato/ in Toro 1543’ (the date in a cartouche)

Printed label ‘30’; two antique dealer’s printed labels ‘Bossi et Fils, Genes-Nice’

 

In very good condition, with the exception of some minor chips to rim and some wear to foot

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto, che presenta un profondo cavetto e una larga tesa appena inclinata, poggia su un piede basso privo di anello: questa forma è generalmente definita “tondino”.

La scena è inserita in un paesaggio roccioso con un albero e una rupe a fare da quinte. In basso, al centro della tesa, Europa, colpita dalla bellezza e dalla mansuetudine di un toro bianco comparso nella mandria del padre, vi monta a cavalcioni, voltandosi a guardare verso una figura, probabilmente Mercurio in veste di pastore o il padre Agenore. Sul lato destro tre fanciulle, le amiche con le quale era solita accompagnarsi, assistono alla scena. Al centro è raffigurata la seconda parte della narrazione, con Europa che si allontana nel mare a cavallo del toro in un paesaggio ricco di porti e insenature. Al centro della tesa, in alto, uno stemma gentilizio non identificato e molto simile a quello presentato al lotto 43 di questo catalogo, sembra appeso ad un ramo. Sul retro, orlato di cerchi concentrici gialli, al centro del piede è delineata in blu la scritta “di ioue mutato/ in Toro 1543” con la data inserita in un cartiglio.

Il soggetto del Ratto di Europa, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (Ov., Met. II, 858-875), fu uno dei temi maggiormente utilizzati nella maiolica istoriata grazie alla diffusione delle incisioni con questo soggetto. Si vedano ad esempio i piatti conservati nei Musei Civici di Pesaro, e in modo particolare quello attribuito a Sforza di Marcantonio e datato 1549 come esempio dell’utilizzo delle fonti iconografiche nella maiolica urbinate.

Un oggetto che interpreta il mito capovolgendo la prospettiva, con modalità tecniche e decorative molto simili al piatto in esame, probabilmente dovute ad una scelta iconografica simile, è una coppa conservata ancora nei Musei Civici di Pesaro e attribuita al “Pittore del Pianeta Venere”, vicino a Lanfranco delle Gabicce, anch’essa con la protagonista seduta di spalle.

Il confronto diretto con il piatto presentato al lotto 43 di questo stesso catalogo ci fa pensare ad un'opera della medesima bottega, ma alla mano di due pittori, anche per la presenza di uno stemma gentilizio simile ma non uguale. Una prima ipotesi attributiva a Francesco Durantino nella bottega di Guido di Merlino è da respingere, anche se alcuni caratteri stilistici del pittore si intuiscono al centro del piatto.

Si veda per completezza il confronto stilistico con altri pezzi affini assegnati allo stesso artista: un piatto con alcune varianti nella scena, sormontato da uno stemma non identificato e datato “1544”, pubblicato da Johanna Lessmann, e i piatti ad esso associati. Pure il piatto con Venere e Vulcano, conservato al Victoria and Albert Museum, in cui ad esempio il volto di Venere con i capelli dietro le orecchie e lo sguardo un po’ sognante richiama quello visto di profilo di una delle tre compagne di Europa nel nostro piatto.

Il confronto della calligrafia con il piatto presentato al lotto 43 di questo catalogo e le modalità stilistiche e pittoriche ci conducono ugualmente ad attribuire l'opera all' antica e rinomata bottega urbinate di Guido di Merlino.

 

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
43

TONDINO

Urbino, bottega di Guido di Merlino, “1543”

 

Maiolica decorata in policromia con blu, verde, arancio, giallo-arancio, bianco di stagno e bruno di manganese

alt. cm 5,2; diam. cm 23,9; diam. piede cm 8

Sul retro iscrizione “del porcho Cali/ donio 1543“ (la data in cartiglio)

 

Felatura in basso a sinistra con incollatura di una piccola porzione; sbeccature all’orlo; segni di usura al piede

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in blue, green, orange, yellowy orange, tin white, and manganese

H. 5.2 cm; diam. 23.9 cm; foot diam. 8 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘del porcho Cali//donio 1543’ (the date in a cartouche)

 

Hairline crack at 7 o’clock with a small part reglued; chips to rim; wear to foot

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto, che presenta un profondo cavetto e una larga tesa appena inclinata, poggia su un piede basso privo di anello: questa forma è generalmente definita “tondino”.

La decorazione istoriata raffigura Meleagro, re dell’Etolia, mentre, insieme ai più celebri cacciatori, uccide il cinghiale Calidonio inviato da Artemide per distruggere i raccolti: la dea aveva inflitto questo castigo per essere stata dimenticata dal re nei sacrifici agli dèi dell’Olimpo.

La scena è racchiusa tra un albero e una rupe, che fanno da quinte a un paesaggio lacustre con alte colline rocciose e piccoli borghi. A sinistra la dea cacciatrice assiste all’uccisione del feroce animale, posto al centro della scena mentre azzanna un cacciatore a terra. Tutt’intorno i cacciatori, tra i quali Atalanta, l’amata di Meleagro, colpiscono con animosità il cinghiale. Al centro della tesa, in alto, uno stemma gentilizio non ancora identificato è come appeso a un ramo.

Il mito è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (Met. VIII, 260-545): il soggetto ebbe molto successo nel corso del ’500 e venne spesso utilizzato dai pittori urbinati per le loro decorazioni, ma la stampa utilizzata dall’autore come riferimento iconografico del decoro non è stata ancora identificata.

Il piatto trova un confronto diretto nel lotto 44 di questo catalogo, sia per lo stile pittorico sia per la presenza di uno stemma gentilizio simile, ma non uguale. Anche lo stemma, per il momento, non è ancora stato individuato.

Le caratteristiche tecniche vedono uno smalto grasso uniformemente distribuito, mentre sul retro l’orlo, l’attacco del cavetto e la bordura del piede sono sottolineati di giallo. Sul fronte si osserva l’uso del verde in tutte le gradazioni, l’impiego dell’arancio soprattutto nelle vesti delle figure, e i tronchi scuri lumeggiati da tocchi di bianco, tecnica questa utilizzata con la stessa finalità anche nei volti, nelle armature e per marcare le onde del ruscello. Il modo di delineare le gambe delle figure – caratterizzate da polpacci grossi e muscolosi, da piedi piccoli e sottili, nonché da ginocchia rigonfie – e la capacità di porre prospetticamente i gruppi di personaggi, ci portano verso un pittore capace, in grado di dominare con finezza la materia.

L’accostamento con alcuni esemplari dalle caratteristiche stilistiche simili è molto utile: il raffronto fra l’espressione del volto di Diana e quella dei visi delle figure delineate in un piatto della raccolta del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, nonché la somiglianza con altri esemplari firmati, ci avevano suggerito una possibile a Francesco Durantino, proprio agli inizi della sua collaborazione con la bottega di Guido di Merlino a Urbino.

Altre caratteristiche stilistiche, come ad esempio il modo di raffigurare i volti con la pupilla degli occhi evidenziata, la modalità di raffigurazione delle vesti, fermate sui fianchi, e di lumeggiare le foglie degli alberi, oppure i tronchi sinuosi, sono tutti elementi che ritroviamo in alcuni esemplari attribuiti alla bottega urbinate. Si confronti, per esempio, il volto della figura di Diana con il viso di una delle assistenti al parto di Mirra presente su un piatto lustrato al Victoria and Albert Museum di Londra, attribuito da John Mallet a Francesco Durantino nel 1999. Lo stesso volto va confrontato con quello del personaggio con lorica verde che si trova alle spalle di protagonista nello splendido piatto del British Museum che raffigura l’arrivo del Coriolano alle porte di Roma; con questo piatto, firmato per esteso e datato 1544, il nostro esemplare condivide altre caratteristiche.

Sappiamo che Francesco Durantino era attivo nell’importante bottega urbinate di Guido di Merlino fin dal 1543, come attesta il contratto da lui firmato con altri due pittori in quell’anno. Le bocche aperte, le corazze arancio che sottolineano l’anatomia dei corpi e i polpacci larghi, si ritrovano ancora in un altro piatto del British Museum attribuito allo stesso pittore e raffigurante Scipione che lascia la Nuova Cartagine.

Anche il confronto calligrafico fra il retro del nostro piatto e gli esemplari firmati conservati a Urbino sembra confermare l’ipotesi attributiva.

