Importanti Dipinti Antichi

21 APRILE 2015

Importanti Dipinti Antichi

Asta, 0001Part 1
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
ore 15.30
Esposizione
FIRENZE
17-20 Aprile 2015
orario 10 – 13 / 14 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   1000 € - 80000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 107
79

Rutilio Manetti

(Siena 1571-1639)

SAN SEBASTIANO CURATO DALLE PIE DONNE

olio su tela, cm 147x220,5 entro cornice antica intagliata a motivi classici, dipinta nella fascia e dorata

 

Provenienza: collezione privata, Siena

 

Bibliografia: M. Ciampolini, Presentazione di Annibale Tegliacci e due inediti del Seicento senese, in "Paragone", 97, 2011, pp. 46-53, cit. pp. 49-50, tav. 48; M. Ciampolini, Pittori senesi del Seicento, Siena 2010, vol. 2, p. 292

 

Corredato da parere scritto di Vittorio Sgarbi

 

Recente aggiunta al catalogo di Rutilio Manetti, il dipinto qui offerto – imponente per dimensioni e impreziosito dalla cornice antica, anch’essa di manifattura senese -  è stato restituito al protagonista del primo Seicento a Siena da Marco Ciampolini sulla base di una fotografia conservata nell’archivio di Mina Gregori.

Pubblicandolo come opera di ignota ubicazione (e con dimensioni probabilmente inclusive della cornice)  in margine a un intervento su un artista minore appena risarcito agli studi, lo studioso ne ha proposto una datazione negli ultimi anni del terzo decennio del secolo, ovvero al periodo in cui l’artista senese appare rinnovare la sua sperimentata maniera affrontando “historie” di maggiore complessità, dove un numero crescente di personaggi è ritratto a figura intera  in uno spazio ben definito e misurato dagli oggetti che lo occupano, quasi a commento dei fatti narrati .

Puntuali i confronti con altre e ben note composizioni, come il Concerto nella collezione Chigi Saracini o la Nascita della Vergine in Santa Maria dei Servi a Siena, eseguita dall’artista dopo il 1625, dove figure femminili virtualmente sovrapponibili alle nostre ostentano, come nel nostro caso, gonfi panneggi definiti dalla luce.

Vero pezzo di bravura, nel nostro dipinto, il lino candido e spiegazzato (stranamente privo di ogni traccia del recente martirio) che vela la nudità del giovane soldato ferito.

Ancora più sorprendente, la corazza e lo scudo “da parata”, senz’altro degni di un ufficiale di alto lignaggio, che anticipano motivi tipici della più tarda natura morta fiorentina e romana quando, privati di ogni giustificazione narrativa, gli stessi elementi saranno ritratti come simboli di ricchezza e potere, per quanto vani.

Unici nel catalogo dell’artista che, come si vede, potrebbe tuttavia riservare ulteriori sorprese, essi richiamano però la sapienza mimetica con cui, in altre occasioni, Rutilio Manetti ha conferito assoluta evidenza a strumenti musicali, arredi domestici o accessori di penitenza e di studio.

Come suggerito da Ciampolini, si impone altresì il confronto con la composizione di uguale soggetto dipinta da Francesco Rustici e nota in più esemplari, dipendenti dal probabile prototipo nel museo di Ekaterinburg reso noto da Vittoria Markova (cfr. Ciampolini 2011, cit., p. 53, nota 20): un dipinto che, come è tipico del Rustichino, appare tuttavia più discorsivo del nostro, e certo meno drammatico, oltre che attento a citare nella figura di Sebastiano il riferimento classico di una  personificazione fluviale.

