90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

28 OTTOBRE 2014
Asta, 0024
19

Jacopo Vignali

Stima
€ 120.000 / 150.000
Aggiudicazione  Registrazione

Jacopo Vignali

(Pratovecchio, Arezzo 1592 – Firenze 1664)

IL RITROVAMENTO DI MOSE'

olio su tela, cm 184x210 con cornice coeva, dorata e incisa a motivo di piccole foglie e perlinatura

firmato e datato sulla cesta: “JAC.VIGNA/ LI.F. MDCXXV”

 

Corredato da attestato di libera circolazione

 

oil on canvas, cm 184x210 with coeval gilded frame, engraved with a motif of small leaves and a bead moulding

signed “JAC. VIGNA/LI. F. MDCXXV on the basket

 

An export licence is available for this lot

 

€ 120.000/150.000 - $ 156.000/195.000 - £ 96.000/120.000

 

Provenienza:

eseguito nel 1625 su commissione del Balì Pucci (probabilmente Giulio di Niccolò Pucci), Villa Pucci di Granaiolo (Castelfiorentino);

acquistato negli anni '60 dagli attuali proprietari (collezione privata, Montecatini) direttamente dalla nobile famiglia;

asta Galleria Giorgi, Firenze 6-8 febbraio 1971, lotto 149;

collezione privata, Montecatini

 

Bibliografia:

S.B. Bartolozzi, Vita di Jacopo Vignali pittor fiorentino, Firenze 1753, p. XII; Prima asta d’inverno, catalogo, Firenze, Galleria Giorgi, 6-8 febbraio 1971, n. 149; F. Mastropierro, Jacopo Vignali. Pittore nella Firenze del Seicento, Milano 1973, pp. 11, 29, 69, fig. 13; P. Bigongiari, Il caso e il caos I. Il Seicento fiorentino tra Galileo e il “recitar cantando”, Milano 1974, p. 43; ed. 1982, p. 81; G. Cantelli, Mitologia sacra e profana e le sue eroine nella pittura fiorentina della prima metà del Seicento (I), in “Paradigma”, 3, 1980, p. 164, nota 49; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 142; G. Pagliarulo, Jacopo Vignali, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra, Firenze 1986-1987, 1986, Biografie, p. 184; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Milano 2009, p. 708; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del '600 e '700. Biografie e opere, Firenze 2009, I, p. 271; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, I, p. 193 ; G. Pagliarulo, Per Jacopo Vignali disegnatore: un percorso tra gli studi di figura, in "Paragone", 64, 2013, pp. 11-46, cit. p.16.

 

L’importante opera che qui presentiamo raffigurante Il Ritrovamento di Mosè è da ritenersi fra i capolavori del pittore fiorentino Jacopo Vignali nato a Pratovecchio in Casentino nel 1592 e morto a Firenze nel 1664.

Firmato e datato 1625, il dipinto venne eseguito dal pittore su commissione di un membro della famiglia Pucci, come documentato dalle fonti, e destinato alla Villa Pucci di Granaiolo dove rimase fino alla metà degli anni sessanta del ‘900 per poi passare nell’attuale collezione privata a Montecatini e ora proposto al pubblico in occasione della celebrazione dei novant’anni della Casa d’Aste Pandolfini.

 

Jacopo Vignali ebbe un ruolo importante nella Firenze del Seicento tuttavia il Baldinucci non dedicava una particolare ‘notizia’ al pittore fiorentino, ricordandolo solo brevemente come allievo di Matteo Rosselli e maestro di Carlo Dolci.

Le notizie sulla vita del pittore furono raccolte per la prima volta dall’erudito Sebastiano Benedetto Bartolozzi, grazie alla documentazione costituita da lettere e dal registro di bottega che erano state messe a sua disposizione dagli eredi del pittore. Il testo di Bartolozzi (1753) risulta di fondamentale importanza per la ricostruzione del percorso artistico del pittore in particolare per le preziose indicazioni circa la committenza delle opere.