Ciononostante, il castello attributivo non sembra reggere, poiché, come ci ha suggerito Timothy Wilson, il pittore durantino mostra in quel periodo uno stile ben preciso, più complesso nelle costruzioni figurative.

L'opera, che mostra molte affinità con quella che segue, resta comunque attribuibile all'importante bottega di Guido Merlino, considerata una delle più antiche insieme a quella di Guido Durantino. Menzionato nei documenti fra il 1523 e il 1564, Guido di Merlino era specializzato in istoriati con soggetti tratti dalla mitologia classica e dalla storia antica. La sua bottega è ricordata nelle iscrizioni di almeno tredici opere che menzionano la sua attività, situata nel quartiere di San Polo, a sud del Palazzo Ducale, che vendette al nipote Maestro Baldo di Simone nel 1555. Allo stato attuale degli studi, si pensa che i pittori attivi nella bottega fossero almeno quattro, come dimostrano le differenze di mano tra i due piatti di questo catalogo.

Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
42

COPPA

Urbino o Ducato di Urbino, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, turchino, verde, bruno di manganese e bianco

alt cm 4,5; diam. cm 26,5; diam. piede cm 12,5

 

Sotto il piede, iscrizione dipinta in blu “L”, e, più in basso, come a seguito di un ripensamento, “La Visione di Jacob

 

Intatta; lievi sbeccature all’orlo

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, yellowy orange, blue, turquoise, green, manganese, and white

H. 4.5 cm; diam. 26.5 cm; foot diam. 12.5 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘L’ and further down ‘La Visione di Jacob’

 

In very good condition; minor chips to rim

 

An export licence is available for this lot

 

Coppa con ampio cavetto, bordo rilevato e orlo appena svasato, arrotondato e listato in giallo. Il piede è basso e ad anello, con orlo arrotondato. Il decoro è realizzato con colori tenui, molto diluiti, e ritocchi sottili a punta di pennello estremamente curati a sottolineare i lineamenti, i capelli con riccioli, i piedi, le mani e i contorni degli occhi lumeggiati in bianco. Tratti sottili rimarcano anche alcuni dettagli del paesaggio.

La scena riproduce il passo della Bibbia (Genesi 28, 10-18) che narra come Giacobbe, in viaggio per Betsabea, stesse dirigendosi verso Carran. Fermatosi per trascorrere la notte, prese una pietra e la pose come guanciale. Fece quindi un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa e il Signore gli diceva che la terra su cui si era coricato sarebbe stata della sua discendenza. Allora Giacobbe, destatosi dal sonno, riconobbe quel luogo come la sua patria, si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità.

La coppa, decorata sull’intera superficie, era stata attribuita a una bottega faentina vicina a Baldassare Manara. Oggi non ci pare che quest’attribuzione possa essere ancora ritenuta valida. La disposizione del decoro e le modalità compositive e stilistiche fanno pensare piuttosto che si tratti di un’opera di bottega marchigiana.

Si tratta di una foggia variamente utilizzata in tutto il ducato, e molte sono le affinità con opere pesaresi. A questo proposito colpisce la somiglianza con la coppa con Vulcano e Venere attribuita alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce conservata alla Galleria Estense di Modena, in cui si nota la presenza di rami delineati in bruno di manganese e di un volo di uccelli che ricordano quelli presenti sul nostro esemplare. Ci pare poi interessante anche il confronto con una coppa con Gesù nel Giardino degli Ulivi presente nel 1974 nella collezione del Museo di Cluny a Parigi, in cui ci sembra di poter ravvisare qualche affinità con l’oggetto in esame: la coppa non ha attribuzione, ma viene assegnata a un arco cronologico attorno alla metà del secolo XVI.

Altro confronto può essere fatto con un piatto raffigurante la morte di Narciso e conservato al Museo di Philadelfia ascritto ad area metaurense e datato tra gli anni 1530 e 1540. Sono molto simili il modo di rendere i volti rivolti verso l’alto, in cui il naso diventa un segno triangolare, le mani dalle dita allungate, alcune sproporzioni nel rappresentazione di spalle delle figure, la presenza di grossi blocchi di pietra nel paesaggio e di sottili steccati realizzati con un leggero tratto, il paesaggio con casette dal tetto rosso unite tra loro da ponti sottili, e la presenza di stradicciole dall’andamento sinuoso coperte da ciottoli arrotondati.

Pur mancando riscontri precisi, è evidente che la nostra coppa sia un esemplare di grande qualità formale e tecnica, confermata da numerosi elementi: la particolare perizia nel delineare i volti, che ci ricorda alcune opere della bottega dei Fontana, l’uso sapiente del bianco nel sottolineare alcuni tratti del viso dei personaggi, la disposizione della scena su tutta la superficie senza alcun scadimento o sproporzione dovuti al mutare della forma, l’accorto uso dei colori.

La coppa è transitata sul mercato antiquario nel 1962 in un’asta londinese.

Si riscontra infine una certa affinità stilistica con il piatto con San Girolamo del Museo Civico Medievale di Bologna datato 1542. Si vedano per esempio, alcune anomalie prospettiche nel paesaggio e soprattutto l'aggiunta di elementi paesaggistici quali i blocchi di pietra squadrati, ma soprattutto il cespuglio ramificato, quasi privo di fogliame, con caratteristiche pittoriche molto prossime a quello rappresentato nella nostra coppa. Una certa affinità si intuisce anche nelle figure e in particolare nella realizzazione delle mani.

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
41

COPPA

Pesaro, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, verde rame, bianco e bruno di manganese nei toni del violaceo e del nero; tracce di verde sul retro

alt. cm 6,6; diam. cm 27,5; diam. piede cm 12,5

Sul retro etichetta ovale stampata “ANTICHITÀ Petreni VIA RONDINELLI 7R FIRENZE

 

Intatta; sbeccature e usure al piede; piccole sbeccature all’orlo

 

Earthenware, painted in yellow, yellowy orange, blue, copper green, white, manganese purple, and blackish manganese; on the back, remains of green colour

H. 6.6 cm; diam. 27.5 cm; foot diam. 12.5 cm

On the back, oval printed label ‘ANTICHITÀ Petreni VIA RONDINELLI 7R FIRENZE’

 

In very good condition; chips and wear to foot; minor chips to rim

 

La coppa, dal piede basso e leggermente svasato presenta un ampio cavetto piano con orlo appena rilevato. La decorazione, su smalto sottile bianco leggermente azzurrato, interessa l’intera superficie e rappresenta una battaglia; sullo sfondo, incorniciato tra un albero e una roccia, un paesaggio lacustre con colline è centrato da una città fortificata.

Le scene di battaglia sono spesso raffigurate sulle ceramiche istoriate, ma le modalità pittoriche rapide e corrive non ci hanno permesso fino ad ora di individuare una precisa iconografia di riferimento. Tuttavia proprio le modalità pittoriche e aiutano nel confronto con una coppa di manifattura pesarese che presenta caratteristiche stilistiche molto simili: si vedano, oltre alla resa pittorica, alcuni dettagli nel modo di raffigurare i corpi e le armi, come ad esempio lo scudo ellittico in primo piano, disegnato in modo molto ingenuo, presente in entrambi gli oggetti. La coppa di confronto, raffigurante la caccia al cinghiale calidonio e conservata nei Musei Civici di Pesaro, presenta architetture in lontananza dipinte in modo approssimativo, sproporzionate rispetto alle montagne poste a ridosso dei paesi. In primo piano le rocce color ocra hanno profili arrotondati e il terreno è reso pittoricamente con un’alternanza di ocra e di verde rame intenso, mentre i dettagli sono sottolineati con abbondanti pennellate di manganese.

Riteniamo corretto, dunque, assegnare il nostro esemplare alla stessa mano della coppa di Pesaro, in più occasioni citata dalla letteratura alla ricerca di un’attribuzione differente dalla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce. Ci piace proporre una sua immagine com’era stata pubblicata nel catalogo dell’originaria collezione di Charles Damiron.

Si ha traccia di un passaggio della coppa in esame alla casa d’aste Christie’s, con l’attribuzione a Urbino e una datazione agli anni attorno al 1545.