 

Bibliografia di confronto: A. Bagnoli, Rutilio Manetti: 1571-1639, Firenze 1978

 

Stima   € 80.000 / 120.000
Aggiudicazione  Registrazione
10

Domenico di Francesco detto di Michelino

(Firenze 1417-1491)

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO

tempera grassa su tavola centinata, cm79,5x47 entro cornice a tabernacolo di epoca posteriore, intagliata e dipinta

sul retro iscrizione relativa alla provenienza

 

Corredato da parere scritto di Giuseppe Fiocco, Padova 25 gennaio 1933, che riferiva il dipinto al Maestro di San Miniato

 

Provenienza: collezione privata, Padova

 

La tavola qui presentata, già riferita in un parere scritto di Giuseppe Fiocco del 1933 al Maestro di San Miniato, costituisce un'importante aggiunta al catalogo del pittore fiorentino Domenico di Francesco detto di Michelino grazie alle evidenti affinità stilistiche con altre opere del pittore.

Domenico di Michelino, la cui identificazione spetta ad Anna Maria Bernacchioni (1990), fu a lungo scolaro e collaboratore di Lorenzo Lippi ed anche dopo la morte del maestro collaborò con il figlio Filippino per portare a termine le opere lasciate incompiute da Filippo.

Tali tangenze con gli insegnamenti del Lippi si possono cogliere anche nella nostra opera che trova un valido elemento di confronto con la Madonna in trono ed angeli in preghiera, già presso le Scuole Pie Fiorentine, che mostra le caratteristiche del pittore verso gli anni sessanta. Affinità con la nostra tavola possono essere evidenziate in particolare nel simile modo di realizzare i nimbi e di collocare la Vergine e il Bambino entro strutture architettoniche dai toni rosati, di chiara ascendenza lippesca, che conferiscono al dipinto una spazialità assai tangibile, accentuata dalla struttura centinata della cornice. Interessante notare come la sofisticata e ricercata achitettura che incornicia le due figure in uno spazio prospetticamente definito sia in qualche modo stemperata dal tono intimo e affettuoso dei gesti delle due figure, in cui il Bambino con una mano stringe un dito della madre e porta l'altra alla bocca.

Ulteriori confronti, in particolare per le evidenti affinità fisionomiche con i tratti della nostra Vergine e del Bambino, possono essere effettuati con la Madonna dell'Umiltà e due angeli reggicortina del Museo del Bigallo in cui la ricerca spaziale, a differenza della nostra tavola, cede il passo a un'interpretazione decorativa e calligrafica; con la Madonna con il Bambino sorreggente il globo, già in collezione Budgett poi passata in un'asta Sotheby's di Londra nel 1971, e con la Madonna con Bambino e angeli, della chiesa dei SS. Anna e Biagio di Colle Val d'Elsa (Siena) che sostiene il Bambino in un simile gesto delicato e dolce.

 

Bibliografia di confronto: A. M. Bernacchioni, Documenti e precisazioni sull'attività tarda di Domenico di Michelino: la sua bottega di Via delle Terme, in "Antichità Viva", 6, 1990, pp. 5-14; A. M. Bernacchioni, Committenti sanminiatesi nell'attività di Domenico di Michelino, i Borromei e i Chellini, in "Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, 57, 1990, pp. 95-118; A. Tartuferi, Domenico di Michelino: un'aggiunta e qualche riflessione sulle molte incertezze della fase iniziale, in "Arte Cristiana", 93, 2005, pp. 286-292.

Stima   € 70.000 / 100.000
23

Girolamo Macchietti

(Firenze 1535-1592)

ALLEGORIA DELLA PRUDENZA

olio su tavola, cm 71x57

 

Provenienza: collezione privata, Firenze

 

Esposizioni: La Bella Maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, Museo Archeologico e d'Arte della Maremma, Grosseto, dal 31 maggio al 30 settembre 2008

 

Bibliografia: S. Bellesi, in La Bella Maniera in Toscana. Dipinti dalla collezione Luzzetti e altre raccolte private, catalogo della mostra a cura di Federico Berti e Gianfranco Luzzetti, Firenze 2008, pp. 132-135, ill. p. 133

 

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0383, scheda 34581, inv. 83197 (come Michele Tosini)

 

La pregevole tavola qui proposta è stata restituita da Sandro Bellesi al pittore fiorentino Girolamo Macchietti, dopo essere stata variamente attribuita a Giorgio Vasari, al Bronzino e a Michele Tosini, sotto la cui denominazione compare ancora nell'archivio della Fototeca Zeri.