Il pittore si trasferì fin da giovane età a Firenze, presumibilmente nei primi anni del ‘600, dove entrò a far parte della bottega di Matteo Rosselli, divenendone in breve lo scolaro preferito. La prima notizia biografica successiva al suo trasferimento a Firenze risale al 1614, anno in cui come informa Bartolozzi, Vignali divenne confratello della Compagnia di San Benedetto Bianco e al 1616 la sua immatricolazione all’Accademia del Disegno di Firenze. Nello stesso anno eseguì per Michelangelo il Giovane uno degli scomparti minori del soffitto della Galleria di Casa Buonarroti. Nella prima metà degli anni ’20, l’artista si distinse dai condiscepoli Giovanni da San Giovanni e Domenico Pugliani per la sua originale interpretazione delle soluzioni di macchia del Guercino e delle novità post-caravaggesche. Nella seconda metà del decennio, Jacopo si avvicinò alle immagini devozionali del pittore fiorentino Francesco Curradi, come evidenzia il sentimentalismo espressivo delle figure e la stesura più morbida derivata dal Passignano. Proprio a questo tempo risale la frequentazione della bottega di Vignali da parte di un allievo illustre, Carlo Dolci. Tra il 1630 e il 1633, anni segnati dalla peste, Jacopo fu uno degli interpreti preferiti dai committenti fiorentini che gli richiesero pale da altare e quadri da sala con temi che si possono collegare alla devozione stimolata dal contagio. Ai primi anni Quaranta appartengono alcuni suoi capolavori destinati a due chiese fiorentine: la decorazione della Cappella Accolti Buontalenti alla Santissima Annunziata e le tre tele per la cappella Mazzei ai Santi Michele e Gaetano. La sua intensa attività si interruppe nell’aprile del 1663 per una malattia, a distanza di un anno dalla morte avvenuta nel 1664.

L’importante dipinto qui presentato è documentato nella Vita di Jacopo Vignali pittor fiorentino scritta da Sebastiano Benedetto Bartolozzi nel 1753 (Fig. 1) dal quale apprendiamo che «per il Balì Pucci colorì la Storia di Giuseppe in atto di sottrarsi dalle mani dell’impudica moglie di Putifar; il ritrovamento del pargoletto Moisè avventurato alla corrente del Nilo». L’indicazione di «Balì Pucci» fornita da Bartolozzi dovrebbe riferirsi, come suggerisce Giovanni Pagliarulo, a Giulio di Niccolò Pucci, che alla morte del balì Roberto Pucci, avvenuta nel 1612, gli successe nel baliato di Bologna. Giulio era nato nel 1590 e nel 1629 divenne senatore come lo era stato anche il padre. Nel 1633 rivestì cariche pubbliche a Pistoia e morì nel 1672. La data del nostro dipinto, il 1625, coincide forse non casualmente con la morte del padre Niccolò, nato nel 1556, che viene ricordato come uomo di cultura, ma partito da umile condizione e divenuto enormemente ricco negli ultimi anni della sua vita quando, dopo molte contese con altri congiunti, aveva ottenuto l’eredità del ramo principale dei Pucci, allora estintosi.

Risalgono al XIII secolo le prime notizie della nobile famiglia Pucci che si contraddistinse, salvo solo alcune eccezioni, per la sua politica filomedicea aspetto che le consentì di accumulare numerose ricchezze. La famiglia, nota per le numerose committenze ed opere di mecenatismo, risiedeva a Firenze presso l’omonimo palazzo ed ebbe inoltre numerose proprietà di campagna tra cui la Villa di Granaiolo (eretta tra il XVII e il XVIII secolo secondo lo stile tipico dell’architettura rurale toscana) per cui la grande tela firmata e datata 1625 fu destinata.

L’opera illustra l’episodio biblico del ritrovamento di Mosè che viene salvato dalle acque del Nilo e accolto dalla figlia del faraone, vicenda che presuppone quindi un’interpretazione escatologica dell’ebreo Mosè come predestinato per condurre il suo popolo verso la terra promessa.