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
40

PIATTO

Urbino o altro centro del Ducato di Urbino, Francesco Xanto Avelli, 1528-1530 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bianco di stagno e bruno di manganese nei toni del nero, del marrone e del viola

alt. cm 4,5; diam. cm 26,6; diam. piede cm 7,3

Sul retro, sotto il piede, la scritta “A dann’p’el reo tesc iio/ anmiratino/ fabula y

 

Intatto; sobbollitura dello smalto in basso a sinistra

 

Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, tin white, blackish and brownish manganese, and manganese purple

H. 4.5 cm; diam. 26.6 cm; foot diam. 7.3 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘A dann’p’el reo tesc iio/ anmiratino/ fabula y’

 

In very good condition; on the front, firing defect at 7 o’clock

 

Il piatto ha cavetto profondo e larga tesa appena inclinata. L’orlo sul retro presenta tre filetti incisi concentrici. Poggia su un basso piede privo di anello.

La scena figurata si svolge in primo piano tra un edificio, a sinistra, e due alberelli dal tronco sinuoso, a destra; al centro è presente un’alta rupe coperta da zolle erbose. Sullo sfondo un paesaggio costiero con un borgo circondato da mura e un’alta collina squadrata; un fiume lo separa dalla scena in primo piano.

Con la consueta capacità pittorica, il pittore rodigino sintetizza la vicenda di Perseo (Ovidio, Met. IV, 769-803), uno dei miti più articolati della grecità, unendo, come spesso accade, in una stessa narrazione i personaggi mutuati da più incisioni. Il momento topico è nell’esergo in primo piano: la morte di Medusa, il mostro femminile, con il capo coperto di vipere il cui sguardo era in grado di pietrificare il nemico, che giace con il capo mozzato su un prato erboso in prossimità di uno specchio d’acqua; il modello del corpo è tratto da un’incisione di Jacopo (o Gian Giacomo) Caraglio (1500-1565 circa) ripresa da Rosso Fiorentino raffigurante Il convegno tra le Muse e le Pieridi. A destra, Perseo – il capo coperto dall’elmo che rende invisibili e ai piedi i calzari alati dono di Ermes – avanza brandendo la spada e portando con sé la testa di Medusa; la figura qui utilizzata per rappresentare l’eroe è stata spesso usata dal pittore ed è presente anche in altre opere, e si tratta di un adattamento dall’incisione raffigurante il Martirio di Santa Felicita di Marcantonio Raimondi tratta da Raffaello. Al centro, un giovane personaggio spunta da dietro una roccia portando un sacco sulle spalle; il personaggio, anch’esso utilizzato di frequente da Xanto Avelli, è derivato dall’incisione di Marcantonio Raimondi raffigurante Isacco che benedice Giacobbe, ugualmente tratta da Raffaello. Riteniamo che si tratti di un episodio successivo: Perseo trasporta la testa della Gorgone all’interno di un sacco di cui Atena gli ha fatto dono insieme allo scudo utilizzato per ingannare Medusa, allo scopo di evitare lo sguardo del mostro, il cui potere pietrificante non sarebbe venuto meno neanche dopo la morte della stessa.

A sinistra, vicino a un palazzo, un uomo si copre il volto con un mantello. L’episodio potrebbe essere quello in cui Perseo, di ritorno dalle sue avventure, reca la testa promessa a Polittete per le nozze con la madre e per vendicarsi dei torti subiti la estrae per l’ultima volta dalla sacca pietrificando il re e i suoi cortigiani: “a danno per il reo”.

Anche quest’opera, come già detto per il lotto 38, va accostata a quelle prodotte prima dell’arrivo dell’Avelli a Urbino e si aggiunge alla serie cosiddetta Y/φ, quindi al periodo anteriore al 1530. Dal confronto stilistico con altre sue opere possiamo comunque assegnare il piatto a un periodo già maturo, in cui egli aveva ormai affinato la sua tecnica e produceva scene dallo stile ormai fortemente caratterizzato. La vicinanza con il piatto firmato presentato al lotto 39 di questa vendita è evidente: l’uso dei colori ricchi – l’arancio, il violaceo e il verde molto carico – è ormai quello caratteristico del pittore rovigino. Ci conforta il paragone tra alcuni dettagli dell’oggetto in esame e particolari simili presenti in altre opere: si confrontino, per esempio, il paesaggio del nostro piatto con quello presente sul piatto con l’Allegoria del Tempo del City Council Museum di Glasgow, o anche il modo di rappresentare l’ombra del fornice del molo nella nostra opera e in una coppa con San Geronimo e il Beato Colombini in preghiera, anch’essa al museo di Glasgow, databile al 1528-1530.

Ma è soprattutto la modalità nel dipingere le figure che ci aiuta nella datazione dell’opera. Il corpo di Medusa mostra lo stesso raffinato stile pittorico di quello già citato, presentato al lotto 39, ed è probabilmente tratto dalla stessa incisione spesso utilizzata dal pittore, ma anche di quello visibile nel piatto firmato “F.X.A.R. i(n) Urbino 1531” con Allegoria della buona e della cattiva Fama. Il fanciullo al centro del piatto torna in numerose altre opere, come nell’imponente piatto con Diana e Atteone dell’Ashmolean Museum di Oxford, oppure – con forma mutata – nel personaggio seduto che si appoggia a uno scudo, sulla tesa, a sinistra, nel grande piatto con il Matrimonio di Nono e Semiramide del Victoria and Albert Museum di Londra datato 1533.

Lo stesso dicasi anche per Perseo, qui con testa di Medusa in mano, che si ritrova in un piatto firmato e datato 1532 con Astolfo nella terra delle donne, dove compare nelle vesti di un uomo che fugge brandendo una spada, ma riconoscibile anche nel personaggio con il manto alzato raffigurato su un piatto firmato e datato 1538, però con caratteristiche pittoriche differenti.

Le affinità pittoriche maggiori ci paiono comunque riscontrabili nei piatti appartenenti al servizio Pucci, prodotto negli anni 1532-1533. Si veda la stesura nel volto del personaggio barbato del nostro oggetto e quello nel piatto con scena di naufragio, parte del servizio, nella collezione del Corcoran Gallery of Art di Washington, oppure si confronti la testa di Medusa dell’esemplare in esame con quella che affiora da una delle barche della flotta di Seleuco nello stesso piatto.

Il piatto in esame per lo stile già maturo è, a nostro parere, opera da ascrivere all’attività del pittore nel Ducato di Urbino attorno agli anni 1528-1530.

L’esemplare è transitato sul mercato antiquario in occasione di un’asta londinese nel 1964.

 

Stima   € 120.000 / 160.000
Aggiudicazione  Registrazione
39

PIATTO

Urbino, Francesco Xanto Avelli, firmato, 1532 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bianco di stagno e bruno di manganese nei toni del nero, del marrone e del viola

alt. cm 4,6; diam. cm 27,5; diam piede cm 7,3

Sul retro, al centro del piede, la scritta “fra: Xanto, Avelli/ da Rovigo pinse Urbini/ In Sathir’ Giove d’amor converso/ favola Y” delineata in blu.

Sul retro etichetta stampata “SCHUBERT ANTICHITÀ - corso MATTEOTTI 22 MILANO

 

Intatto; lievi sbeccature dovute all’applicazione di sostegni sull’orlo; sbeccature d’uso sul bordo

 

Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, tin white, blackish and brownish manganese, and manganese purple

H. 4.6 cm; diam. 27.5 cm; foot diam. 7.3 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘fra: Xanto, Avelli/ da Rovigo pinse Urbini/ In Sathir’ Giove d’amor converso/ favola Y’

On the back printed label ‘SCHUBERT ANTICHITÀ - corso MATTEOTTI 22 MILANO’

 

In very good condition; minor chips to rim; wear chips to rim

 

Il piatto ha cavetto profondo e larga tesa appena inclinata. L’orlo sul retro presenta tre filettature concentriche incise. Poggia su un basso piede privo di anello.