L'elegante profilo muliebre del nostro dipinto, allusivo alla figura allegorica della Prudenza, una delle quattro Virtù Cardinali, viene raffigurata rivestita da "seriche vesti azzurre dagli effetti madreperlacei e adornata da raffinati elementi ornamentali in oro e pietre preziose" con una mano posata su un ripiano ligneo sostenente una serpe intrecciata intorno alle dita e l'altra in atto di sorreggere uno specchio. Sia la serpe che lo specchio costituiscono dei simboli ricorrenti di questa personificazione allegorica: la prima risulta associata a un passo del vangelo di Matteo: "siate […] prudenti come i serpenti", mentre il secondo allude alle capacità razionali dell'uomo saggio di potersi vedere nell'animo per quello che è in realtà. A tali simboli iconografici si aggiunge la bifrontalità della figura che presenta un secondo volto sulla nuca, allusivo ancora una volta alla circospezione propria di questa virtù attenta a guardare davanti e dietro di sè.

Macchietti, educato alla pittura nell'atelier di Michele Tosini per dieci anni, si distinse per le sue opere elganti conformate sulle nuove istanze della Chiesa controriformata in linea con il linguaggio di altri pittori quali Santi di Tito, Mirabello Cavalori e Maso da San Friano. Tra il 1570 e 1572 si colloca la sua importante partecipazione all'arredo artistico dello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio per il quale eseguì la Medea ed Esone, suo capolavoro indiscusso, e le Terme di Pozzuoli in cui mostra richiami alla grafia pontormesca.

Per talune soluzioni stilistiche e formali, soprattutto nella resa anatomica della figura e nell'aspetto algido degli incarnati, la nostra tavola presenta forti legami proprio con la Medea ed Esone, sopracitata, e con raffigurazioni femminili come la Proserpina del Museo della Ca' d'Oro di Venezia, che ne consentono quindi, come indicato da Bellesi, una datazione approssimativamente verso la metà degli anni settanta.

L'origine delle diverse attribuzioni che si sono succedute nel tempo per la nostra opera va probabilmente rintracciata nel linguiaggio stilistico e figurativo eterogeneo dell'opera stessa che rivela altresì la lezione di Francesco Salviati nella particolarità fisionomica del profilo femminile, oltre ad evidenti assonanze con Giorgio Vasari dal quale però si differenzia per un timbro pittorico più morbido e sfumato, meno ligio pertanto alla "maniacale definizione delle complesse acconciature femminili e agli elementi ornamentali di contorno" propria di Vasari.

Stima   € 70.000 / 100.000
36

Maestro di Popiglio

(attivo a Pistoia e a Pisa nel secondo e terzo quarto del sec. XIV)

MADONNA COL BAMBINO E QUATTRO ANGELI

1360 circa

tempera su tavola sagomata fondo oro, cm 132x70

alcuni restauri

 

Corredato da parere scritto di Andrea De Marchi e Linda Pisani

 

Il dipinto raffigura una Madonna in trono che regge il Bambino seduto sulle sue ginocchia ed è attorniata da quattro angeli. Il Bambino porta con sé un cardellino posato sulla sua mano sinistra, mentre due delle creature angeliche lo osservano adoranti, ed altre due, assise ai piedi della Vergine, lo allietano col suono di un piccolo organo a canne e di una viella. Entrambi i protagonisti della scena sacra si caratterizzano per un tono malinconico, dominato da uno sguardo quasi assente e premonitore - come del resto la presenza del cardellino, simbolo della Passione di Cristo - di un destino importante ma doloroso.

