90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

28 OTTOBRE 2014
Asta, 0024
17

Maestro influenzato da Tino di Camaino (Italia centro-meridionale), quarto decennio del Trecento

Stima
€ 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione

Maestro influenzato da Tino di Camaino (Italia centro-meridionale), quarto decennio del Trecento

SAN MICHELE ARCANGELO ASSISO IN TRONO

scultura in legno policromato, cm120x43x39

 

Corredato da attestato di temporanea importazione

 

polychrome wood sculpture, cm120x43x39

 

An export licence is available for this lot

 

€ 50.000/70.000 - $ 65.000/91.000 - £ 40.000/56.000

 

Provenienza:

collezione privata

 

La statua raffigura san Michele arcangelo seduto in trono. Si evince il soggetto dall’aspetto giovane del personaggio e dal diadema che ha in fronte, oltre che dal globo osteso con la mano sinistra. Mancano invece le ali, la cui presenza è solitamente testimoniata da fori di attacco, non ravvisabili a tergo. Non è da escludere che essi siano celati da una ripresa a stucco sul retro, sotto un’ampia zona tangente la parte scavata. Solo il restauro potrà fornirci ulteriori dati insieme ad una precisa indagine sulle stesure cromatiche.

L’angelo indossa un manto rosso su una veste che ha perduto in larga parte il colore e che in origine poteva presentarsi bianca soppannata d’azzurro. Ai piedi dell’Arcangelo si stende il corpo del drago, rigonfio e pinnato, che serra frontalmente, con la testa allungata da un lato e la svettante coda dall’altro, la figura assisa, creando un contrappunto alla splendida soluzione del panneggio.

In ottemperanza alla tradizione figurativa, San Michele poteva stringere nell’altra mano la spada, andata perduta. Sembra da escludere l’ipotesi che afferrasse una lancia, dal momento che, per le sue dimensioni, l’arma avrebbe dovuto essere posta in diagonale, posizione non consentita dalla mano chiusa per stringere un oggetto dallo sviluppo in verticale. Di questa iconografia possiamo trovare un precedente significativo, in pittura, nel dossale di Vico l’Abate (Fig.1) attribuito a Coppo di Marcovaldo (settimo decennio del Duecento), ora nel Museo di Arte Sacra di San Casciano, in cui san Michele è raffigurato in trono, ma senza il drago ai piedi; e inoltre nel trittico di Angelo Puccinelli ora nella Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui il corpo del drago, sconfitto, appare addirittura smembrato; simile raffigurazione nella tavola di Giambono nella collezione Berenson di Firenze. Le altre rappresentazioni in scultura raffigurano per lo più l’Arcangelo stante e non in trono: si richiamano gli esempi di Badia a Passignano, della fine secolo XII; dell’Antelami a Parma (Museo Diocesano); di San Michele in Cioncio (Pistoia), della metà del secolo XIII; dell’ ambito dell’Orcagna, già Bardini e poi Fondazione Cini, Monselice.

Raggiungendo un risultato raro quanto originale, è probabile che lo scultore abbia attuato una sintesi tra la versione di Michele nel momento che uccide il drago (drago che per questo si mostra ancora dinamico nell’incurvarsi risalente del collo ) e quella dello stesso arcangelo in trono a dominare la fiera sconfitta, divenuta ormai soltanto attributo.

Immagini dell’Arcangelo Michele avevano avuto una cospicua diffusione tra Duecento e Trecento, anche per il suo culto associato alla Vergine. In qualità di psicopompo, infatti, appariva legato alla raffigurazione della Dormitio Virginis con il ruolo di ricondurre al corpo l’animula raccolta dal Cristo. Inoltre, avendo combattuto Lucifero, fungeva da prefigurazione della Vergine, che, quale moderna Eva, avrebbe schiacciato la testa del serpente. Il legame tra l’Arcangelo Michele e la Vergine è sancito anche nelle raffigurazioni dell’Apocalisse e del Giudizio Universale. Per tutti questi motivi l’immagine di Michele Arcangelo inserita, insieme a quella della Vergine e del Crocifisso, quale arredo del pontile della Porziuncola nel dipinto dell’Accertamento delle stimmate nel ciclo giottesco della chiesa superiore di Assisi, non deve destare meraviglia. Cospicua anche la diffusione della titolazione delle chiese all’Arcangelo, legata alla dislocazione delle mete di pellegrinaggio sparse da un angolo all’altro dell’Europa: Mont Saint Michel, Sagra di San Michele in Val di Susa, Saint Michel a Le Puy-en Velay, San Michele sul Gargano e quindi Castel Sant’Angelo a Roma.