La scena è racchiusa tra un vecchio albero spoglio e disadorno e una rupe alta, coperta da zolle erbose; sullo sfondo, un paesaggio fluviale con alte colline squadrate e un borgo con un ponte su un fiume. Lo scenario è abitato da tre gruppi di figure: al centro, Eros avanza portando sulle spalle una saetta: il personaggio è tratto da un’incisione di Marco Dente che riproduce il fregio della chiesa di San Vitale a Ravenna; a destra, seduto su una roccia, è raffigurato Apollo, divinità che s’incontra spesso nelle opere di questo pittore e la cui rappresentazione è tratta dall’incisione di Marcantonio Raimondi del Parnaso di Raffaello Sanzio; a sinistra, infine, è collocata una scena erotica tra un satiro e una ninfa: il corpo della donna deriva probabilmente da una delle figure delle Pieridi tratte dall’incisione di Jacopo (o Gian Giacomo) Caraglio (1500-1565 circa) ripresa da Rosso Fiorentino raffigurante Il convegno tra le Muse e le Pieridi, mentre per il satiro al momento non è stata individuata alcuna fonte. Anche per la figura maschile che compare alle spalle di Apollo non è stato possibile, fino ad ora, identificare la fonte incisoria: ipotizziamo che il corpo, parzialmente coperto, possa essere stato ricavato da una delle incisioni con scene di battaglia o da quella che raffigura la Strage degli innocenti di Marcantonio Raimondi da Raffaello, utilizzate in molte occasioni dal pittore rovigense, mentre il volto potrebbe essere stato ispirato da quello dell’Invidia nell’incisione Invidia cacciata dal tempio delle Muse del “Maestro del Dado” e successivamente assemblato dal pittore che, come già in altre sue opere, lo ha dotato della capigliatura a ciuffi scomposti dipinti in un colore fulvo.

Anche in questo caso, come nel piatto presentato al lotto 38 di questo catalogo, vediamo come Francesco Xanto Avelli, secondo la tecnica che gli è consueta, abbia saputo mescolare figure tratte da più incisioni utilizzandole a suo piacimento.

L’opera è complessa e solo la frase “In Sathir’ Giove d’amor converso” sul retro ci aiuta nella sua comprensione. Vi leggiamo anche la firma per esteso del pittore, delineata con grafia rapida in blu scuro: “fra: Xanto, Avelli / da Rovigo pinse Urbini / In Sathir’ Giove d’amor converso / favola Y”.

La scena narra l’episodio di Antiope sedotta da Zeus, il quale le si presentò con le sembianze di un satiro: la conseguente gravidanza comportò una serie di sciagure: la morte del padre Nitteo, la nascita e l’abbandono dei due gemelli Anfione e Zeto, la cattura e la vessazione di Antiope da parte dello zio paterno Lico, l’uccisione di costui ad opera dei gemelli per vendicare la madre e la conseguente punizione di Antiope da parte di Dioniso che la fece impazzire, risanata poi da Foco, che divenne suo sposo.

Alla luce del mito, riteniamo che i personaggi raffigurati sul piatto in esame si possano identificare come segue: al centro, Amore trasporta sulle spalle le saette di Zeus, intento a sedurre in veste di satiro la giovane Antiope; il personaggio sulla destra potrebbe raffigurare l’ira del padre, oppure – ipotizziamo – la follia stessa di Antiope, di cui Apollo sarà la causa.

Ovidio, una delle fonti principali per gli autori dell’istoriato, accenna appena al mito nelle Metamorfosi (Met. VI, 110): [...] Ut Satyri celatus imagine pulchram Iuppiter [...]; tuttavia è stato già osservato almeno in un‘altra occasione come la brevità della descrizione del mito, che presuppone una cultura più vasta, non abbia fermato l’Avelli dal raffigurarlo su un piatto: probabilmente l’autore non ha tratto la leggenda direttamente dalla fonte classica, bensì dalla versione italiana di Zoppino.

Il piatto, datato e firmato per esteso, mostra tutte le caratteristiche tipiche del periodo che possiamo definire già maturo dell’attività di Francesco Xanto Avelli e si aggiunge al cospicuo corpus di opere prodotte durante il suo soggiorno urbinate; sappiamo che giunse a Urbino tra il 1530 e il 1531, ed è proprio questo il momento nel quale cominciano a comparire opere firmate per esteso.

Si tratta certamente di un’opera colta, benché permanga ancora qualche dubbio relativo al riconoscimento dei protagonisti. Il confronto con altre opere firmate e datate ci fa pensare che si tratti di una creazione riconducibile agli inizi dell’attività di Avelli a Urbino. Egli infatti si firma per esteso, specificando la propria provenienza “da Rovigo” e mettendo ben in chiaro che dipinge a Urbino usando il locativo “Urbini”. La presenza delle firme indicherebbe comunque una certa autonomia e la qualità delle opere confermerebbe la sua presenza in botteghe affidabili.

Abbiamo paragonato la figura più semplice, cioè quella di Apollo, con la stessa immagine riprodotta su altri oggetti del pittore. Un primo confronto si ha con un piatto del Fitzwilliam Museum di Cambridge, firmato per esteso e datato “1531 in Urbino”, che mostra molte affinità stilistiche: nello scarto dimensionale delle figure, nella resa del volto di Apollo, ma anche in particolari come la roccia su cui la divinità poggia, molto simile e caratterizzata dalla forma frastagliata e con un parte dipinta di arancio. Anche le scelte cromatiche nelle due opere sono analoghe: il manto del dio, ad esempio, è tinto di verde, come quello del putto nell’esemplare in esame. In un piatto, ora al Los Angeles County Museum of Art, con la figura di Apollo al centro della composizione, si notano affinità stilistiche con il nostro oggetto anche nella resa del paesaggio e nella distribuzione dei personaggi all’interno dello spazio circolare creato dalla forma stessa dell’oggetto: questo è ascrivibile agli anni tra il 1527 e il 1530, quindi al periodo appena precedente la venuta del pittore a Urbino. In un altro piatto del Fitzwilliam Museum di Cambridge, dove l’incisione è rielaborata dal pittore (che utilizza il corpo della divinità modificandone la testa e un braccio), si osservano una roccia e scelte cromatiche simili: se nel nostro esemplare prevale il verde scuro, nel piatto di confronto i toni sono comunque cupi e le caratteristiche stilistiche sono anch’esse simili; si raffronti ad esempio il volto di una delle tre divinità del Giudizio di Paride nell’esemplare di Cambridge con il volto di Eros al centro della nostra composizione.

L’affinità stilistica con il piatto presentato al lotto 40 di questa stessa raccolta, cronologicamente vicino ai primi anni in cui il pittore fu stabilmente attivo a Urbino, ci porta quindi ad assegnare quest’opera agli anni 1531-1532.

Il piatto proviene dalla raccolta degli antiquari Gualtiero e Renato Schubert di Milano, dove fu acquistato dall’attuale proprietà all’inizio degli anni settanta del secolo scorso.

 

Stima   € 150.000 / 200.000
Aggiudicazione  Registrazione
38

PIATTO

Urbino o altro centro del Ducato di Urbino, Francesco Xanto Avelli, 1528-1529

 

Maiolica decorata in policromia, con arancio, giallo, verde, blu, bianco di stagno e bruno di manganese nei toni del nero, del marrone e del viola

alt. cm 3,4; diam. cm 28; diam. piede cm 10

Sul retro, sotto il piede, iscrizione “morte di Egieo Y

 

Sul retro tracce di un antico restauro con graffe metalliche a fermatura di una felatura profonda, risolta con restauro archeologico

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, tin white, blackish and brownish manganese, and manganese purple

H. 3.4 cm; diam. 28 cm; foot diam. 10 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘morte di Egieo Y’

 

On the back, remains of old restoration of a heavy hairline crack fixed with metal clips, now consolidated using archaeological restoration

 

An export licence is available for this lot

 

Il piatto ha cavetto profondo e larga tesa appena inclinata. L’orlo sul retro presenta tre filetti incisi circolari. Poggia su un basso piede privo di anello.

Nel nostro piatto Francesco Xanto Avelli interpreta il mito con grande maestria narrativa: al centro campeggia Pizia, che tiene in mano la patera delle offerte; a sinistra appare la nave di Teseo, riconoscibile perché vestito di verde; a destra lo stesso Teseo assiste alla caduta del padre, raffigurato nella parte alta del piatto mentre compie il tragico gesto.