La sapiente regia di luci-ombre e di rapporti cromatici conferisce al dipinto una sorta di impostazione teatrale e mediante la ricercata costruzione per diagonali il pittore crea un cono visivo che indirizza lo sguardo verso la cesta che contiene il piccolo Mosè, al centro del dipinto. Dietro la figlia del faraone tre delle sue ancelle creano, insieme alla vegetazione, una sorta di quinta scenica che sulla sinistra del dipinto si apre verso un arioso e terso paesaggio. La figlia del faraone, riconoscibile per la ricchezza dei ricami delle vesti e per i gioielli, viene rappresentata seduta, con accanto a lei il suo cagnolino, intenta ad accogliere Mosè recuperato dalle acque del fiume da un’altra ancella.

Il soggetto del Mosè salvato dalle acque fu affrontato più volte dal pittore, come lo stesso Bartolozzi ricorda: «concetto, che in progresso di tempo ridusse in pittura al genio d’altri personaggi, e particolarmente della casa Mansi di Lucca». Oltre al dipinto Pucci del 1625, si conosce infatti anche la redazione in ottagono conservata al Seminario Maggiore di Firenze, eseguita per Gabriello Zuti intorno al 1642, che sebbene presenti una composizione completamente variata e adattata alle misure ridotte del dipinto (cm 121x94) e al formato ottagonale, denota affinità fisionomiche e nell’esecuzione dei preziosi decori delle vesti. Per adesso è sconosciuta, invece, la trattazione eseguita per la famiglia Mansi di Lucca, ricordata dal biografo, di cui forse serba memoria un tela che si trovava molti anni fa sul mercato antiquario lucchese, con una composizione simile a quella del Seminario Maggiore, ma in formato rettangolare. Un altro Ritrovamento di Mosé di grande formato (cm 209x270,5) attribuito a Vignali è passato in asta a Londra presso Sotheby’s, il 3 luglio 1991, lotto 64, purtroppo non illustrato in catalogo e dunque non giudicabile. Dalle parole del Bartolozzi si evince che la trattazione eseguita per il Balì Pucci è la prima in ordine di tempo.

Strettamente connessi alla nostra tela sono due bozzetti, che documentano due stadi dell’elaborazione del dipinto. E’ da sottolineare come nel corso degli anni ’20, e in particolare negli anni centrali di quel decennio, Vignali esegua spesso bozzetti, che dimostrano la sua ammirazione per Cristofano Allori. Il primo bozzetto in ordine di esecuzione venne reso noto da Giuseppe Cantelli (Cantelli 1980, p. 164 nota 49) che lo riteneva “senza dubbio il primo pensiero di cui conosciamo un ulteriore bozzetto e la redazione finale”. Il bozzetto si trovava a Firenze in una collezione privata (Fig. 3) ed in anni recenti è stato esposto a una Biennale dell’antiquariato di Palazzo Corsini. In questo piccolo studio (cm 23x29), un olio su carta incollato su tavola, eseguito con immediatezza ed estrema libertà, Vignali interpreta la scena con accenti anticonvenzionali addirittura rappresentando la figlia del faraone con le gambe nude e i piedi immersi nell’acqua. Il secondo bozzetto, conservato presso il Frances Lehman Loeb Art Center, Vassar College di Poughkeepsie (NY), eseguito su tela è di dimensioni leggermente maggiori del precedente (cm 30x39,3) (Fig.2). Quest’ultimo era un tempo riferito a Lorenzo Lippi nel catalogo del museo (Vassar College Art Gallery 1939, Poughkeepsie 1939, p. 30, fig. 14) in seguito restituito a Vignali da Carlo Del Bravo (Del Bravo 1964, n. 4) e da Gerhard Ewald (Ewald 1964, p. 10 fig. 13). Qui vediamo che Vignali ripensa la figura della figlia del faraone restituendole il decoro consono alla regalità del personaggio biblico. Il bozzetto, realizzato con pennellate veloci e vibranti di grande freschezza presenta sostanzialmente la medesima composizione del nostro dipinto: sulla destra della piccola tela le ancelle in piedi sono solamente due, con atteggiamenti lievemente variati, che si dispongono dietro la figlia del faraone rappresentata quasi di profilo e più protesa, sempre in atto di porgere il braccio destro verso Mosè. Qualche leggera variante anche nel gruppo di sinistra in cui compare una terza ancella, posta accanto alla figura femminile intenta a recuperare il pargoletto Mosè dalle acque del fiume.