Delle statue lignee collegate alla titolazione si può ricordare quella, trecentesca, della Collegiata di San Michele a Città Sant’Angelo, vicino a Pescara, in cui l’Arcangelo è comunque raffigurato stante.

La scultura in esame proviene probabilmente da una chiesa o da un altare dedicato al Santo, che qui è ritratto con un volto dall’espressione attonita nella fissità degli occhi, posizionati alti, sotto una fronte sfuggente, e quasi a fior di pelle, come appare soprattutto dalla visione laterale. Sono infatti realizzati non in forza del modellato plastico, ma grazie a una risoluzione grafico-cromatica, che impronta tutta la testa, la cui capigliatura è sottolineata da striature rosse che segnano ciocca per ciocca e che si ritrovano anche attorno agli occhi: testimonianza del ruolo decisivo che doveva assolvere la pittura nel completamento della statua. La fitta craquelure della veste potrebbe derivare dalla preparazione sotto la cromia o dalla presenza di più strati di colore; tuttavia la stesura cromatica accurata, almeno nella resa dell’incarnato, sembra comprovata dalla definizione delle unghie. Un modellato molle caratterizza sia le mani che il volto organizzato in un ovale perfetto, da cui non traspare la struttura anatomica, sì che i tratti si disciplinano in modo elementare intorno alle arcate sopraccigliari che si dipartono dalla lunga pinna nasale. La bocca aperta conferisce all’immagine un atteggiamento sospeso.

Il modellato diviene invece efficacemente riassuntivo nel busto e nel grembo della scultura cui conferisce con sintetici trapassi una compattezza stereometrica e un carattere statuario. Misurato nelle proporzioni, il san Michele mostra frontalmente una costruzione rigorosa e monumentale della figura, che segue un andamento leggermente piramidale, sottolineato dal fluire del panneggio che tra le ginocchia si dispone in pieghe a cuneo fortemente plastiche, sensibili all’andamento anatomico, ottenute con pronunciati sottosquadri, concludendo in basso in una diagonale che sterza verso sinistra. Questo senso del panneggio costruttivo si avverte anche guardando la figura lateralmente, laddove una colata di pieghe, partendo dalle ginocchia, sottolinea la volumetria del corpo. Il movimento delle pieghe parte dal retro, distribuendosi ogni piega in modo da sottolineare la verticalità del busto. Il bel motivo, ricco e pannoso, fatto di creste leggermente arrotondate, risulta interrotto dagli effetti del processo di alleggerimento della statua; alleggerimento che ha portato al completo svuotamento della base del trono, oggi chiuso a tergo in basso da uno sportellino.