La tavola qui in esame è inedita e, secondo quanto comunica l’attuale proprietario, fu acquistata, circa quarant’anni addietro, da un collezionista di Toledo in Spagna.  

Il dipinto, che, per le dimensioni, è immaginabile come il centro di un trittico o polittico, appare ben leggibile e giudicabile, nonostante i segni lasciati da vecchi interventi di restauro su alcune porzioni della superficie pittorica. Integrazioni a tinta neutra si ravvisano infatti in estese zone del nimbo di Gesù Bambino, nel bordo dorato del manto e della veste di Maria, ed anche nel margine punzonato della tavola. Sulla superficie pittorica si riconoscono inoltre altre stuccature (nella veste e nel manto della Vergine) e qualche ridipintura (nel volto dell’angelo in piedi a sinistra e nella stoffa che riveste la seduta del trono). Il supporto è stato risagomato con vertice a triloba ribassata, probabilmente per l’inserimento in qualche stucco tardo-barocco. Sul retro si notano inoltre i segni dell’alloggiamento di tre traverse, anche se permane il dubbio che non corrispondano a quelle originali (di prassi soltanto due),  tolte quando la tavola fu privata dei suoi laterali. E’ infatti verosimile che fosse il centrale di un polittico.

Le sigle e la cultura figurativa dell’opera sono ben riconoscibili e permettono di identificare l’autore col cosiddetto Maestro di Popiglio, attivo fra il territorio pistoiese e quello pisano dagli anni trenta agli anni sessanta del Trecento. La tavola oggetto di questa scheda, inoltre, anche per parametri esterni come i dati della moda (si pensi agli scolli delle vesti, caratterizzati da una linea netta, come negli affreschi della Cappella Guidalotti Rinuccini di Giovanni da Milano), sembra appartenere alla fase tarda del maestro, sul 1360 circa.

Il Maestro di Popiglio (noto anche, ma impropriamente, come Maestro del 1336 e sovrapponibile in parte al cosiddetto Francesco pisano o Francesco dell’Orcagna) deriva il proprio nome critico da un pentittico raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Lorenzo, Pietro, Giacomo Maggiore e Giovanni Battista conservato nel Museo d’arte sacra di Popiglio, ma un tempo presso la chiesa parrocchiale del paese di Popiglio, sulla montagna pistoiese1.

Alcune delle opere più antiche di questo maestro rivelano i suoi debiti nei confronti di un altro anonimo, il cosiddetto Maestro del 1310, protagonista della scuola pistoiese del primo Trecento e caratterizzato da una tempra espressiva ancor più forte2. Non è un caso che, commentando il pentittico del Maestro di Popiglio raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Francesco, Giovanni Battista, Andrea ed Antonio abate, un tempo presso la cappella di Santa Lucia nella collegiata di Empoli ed oggi al museo della Collegiata, si sia parlato, di volta in volta, e con lessico colorito,  di “figure aggrondanti“e di una “ferinità insieme raffinata e popolare”3.  Alle opere principali del Maestro di Popiglio (il namepiece, il pentittico empolese e la Madonna col Bambino della collezione Acton nella Villa La Pietra di Firenze) rinviano anche alcuni dettagli della Madonna con il Bambino ed angeli qui in esame: simili sono, sebbene meno incisivi ed appuntiti, i lineamenti del volto del Bambino, i suoi densi boccoli biondi e persino la collanina su cui spiccano un vistoso ciondolo apotropaico in corallo ed una crocellina dorata, che, per la sua sistemazione sbilenca, sembra esser rimasta impigliata fra i ricami che impreziosiscono la veste del piccolo Gesù.