Come spesso avviene nei lavori del pittore rodigino, anche in questo caso si riconosce l’uso di più incisioni. La nave è tratta da un particolare dell’incisione del Ratto di Elena di Marco Dente (1493-1527) da Raffaello Sanzio. Per la figura della Pizia si potrebbe pensare a una delle figure derivate dalla Cappella Sistina e divulgate per stampa; ci pare però di riscontrare una somiglianza nel corpo della Pizia con quello di Vulcano raffigurato in un piatto del Walters Museum of Art di Baltimora, assegnabile al periodo compreso tra il 1528 e il 1532. Carmen Ravanelli Guidotti nel suo saggio su alcune opere inedite o poco note di Xanto Avelli, presentando il piatto in esame aveva già ipotizzato che la figura potesse essere stata tratta dall’incisione del Maestro del Dado con Ercole che scaccia l’invidia dal Parnaso: la posizione della figura che assiste alla scena seduta in basso richiama molto da vicino quella della nostra. La studiosa suggerisce inoltre una certa vicinanza con il piatto con il suicidio di Porzia, presentato nello stesso saggio: entrambe le opere andrebbero datate cioè attorno agli anni 1528-1529. Per la figura di Teseo, Ravanelli Guidotti pensa che si possa accostare a quella di uno dei pastori che assistono al rapimento di Ganimede in una stampa di Gian Battista Palumba e alla figura di Dedalo della coppa del gruppo “F.R.” del Gardiner Museum.

Egeo divenne re di Atene alla morte del padre Pandione. In assenza di un erede maschio, pur essendosi sposato più volte, si recò a consultare la Pizia, oracolo di Delfi, che gli disse: “Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore”. Recatosi a Trezene incontrò Eta, figlia del re Pitteo, che gli fu presentata dopo averlo fatto ubriacare. Dall’incontro che ne seguì nacque Teseo; dopo qualche tempo Egeo decise di far ritorno ad Atene. Un giorno, durante una gara con il figlio di Minosse in visita ad Atene, Egeo fu colto da rabbia e uccise l’ospite. Il figlio Teseo, che nel frattempo si era riavvicinato al padre, dovette allora recarsi a Creta per uccidere il Minotauro in cambio della pace con Minosse: il giovane riuscì nel suo compito e con l’aiuto di Arianna uccise il mostro che perseguitava i cretesi. Egeo si era raccomandato con il figlio, qualora fosse riuscito nella missione, di issare al suo ritorno delle vele bianche: ma Teseo si dimenticò dell’ordine paterno, causando così la morte di Egeo, che si gettò in mare dalle mura non appena scorse le vele nere avvicinarsi ad Atene, convinto che il figlio fosse stato ucciso. La profezia fu così compiuta, e il mare in cui scomparve il re divenne noto come Mare Egeo.

Stilisticamente vicino all’opera in esame è un tondino raffigurante Frisso che fugge sull’ariete, databile tra il 1526 e il 1528, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford. Per John Mallet questo piatto sarebbe uno dei primi nei quali è possibile associare la calligrafia dell’Avelli al cosiddetto “segno Y/φ”. Il confronto calligrafico tra i due oggetti, almeno per le poche lettere a nostra disposizione, data la brevità della scritta sotto il nostro piatto, ci pare soddisfacente: si vedano la “r” tracciata con rapidità e la piccola “e”, oltre all’andamento corrivo della grafia e, non ultimo, il segno Y/φ.

Anche il confronto stilistico ci pare di aiuto: il verde scuro, impiegato per sottolineare alcuni punti del paesaggio e le rocce, richiama quello usato nel piatto analizzato da Mallet, caratteristica che per lo studioso è dovuta all’esperienza di Xanto Avelli vicino a Nicola da Urbino durante la realizzazione del servizio di piatti con l’insegna araldica dei Bonzi. Ci sembrano molto prossimi anche la durezza dei tratti fisiognomici dei volti, l’abilità pittorica nella resa delle mani, i tocchi di ocra utilizzati per sottolineare la corteccia degli alberi, i tratti bianchi e gialli nelle chiome e quelli usati per dare massa ai ciuffi d’erba.

Nel nostro piatto prevale un certo disordine compositivo: le architetture sono invadenti, la loro mole è cospicua e sproporzionata; la rocca ad esempio è su base quadrata, ma termina in una torre a pianta circolare, dalla quale la figura di Egeo si getta nel vuoto.

Ma proprio il disordine compositivo, l’uso di colori intensi, lo stile nel descrivere i personaggi e le rocce arrotondate avvicinano questo lavoro ad un piatto con il mito di Cigno conservato presso il Museo di Arti Decorative di Lione Per i torrioni arrotondati troviamo dei confronti nei piatti firmati e datati “1534” o in quello conservato nelle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco di Milano.

Il piatto è appartenuto alla collezione Murray di Firenze, venduta a Berlino nel 1929, già riconosciuto come opera di Xanto Avelli.

 

Stima   € 150.000 / 180.000
Aggiudicazione  Registrazione
37

COPPA

Castel Durante o Urbino, 1520-1525

 

Maiolica decorata in policromia con blu, giallo, arancio, rosso, bianco e bruno di manganese nei toni del nero

alt. cm 4,7; diam. cm 21; diam. piede cm 9

Sul retro etichetta lacunosa con scritta in inchiostro “…-94… ART.30/...BIO...CENTUR/ BARON DE ROTHC.../COLLECTION”; altra etichetta stampata, con numeri in inchiostro “S.B. Lot No. 947/ Art. No. 30

 

Intatto; sbeccature da usura all'orlo con cadute di smalto che lasciano intravedere la terracotta color camoscio scura e i segni di lavorazione al tornio

 

Earthenware, painted in blue, yellow, orange, red, white, and blackish manganese

H. 4.7 cm; diam. 21 cm; foot diam. 9 cm

On the back, label hand-written in ink ‘…-94... ART.3/...BIO...CENTUR/ BARON DE ROTH.../COLLECTION’; printed label with hand-written in ink ‘S.B. Lot No. 947/ Art. No. 30’

 

In very good condition; wear chips to rim with some glaze losses through which one can see the dark buff earthenware body and the wheel marks

 

La coppa, su basso piede, presenta sul recto una decorazione che interessa l’intera superficie: essa ritrae un condottiero con un elmo da parata ornato da volute fogliate e dotato di una visiera a forma di mascherone: il ritratto maschile è di un giovane, raffigurato di profilo, che indossa, sopra una camiciola pieghettata, una lorica sulla quale s’intravvede un decoro a rilievo. Tutt’intorno corre un nastro, ad andamento sinuoso, sul quale si legge il nome “ASTOLFO” in lettere capitali.

Il volto è reso in bianco sopra bianco per rendere l’incarnato chiaro, quasi traslucido; lo sguardo pacato e la bocca semiaperta danno l’impressione di una quiete che contrasta con la figura di guerriero. L’elmo, la lorica e la camiciola emergono grazie a sapienti pennellate e ad un’accorta sovrapposizione dei colori che rendono perfettamente il chiaroscuro. La figurina spicca su un fondo interamente dipinto di blu. Si ritiene che l’elmo indossato dal personaggio sia stato inventato da Verrocchio o da Leonardo: era un copricapo diffuso sulle monete o sulle medaglie con ritratti “all'antica”, ma anche in incisioni e nielli. Poiché ci piace pensare che il pittore, nel dipingere il personaggio qui raffigurato, si sia ispirato al paladino di Carlo Magno protagonista di imprese memorabili nelle grandi opere epiche del Rinascimento, la fonte d’ispirazione letteraria sarebbe da ricondurre agli anni tra il 1483 e il 1532, arco cronologico in cui sono compresi sia l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo che l’Orlando il Furioso di Ludovico Ariosto: Astolfo personaggio dal carattere impulsivo, è protagonista di imprese memorabili in entrambe le opere.

Le coppe di questa tipologia sono numerose e si presentano con caratteri morfologici e stilistici differenti, a conferma della diffusione e del successo di questa foggia con ritratti maschili e femminili: oggetti analoghi sono presenti in molti musei italiani e stranieri.

Il lavoro di confronto ci porterebbe ad avvicinare l’opera alla coppia di coppe con “Ruggero” e “Filomena” conservata al Metropolitan Museum of Art di New York databili al primo quarto del XVI secolo e ricondotte alle botteghe artigiane attive in particolare a Castel Durante, l’attuale Urbania.

Jörg Rasmussen nel 1989 ha individuato e attribuito al Maestro Giovanni Maria Vasaro dodici piatti decorati con ritratti di profilo di tipo analogo, conservati in importanti collezioni private e museali, rigettando la tradizionale attribuzione a Nicola di Urbino, e retrodatando la serie agli anni 1510-1520. Proprio in questa serie è pubblicato il nostro esemplare, segnalato come proveniente dalla collezione William Randolph Haerst di New York e all’epoca con collocazione sconosciuta.