La scultura ha una composizione autorevolmente architettata, come mostra la soluzione del drago che con la testa e la coda risalenti inquadra ai lati e in basso la struttura della figura, sostanziata anche dall’ andamento del panneggio funzionale alla resa plastica. Sono proprio l’originalità della sintesi compositiva e il panneggio, e non tanto la risoluzione del volto, a offrirci alcuni punti di riferimento di alto grado formale: tra questi, il motivo della piega dal forte sottosquadro che imprime contenuto dinamismo al grembo desinente della figura, volgendo verso sinistra. E’ questa una felice soluzione che, desunta dall’arte francese del Duecento, ritroviamo sia nella scultura fiorita in Toscana sull’eredità dei Pisano, sia in quella di aree artistiche dell’Italia centrale e meridionale, dall’Umbria all’Abruzzo a Napoli, in cui la ricezione può essere avvenuta direttamente e non soltanto attraverso il tramite dell’arte toscana. Premesso che le testimonianze più antiche di questo motivo sono sculture come la Madonna marmorea di Berlino, cui è stata riconosciuta da Previtali una matrice umbra (ma se ne veda ora l’attribuzione pur dubitativa di Kreytenberg ad Arnolfo), la persistenza del tipo è attestata in Toscana dalla Madonna lignea di Montignoso (Massa) (Fig.2), attribuita da Antonino Caleca a Tino di Camaino (secondo decennio del Trecento); e dall’ esemplare in marmo, ora nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, che è una versione più contenuta della Madonna del Monastero di Ettal.

Tra Marche e Umbria troviamo rimandi più stemperati alla Madonna in trono di Santa Maria delle Grazie a Tolentino e a quella di collezione privata, apparsa in mostra alla Galleria Lorenzelli a Bergamo.

Tuttavia i confronti con le opere citate non risultano mai sufficientemente stringenti.  Carattere saliente della statua del san Michele è la concezione compositiva e il risalto volumetrico della figura assisa, sottolineata dal partito di pieghe sopra descritto, eseguito con lucidità cristallina ed efficacia plastica, unita ad un senso alto della sintesi narrativa, che, ci sembra, non trovano parallelo nella scultura umbra, marchigiana o abruzzese della prima metà del Trecento, i cui gruppi plastici o non raggiungono quella complessione tornita che contribuisce a rendere più sciolta la solennità iconica della figura, o si irrigidiscono in secchi trapassi. A tali risultati formali, venati da un’accostante e accattivante espressività illustrativa, la scultura marchigiana perviene, invece, stanti le nostre conoscenze, soltanto alla metà del Trecento con il Maestro dei Magi di Fabriano o con la Madonna, sempre di Fabriano (collezione privata), proveniente da Campodonico, di una cronologia troppo avanzata per permettere un confronto con la statua in esame. A meno che non si consideri l’Arcangelo Michele un loro antecedente che costituirebbe un valido, quanto raro, antefatto insieme alla Madonna della Natività del San Nicola di Tolentino e al Crocifisso della Collegiata di Visso.

Fatta salva un’influenza senese-pisana, resta da precisare se nel gruppo ligneo dell’Arcangelo essa sia stata recepita nei primi due decenni del Trecento attraverso il veicolo delle sculture di Tino di Camaino, quali la Madonna di Anghiari, prima della sua partenza per Napoli nel 1323, oppure in un momento più tardo. Indirizza verso questa più tarda cronologia il modellato del volto dell’Arcangelo, dall’ovale geometrizzante e dal profilo sfuggente, e quello delle mani, dalla molle consistenza, quasi in assenza del supporto anatomico. Esiti plastici di tale geometrica definizione in scultura, ma anche di inerte mollezza, tesi a perseguire ricerche illustrative di accostante percezione, nei decenni a seguire si riscontrano nella vasta produzione funebre dell’ambito dello scultore senese in Italia meridionale. I confronti più significativi si mantengono sia sul filo dell’ampiezza tridimensionale e del rigore costruttivo, sia su quello delle soluzioni illustrative e delle suggestioni iconografiche. Se l’accostamento ai rilievi con le figlie di Maria di Valois che decorano il fronte e i lati della tomba della “regina” in Santa Chiara (1331) (Fig.3), raffigurate assise e con in mano le insegne del potere, può essere dettato da un richiamo visivo occasionale, sul piano dello stile si ha una tangenza significativa per il raggelamento con cui vengono declinate le morbidezze del maestro da parte dai collaboratori, come appare dalla molle resa delle mani e dall’ atonicità del volto. Si confrontino inoltre il volto dell’Arcangelo con quelli dell’Angelo Annunciante e dell’Annunziata sempre nel sepolcro di Maria di Valois.