Tuttavia, come si accennava, la datazione della tavola sembra collocarsi nel decennio successivo alla metà del secolo, a notevole distanza dalle opere citate. Il prosieguo del percorso del maestro, che ha anche immediati riverberi nel territorio pistoiese, come mostrano una tavola ed un affresco a Montecatini Alto4, sembra puntare in direzione di Pisa e del suo circondario. Si tratta però di opere molto discusse, la cui piena definizione critica attende ancora un assestamento definitivo. Come nel caso del polittico, molto impegnato, giunto alla Collezione Cini di Venezia dalla raccolta Toscanelli di Pontedera e raffigurante San Paolo in trono fra i santi Giovanni Battista, Pietro, Filippo e Giovanni Evangelista. Per tale dipinto, di cultura orcagnesca, con riflessi di Giovanni da Milano e qualche tangenza con il pisano Giovanni di Nicola, è stata a lungo accreditata una provenienza dalla chiesa di Santa Caterina a Pisa, sulla base di un documento che registra la commissione nel 1364, da parte di donna Nuta di Vico, di un polittico destinato all’altare di San Paolo in quella chiesa5. Raffigurando San Paolo in posizione d’onore e potendosi datare negli anni sessanta del Trecento, il polittico ex Toscanelli era infatti un candidato forte per l’identificazione con l’opera citata nel documento. Tuttavia, di recente, alcuni rinnovati scavi d’archivio hanno rimesso in discussione questo collegamento. Si è infatti appurato che il pittore pisano di nome ‘Francesco’ che viene citato in quel documento per la realizzazione del dipinto è in realtà Francesco Neri da Volterra6 e perciò il polittico Cini, inconciliabile con lo stile del pittore volterrano,  non può essere quello richiamato nel documento del 13647.

Resta dunque aperta l’indagine sul polittico Cini - che infatti è stato inquadrato anche nell’ultima attività di Giovanni di Nicola, pittore pisano probabilmente formatosi con il senese Lippo Memmi - 8 e nell’assenza di riferimenti documentari certi è plausibile tornare a considerarlo come un esito della fase finale del percorso del Maestro di Popiglio. Esso parrebbe inoltre traghettare a Pisa soluzioni compositive e strutturali pubblicate a Pistoia: col tramite del polittico Cini, si spiega infatti più agevolmente la somiglianza strutturale fra il polittico di Taddeo Gaddi per l’altar maggiore di San Giovanni Fuorcivitas di Pistoia, e il polittico di Agnano di Cecco di Pietro, che ne condivide il registro intermedio coi santini a mezzo busto interposto fra le cuspidi ed il registro coi santi a figura intera9

I punti di maggior contatto fra la tavola qui schedata e il polittico Cini chiamano in causa soprattutto la raffigurazione dell’Annunciazione: basti pensare al profilo dell’Arcangelo da affiancare idealmente ad uno degli angeli in profilo che fanno corona alla Madonna col Bambino. Oltre alla somiglianza dei tratti (fatta eccezione per una certa sommarietà nella definizione delle mani), colpisce soprattutto il chiaroscuro intenso usato con funzione modellante.

In sintesi, sembra da proporre una datazione all’inizio degli anni sessanta del Trecento ed un inquadramento nella tarda attività del Maestro di Popiglio.

 

Note:

1 Per questo polittico e per un trittico di analoga cultura figurativa raffigurante la Madonna col Bambino fra santo vescovo e  santo Stefano e nelle cuspidi  San Paolo e San Pietro cfr. U. Feraci, I polittici trecenteschi, in Popiglio. Museo d’arte sacra, a cura di P. Peri, Pistoia 2010, pp. 68-71. Per Feraci, che si allinea alla posizione critica di M. Boskovits (Pittura umbra e marchigiana, Firenze 1973, pp. 19, 40), il primo polittico sarebbe opera del Maestro di Popiglio, mentre il secondo si dovrebbe ad un altro, anonimo maestro pistoiese. Si tratta in effetti di un gruppo composito, forse meritevole di qualche espunzione, ma che nel complesso sembra poter convivere in un unico corpus.