Lo stesso Rasmussen nel presentare un altro piatto della stessa collezione Lehman con il ritratto di “Livia Bella”, tipologicamente affine, lo attribuisce invece al “Pittore in Castel Durante”, datandolo agli anni Trenta del ’500, distinguendo pertanto già due serie, con attribuzione a due pittori diversi. Alcuni studiosi, tuttavia, preferiscono mantenere comunque per questa tipologia di opere l’attribuzione al “Pittore in Castel Durante” mantenendo la datazione agli anni Venti del secolo XVI.

Thornton e Wilson nel recente catalogo del British Museum, considerando che nessuna di queste attribuzioni possa essere ritenuta definitiva, raggruppano con grande perizia la serie con sette coppe con ritratti femminili e undici con ritratti maschili, cui va associato un frammento del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
36

COPPA

Urbino, bottega di Nicola di Gabriele Sbraghe, 1530-1535 circa

 

Maiolica decorata in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bianco e bruno di manganese nei toni del marrone e del nero

alt. cm 3,5; diam. cm 25,5; diam. piede cm 10,9

Sul retro sotto il piede iscrizione in corsivo “Circero Glaucho. In./ Cantatricie” e simbolo

Numero manoscritto “5335” ripetuto due volte sul lato del piede

 

Sbeccatura sull’orlo in alto a destra

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, white, and brownish and blackish manganese

H. 3.5 cm; diam. 25.5 cm; foot diam. 10.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Circero Glaucho. In./ Cantatricie’ and a symbol

Two numbers ‘5335’ hand-written on the side of the foot

 

Chip to rim at 1 o’clock

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa, poggiante su piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. Sul verso, decorato da linee concentriche gialle a sottolineare i profili, è delineata all’interno del piede la scritta “Circero Glaucho. In./ Cantatricie”.

La scena mostra Circe seduta davanti al suo palazzo, raffigurato secondo i dettami dell’architettura rinascimentale, a colloquio con Glauco, appoggiato al fusto di un albero. Alle spalle dell’uomo un albero dal tronco ricurvo chiude la scena. Sullo sfondo, un paesaggio marino con una scogliera e una città turrita: lo stretto è quello che sorveglia il confine tra la Sicilia e la terraferma, e la città potrebbe essere l’antica Zancle (Messina) o Reggio Calabria.

In Ovidio (Ov., Met., XIII-XIV) lo scenario è familiare: il palazzo di Circe, figlia del Sole, si leva su colli erbosi nelle acque del Tirreno, e Glauco, un pescatore, ha percorso un lungo tratto di mare per venire a colloquio con la maga: in questa raffigurazione egli è ancora umano, non si è ancora mutato in divinità marina. Glauco ama Scilla, che però non si lascia persuadere a cedergli: per il “dio-pescatore”, alla ricerca di una formula d’amore, la soluzione è quella di rivolgersi a Circe. A questo punto, però, è la dea figlia del Sole che desidera Glauco: per questo gli offre di assecondare con un solo gesto chi lo ama e, contemporaneamente, di vendicarsi di chi lo disprezza. Il giovane rifiuta e ciò fa infuriare la maga, che mormorando un sortilegio muta la rivale in un mostro. Questo però non gli serve a ottenere il favore di Glauco, che invece fugge piangendo la perdita dell’amata.

Il soggetto è dipinto con una copiosa quantità di materia: il manganese abbonda ed è quasi a rilievo, ma anche il blu del mare che si fonde con le montagne è abbondante, steso con pennellate parallele. Il verde dell’erba è invece diluito e mosso da sottilissime pennellate scure, mentre il terreno è reso in ocra, come pure i capelli delle figure e il manto di Circe. Il tendaggio che chiude la scena sulla sinistra è realizzato in verde ramina scuro, lumeggiato con giallo antimonio. Su un tale sfondo le figure risultano quasi eteree, dalle forme elegantemente allungate, di colore chiaro, con muscolatura lumeggiata in bianco e con lievi ombreggiature ocra; i volti e i tratti fisiognomici sono invece sottolineati da una sottile linea scura. Il cielo sullo sfondo è movimentato da una nuvola scura sagomata con piccole volute a chiocciola. Protagonisti, insieme ai personaggi, sono un albero dal tronco sinuoso, molto nodoso alla base, e l’architettura, con il fornice alto e scuro, gli ampi cornicioni e la finestra a occhio, chiusa da una barra a croce, realizzata in smalto stannifero.

Le affinità con oggetti ormai unanimemente attribuiti al pittore marchigiano sono molte: il piatto con donna, unicorno e cavaliere del Museo Correr, per esempio, ci ricorda, per la posa e l’atteggiamento delle figure, la scena raffigurata sulla nostra coppa.

La stessa quinta architettonica è presente invece nel piatto con scena biblica, lustrato a Gubbio e datato “1524”, di cui abbiamo diffusamente parlato nelle schede che precedono (vedi lotti 34 e 35 di questo catalogo): tale piatto fa comunque parte di una serie probabilmente dipinta nella bottega di Mastro Giorgio da pittori prossimi a Nicola da Urbino.

Di grande interesse infine il confronto con una coppa ad orlo estroflesso del Museo Civico Medievale di Bologna che reca sul verso l'iscrizione “quando Aenea uene/ in Italia”. L'opera condivide con quella in esame forma, materia e stile pittorico: si vedano il modo di sottolineare i volti con un tratto scuro, i capelli disposti sul capo delle figure maschili a formare un ciuffo allungato sulla fronte e le braccia affusolate che terminano in mani allungate, ma anche la coincidenza nel modo di dipingere le architetture e soprattutto la presenza del tendaggio verde, foderato di giallo, che mostra notevoli affinità con quello presente sulla coppa in esame. Ravanelli Guidotti proponeva per questo oggetto un'attribuzione alla bottega di Guido Durantino e al periodo cronologico compreso tra il 1528 e il 1530; tuttavia, la studiosa ricordava come la scritta sul retro, secondo Liverani, richiamasse quella di alcuni piatti attribuiti a Nicola da Urbino. Nella stessa scheda Ravanelli Guidotti rammentava come Polidori avesse a suo tempo assegnato la coppa del museo bolognese alla paternità di Nicola da Urbino, all’epoca chiamato ancora Pellipario.

Proprio in base a questo confronto John Mallet ha recentemente asserito che questo piatto sia dello stesso pittore qui ricordato per i lotti 34 e 35, e ha avanzato il nome di “pittore di Enea in Italia”.

Timothy Wilson, dal canto suo, ci ha detto di ritenere che tale piatto sia più vicino nello stile a quello di Nicola rispetto agli altri due.

Importante a questo punto l’analisi della calligrafia sul verso della nostra coppa. La “c” allungata, a capoverso, posta a racchiudere quasi l’intera frase e la “h” con astina molto alta ci ricordano il piatto bolognese con Enea in Italia.

La sigla di bottega posta alla fine dell’iscrizione, pur se con alcune variazioni, ci pare simile a quella presente nel piatto con Astolfo, oggi in una collezione tedesca, attribuito a Nicola da Urbino, che presenta anche una grafia simile a quella del nostro esemplare.

La coppa apparteneva alla collezione Adda, nel cui catalogo è pubblicata come piatto urbinate databile al 1530 circa per le affinità con un pezzo del servizio con stemma Montmorency attribuito alla bottega di Guido Durantino, e proveniente dalla collezione Henry Harris.

Anch’essa passò da Humphris nel 1967 in occasione della mostra dedicata agli oggetti provenienti dalla collezione Adda.

 

Stima   € 30.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
35

COPPA

Urbino, pittore vicino a Nicola di Gabriele Sbraghe, 1526-1528 circa

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco e bruno di manganese

alt. cm 4,5; diam. cm 27,1; diam. piede cm 11,9

Sul retro della coppa, sotto il piede, iscrizione dipinta in blu “Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase

Numero “79” e simbolo inciso nello smalto

 

Intatta, fatta eccezione per alcune sbeccature all’orlo del piede

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese

H. 4.5 cm; diam. 27.1 cm; foot diam. 11.9 cm

On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase’

Number ‘79’ and symbol incised in the glaze

 

In very good condition, with the exception of some chips to foot rim

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa mostra un cavetto dalla foggia ampia e liscia orlato da un bordo appena rialzato, e poggia su un piede ad anello basso e svasato.

La scena è tratta puntualmente dal dipinto di Raffaello per le Logge Vaticane raffigurante Giuseppe che spiega il sogno al faraone. La fonte incisoria al momento non ci è nota, e poiché le uniche incisioni che raffigurano tale episodio sono datate già alla fine del ’500 si potrebbe pensare a una visione diretta, da parte dell’artista, delle Logge o dei disegni di Raffaello.

L’episodio è descritto nella Bibbia (Genesi 41, 25-31): poiché il faraone aveva fatto ben due sogni senza che i suoi consiglieri fossero riusciti a interpretarli in modo plausibile, fu introdotto a corte l’ebreo Giuseppe quale esperto. Quando il faraone raccontò di aver sognato sette vacche magre che divoravano sette vacche grasse e sette spighe aride che consumavano altrettante spighe grasse, Giuseppe spiegò che stava per scatenarsi sul paese una carestia: a sette anni di abbondanza, ne sarebbero seguiti altrettanti di carestia, ed era dunque il caso di preparare i magazzini per far fronte a questa sciagura.

La scena mostra il faraone seduto e, in alto, sopra la sua testa, due riserve circolari con le immagini dei sogni. Di fronte Giuseppe, e alle sue spalle tre dignitari di corte che discutono animatamente.

Lo stile del pittore è quello di Nicola Gabriele Sbraghe detto Nicola da Urbino. I volti allungati, i profili sottolineati in bruno di manganese, i piccoli occhi resi in nero con un piccolo tocco di bianco, lo scorcio di paesaggio visto attraverso la finestra: ogni cosa ricorda il maestro urbinate, anche se il raffronto con gli esemplari firmati, senza dubbio a lui attribuibili, non convince del tutto.

Questo piatto è esemplare per una rapida rilettura della storia degli studi sulla maiolica marchigiana del ’500. Nella collezione Charles Damiron l’opera era attribuita all’artista, chiamato allora Nicola Pellipario, e datata verso il 1530. Bernard Rackham, nel suo studio sulla collezione Adda, per il modo di dipingere i volti e di stendere i colori l’uno sopra l’altro ipotizzava la mano di Francesco Xanto Avelli, sotto l’influenza di Nicola Pellipario.

È probabile che l’oggetto sia passato in asta nel 1965, dal momento che lo ritroviamo poi pubblicato nel catalogo della collezione dell’antiquario londinese Humphris nel 1967 con la stessa proposta attributiva di Rackham, anche riguardo alla scritta sul retro del piatto, vicina ai modi di Xanto Avelli.

Oggi, alla luce dei nuovi studi riguardo all’esistenza di altre importanti personalità pittoriche nel Ducato di Urbino negli anni compresi tra il 1525 e il 1530, è d’obbligo una certa prudenza attributiva. È indubbio che la suggestione derivante dalla visione dell’opera porti ad ascriverla a un pittore molto prossimo a Nicola da Urbino, ma la lunga iscrizione sul retro con le lettere così ordinate e il modo di delineare la “e” corsiva con un ricciolo verso l’alto non portano con certezza né a Nicola, né all’Avelli.

Quello che colpisce è la fedeltà alla fonte nella realizzazione della maiolica, che ritroviamo anche in oggetti attribuiti a Nicola da Urbino ispirati ai cartoni per arazzi commissionati a Raffaello Sanzio da Leone X, a noi noti attraverso le incisioni di Agostino Veneziano. Si tratta del piatto nella collezione del British Museum con La conversione di Sergio Paolo e di quello con il medesimo soggetto delle Civiche Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco: in entrambi i piatti la scritta ai piedi del trono spiega l’episodio evangelico nel quale l’apostolo converte il proconsole dell’Asia. Dal confronto, emerge l’influenza di Nicola di Gabriele Sbraghe, così come in alcune opere dell’Avelli realizzate in quel periodo storico.

Timothy Wilson (che ringraziamo) ci ha suggerito l'evidente vicinanza di quest'opera con la splendida coppa che precede (lotto 34 di questo catalogo).

L'associazione con il “gruppo del 1526” a cui abbiamo accennato nella scheda precedente deriva, come abbiamo visto, dal confronto con un piatto con soggetto biblico, opera di un pittore attivo nella manifattura eugubina di Mastro Giorgio.

Il piatto di confronto mostra notevoli analogie anche con la coppa in analisi. Il volto del giovane inginocchiato e quello dell’altro personaggio dipinto sul lato destro rivelano forti affinità con quello del protagonista della nostra opera; analogamente il volto del faraone s’avvicina a quello del personaggio più anziano del piatto di confronto.

La coppa s’inserisce pertanto a pieno titolo nel gruppo di opere che John Mallet assegna alla mano di un unico pittore, spesso confuso con Nicola da Urbino per la forte vicinanza stilistica con il maestro urbinate, e che lo studioso inglese chiama “pittore di Enea in Italia”.

La coppa in analisi potrebbe pertanto costituire un fondamentale esempio di opera non lustrata, o non ancora lustrata, del pittore di Fetonte o del pittore di Enea in Italia.

Resta comunque indiscutibile che l’attribuzione troverà nella scritta presente sul retro una validissima testimonianza della calligrafia del pittore stesso.

Le notizie che abbiamo sulla provenienza dell’oggetto, in parte già indicate, sono le seguenti: esso è dato come presente nelle collezioni Damiron e H.S. Reitlinger, fu quindi venduto nel 1938 e poi nel 1954, per entrare a far parte della collezione Adda; di qui, con la vendita della celebre raccolta, la coppa passò poi nella collezione Cyril Humphris nel 1967.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
34

COPPA SU ALTO PIEDE

Gubbio, lustro firmato da Mastro Giorgio Andreoli, “1526”

 

Maiolica decorata in policromia con giallo, blu, turchino, verde, rosso, arancio e bruno di manganese; lustro rosso e oro

alt. cm 6; diam. cm 31,5; diam. piede cm 12,6

Sul retro, in lustro dorato, è dipinta la sigla “1526/M°G°

Sul retro piccola etichetta di carta con stampa “ON LOAN FROM” e iscritta a china “The Rev.o S Berney”; grande etichetta, poco leggibile, con la seguente scritta a china “Berney collection/ The Taddea da Carrara Della Scala/ Giorgio/ After Marc Antonio from Raphael/ The portrait of Taddea della Scala (who is being led/ to the Saviour in token of her great charity as foundress/ of the great Casa di Pietà at Verona) is taken from/ a grotesque picture which is over the altar in the/ church as S. Anastasia in Verona which represents/ Mastino II (prince of Verona) Della Scala & Taddea/ da Carrara, his wife kneeling before the Virgin./ The landscape […] the bridge to the fortress of Verona/ the Castellum Vetus, the old castle & the further parts of/ the tower seen in the distance to the right/ the Episcopal palace with its […]/ are […] visible/ R.S.Berney”

 

Intatta

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

Earthenware, painted in yellow, blue, turquoise, green, red, orange, and manganese; red and golden lustre

H. 5.3 cm; diam. 31.5 cm; foot diam. 12.6 cm

On the back, ‘1526/M°G°’ painted in golden lustre

Small paper printed label ‘ON LOAN FROM’ with hand-written in black ‘The Rev.o S Berney’; small label hand-written in black ink ‘In Rev.o S Bernay’/ ‘18’; larger label (hardly readable) hand-written in black ink ‘Berney collection/ The Taddea da Carrara Della Scala/ Giorgio/ After Marc Antonio from Raphael/ The portrait of Taddea della Scala (who is being led/ to the Saviour in token of her great charity as foundress/ of the great Casa di Pietà at Verona) is taken from/ a grotesque picture which is over the altar in the/ church as S. Anastasia in Verona which represents/ Mastino II (prince of Verona) Della Scala & Taddea/ da Carrara, his wife kneeling before the Virgin./ The landscape […] the bridge to the fortress of Verona/ the Castellum Vetus, the old castle & the further parts of/ the tower seen in the distance to the right/ the Episcopal palace with its ” […]/ are […] visible/ R.S.Berney”

 

In very good condition

 

An export licence is available for this lot

 

La coppa, dalla foggia ampia e liscia, è orlata da un bordo appena rialzato e poggia su un piede ad anello basso e svasato.

Sul retro, la coppa presenta delle decorazioni a lustro con spirali fogliate e la marca “M°G°” della bottega di Mastro Giorgio Andreoli, associata alla data 1526.

Sul fronte in primo piano, su una ripida scalinata sale Marta che accompagna la giovane Maria Maddalena introducendola al Cristo. Questi, benedicente, siede su un trono dai braccioli di forma leonina, collocato tra due colonne. Molti spettatori assistono alla scena mostrando perplessità: i quattro apostoli attorno al Cristo, e – in basso - due gruppi di figure ne discutono animatamente. A sinistra, una quinta è formata da una libera composizione di elementi architettonici, con archi spezzati, portali e finestre. Lo sfondo presenta un complesso gioco paesaggistico: a sinistra un’altura con strade, porte urbane ed edifici disordinatamente collocati a diverse altezze, sormontata da una figura di erma. A destra, dietro un’ampia area pratosa col sentiero a zigzag e un forte steccato, si apre un profondo paesaggio con fiumi, una città murata dominata da un castello turrito, un’alta montagna pietrosa e un leggero profilo montuoso in lontananza. Il cielo scende alleggerendo il tono blu fino al giallo nell’incontro degli ultimi monti. Piccoli cirri nuvolosi si muovono lasciando chiare scie.

Marta, centro narrativo della composizione, porta una veste gialla con manto nerastro, permettendo così alla forza cromatica della veste blu e del manto giallo-arancio e rosso di Maddalena una superiore potenza visiva. Anche la combinazione cromatica delle vesti del Cristo ne esalta la figura: rosa, arancio e viola. L’accordo nei colori è impreziosito dall’uso dei pregiati lustri metallici in rosso e oro di Mastro Giorgio Andreoli che appone la sua marca sul retro, unitamente alla data. Con questa tecnica un finissimo tessuto di ornati arricchisce l’intera scena: profila le architetture, lumeggia cielo e montagne, decora i tessuti degli abiti delle figure fino a ingioiellare la bellezza femminile della Maddalena.

Il soggetto è ricavato dall’incisione di Marcantonio Raimondi nota come la Madonna della scala, tratta dalla composizione eseguita dopo la morte di Raffaello da Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni e terminata da Perino del Vaga per la lunetta della cappella di Trinità dei Monti a Roma.

L’incisione è utilizzata integralmente per quanto riguarda i personaggi, salvo per lo stile dei volti, alcuni resi più anziani. Il paesaggio e le architetture, invece, si discostano dal modello, lasciandoci intravvedere sullo sfondo un ampio scorcio incorniciato da alcune architetture classiche, secondo il gusto della pittura su maiolica.

Ad oggi questo rimane un esempio insuperato di rigore tecnico formale e di stile pittorico: sono infatti veramente rari i piatti di qualità artistica paragonabile.

La datazione della nostra coppa s’inserisce nel periodo in cui la bottega di Mastro Giorgio Andreoli a Gubbio produce alcuni dei suoi massimi capolavori, e in cui vediamo variamente impiegati sia il raffinato Nicola, che lì porta a lustrare le sue opere, sia altri pittori probabilmente attivi nella bottega. Timothy Wilson ricorda questa coppa come parte di un gruppo di piatti a lustro di grande qualità prodotti dalla bottega di Gubbio negli anni Venti del ’500, tutti marcati a lustro “M°G°” e datati “1526”, ritenendo che tutti i pezzi siano stati prodotti e lustrati nella bottega di Mastro Giorgio. A questa serie associa anche un piatto datato “1524” con scena biblica, attribuito poi da Sannipoli al pittore di Fetonte. Wilson sottolinea come la stesura risenta di una sorta di manierismo pittorico, evidente per esempio nel disegno dei nasi dalla linea dritta, e ne riconosce alcune caratteristiche stilistiche vicine alla mano del pittore Nicola da Urbino, presente in quegli anni a Gubbio insieme a numerosi altri.

Il confronto con le opere certe di Nicola, o con opere a lui attribuite, si concentra sui dettagli stilistici coerenti, che sono qui ben evidenti nei profili dei volti, nelle mani e nelle architetture. È quindi nella cerchia del maestro che s’inserisce l’opera del pittore sopra individuato.

La nostra opera è stata recentemente pubblicata da Claudio Paolinelli per illustrare come la stessa incisione fosse variamente interpretata o usata all’interno delle singole botteghe. Il raffronto è fatto con un piatto raffigurante la stessa scena, ma con personaggi modificati rispetto all’incisione di Raimondi da Raffaello, come spiega l’iscrizione sul retro, che specifica: “La Regina di Sabba...”. Altri piatti sui quali ricorre la medesima incisione, ma rielaborata in maniera sempre diversa, sono ricordati da Paolinelli, con particolare riferimento al grande piatto della collezione Wallace.

Un’altra coppa con lo stesso soggetto figurativo, conservata al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e firmata “Fabriano/ 1527”, fu per lungo tempo attribuita alla mano di Nicola. Nel 2003 Ivanova ha ribadito questa attribuzione.

La coppa è stata citata anche da Carmen Ravanelli Guidotti in relazione allo studio delle incisioni da Raffaello e al loro utilizzo nella maiolica italiana.

L’opera è dunque, con quelle che seguono (lotti 35 e 36 di questo catalogo), tra gli oggetti di maggior interesse nella storia della manifattura eugubina e nell’ambito del complesso lavoro di riconoscimento delle personalità pittoriche che vi lavorarono.

L’oggetto, noto agli studiosi perché pubblicato nella collezione Adda, passò nel 1967 a Cyril Humphris, il quale, nella documentazione allegata al piatto, ci informa circa la precedente provenienza, e cioè la collezione Berney. La scritta sull’etichetta apposto sul retro testimonia l’entusiasmo di questo collezionista: Berney infatti scrive che la Maddalena cela il ritratto di Taddea della Scala, giustificandone l’attribuzione con la presenza sullo sfondo della rocca di Verona. Ipotizziamo che si volesse giustificare con un’ispirazione veneta la presenza di Xanto Avelli a Gubbio, oppure semplicemente leggere un’esaltazione in chiave simbolica della scena di Raffaello, associando la supposta “Madonna della Scala” alla gentildonna veronese.

 

Stima   € 120.000 / 180.000
Aggiudicazione  Registrazione
33

COPPA

Gubbio, 1540 circa

 

Maiolica decorata in policromia in rosso, arancio, giallo, verde, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, bianco e lumeggiature rosse

alt. cm 4; diam. cm 18,7; diam. piede cm 8,5

Sotto la base etichetta stampata “ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782

 

Sbeccatura al piede; lievi sbeccature di usura all’orlo

 

Earthenware, painted in red, orange, yellow, green, cobalt blue, blackish manganese, white, and red highlights

H. 4.8 cm; diam. 18.7 cm; foot diam. 8.5 cm

On the back, printed label ‘ORLANDO PETRENI/ ARREDAMENTI ARTISTICI/ FIRENZE/ VIA RONDINELLI 7R TEL. 23.782’

 

Chip to foot; minor wear chips to rim

 

La piccola coppa, dalla foggia ampia e liscia, ha un bordo dritto e poggia su un piede ad anello basso e svasato, con orlo tagliato a stecca.

L’ornato a pieno campo è realizzato con grande finezza e raffigura San Girolamo penitente nel deserto mentre, inginocchiato in prossimità di una roccia, si percuote il petto con un sasso reggendo la croce nell’altra mano.

Il corpo del santo è dipinto con cura e notevole attenzione nella resa della muscolatura, grazie alle ombreggiature in ocra e in smalto bianco. L’uso dei tocchi di bianco per dare forma ad alcuni dettagli si nota anche nella resa del Cristo sul crocifisso, delineato in solo smalto, e nel ciuffo di fiori sulla roccia alle spalle del santo. Il paesaggio con montagne impervie e paesini è invece meno accurato.

La lumeggiatura è sapientemente dosata e distribuita per dare risalto al personaggio e stesa con maggior densità sul lato destro e nel cielo, quasi a seguire la luce del tramonto. La roccia collocata a incorniciare la figura del santo è anch’essa lumeggiata, evidenziando così il fondo scuro della spelonca, rifugio dell’eremita. La lumeggiatura è presente anche nel retro con una larga fascia a sottolineare l’orlo della coppa.

Il soggetto ebbe molta fortuna nella produzione ceramica istoriata e si annoverano numerosi esempi dipinti anche da pittori illustri, tra i quali lo stesso Xanto Avelli e i suoi seguaci. Un confronto vicino al nostro esemplare è conservato nella donazione Fanfani del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, la cui fonte è una stampa di Reverdino, incisore seguace del Bonasone, dalla quale anche il decoratore della nostra avrebbe potuto trarre ispirazione.

 

Stima   € 6.000 / 9.000
Aggiudicazione  Registrazione
1 - 30  di 62