2 Sul ‘Maestro del 1310’, così definito a partire dalla grandiosa Maestà al Musèe du Petit Palais di Avignone, datata in quell’anno in base all’epigrafe in calce al dipinto, cfr. A. De Marchi, Come erano le chiese di San Domenico e San Francesco nel Trecento? Alcuni spunti per ricostruire il rapporto fra spazi  ed immagini, sulla base dei frammenti superstiti e delle fonti, in Il Museo e la città. Vicende artistiche pistoiesi del Trecento, Pistoia 2012, pp. 13-19.

3 Per tali metafore cfr. P.P. Donati (Per la pittura pistoiese del Trecento- II Il Maestro del 1336, in ‘Paragone’, XXVII, 1976, 321, pp. 3-15 ), al quale si deve l’individuazione della personalità critica del maestro; e  A. Paolucci, Il Museo della collegiata di Sant’Andrea in Empoli, Firenze 1985, scheda 2, p. 37.

4 Cfr. L. Pisani, Pittura a Pescia e dintorni fra la fine del XIV  e l’inizio del XV secolo, in Sumptuosa Tabula Picta. Pittori a Lucca tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra (Lucca 1998) a cura di M. T. Filieri, Livorno 1998, p. 99 figg. 66-67.

5 Per il documento cfr. P. Bacci, Il Trionfo di San Tommaso di Francesco Traini e le sue attinenze con la scuola senese, in ‘La Diana’, V, 1930, p. 171; per il collegamento col polittico cfr. W. Cohn, Franco Sacchetti und das ikonographische Programm der Gewöllemalereien von Orsanmichele in ‘Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz’, VIII, 1958, p. 73.

6 Si tratta di un pagamento, ulteriore, che chiarisce l’identità di tale Francesco: cfr. M. Fanucci Lovitch, Artisti attivi a Pisa fra XIII e XVIII secolo, Pisa 1991, pp. 118, 147.

7 Federica Siddi ha inoltre notato l’assenza nel polittico Cini di qualsiasi riferimento all’iconografia domenicana, come sarebbe invece avvenuto se l’opera avesse avuto attinenza con Santa Caterina, chiesa dei domenicani di Pisa.  Per il polittico Cini cfr. F. Zeri, Dipinti toscani e oggetti d’arte della collezione Vittorio Cini, Vicenza 1984, pp. 13-16 e ora la scheda di F. Siddi, nel nuovo catalogo in corso di preparazione a cura di A. Bacchi e A. De Marchi.

Stima   € 60.000 / 80.000
66

Simone Pignoni

(Firenze 1611-1698)

BETSABEA AL BAGNO

olio su tela, cm 146x190

sul retro bollo in ceralacca ed etichetta relativa all'esposizione

 

Attribuzione confermata da Sandro Bellesi su visione diretta

 

Provenienza: collezione privata, Firenze

 

Esposizioni: Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento, Palazzo Pitti, Firenze 1922

 

Bibliografia: Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento. Catalogo, Roma 1922, p.92 n. 427 (non riprodotto, come Francesco Furini);

 

Presentato alla storica mostra del 1922 con un’attribuzione, per l’epoca più che giustificata, a Francesco Furini, il dipinto qui offerto, rimasto per oltre mezzo secolo nella stessa raccolta e quindi del tutto nuovo agli studi oltre che al mercato, è invece opera tipica e assai bella di Simone Pignoni, a cui può essere restituito in virtù di ineccepibili confronti.

Quelli più immediati sono da istituire con la tela di uguale soggetto e simile composizione ma variata in diversi particolari, già presso Voena e Robilant, più volte pubblicata da Francesca Baldassari, cui si devono gli studi più aggiornati sull’artista fiorentino. Catalogata al n. 368 del repertorio (La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009) è stata nuovamente commentata in occasione del nuovo saggio della stessa studiosa che nel 2012 ha accompagnato una esposizione di Moretti a New York (Seicento fiorentino. Sacred and Profane Allegories, Firenze 2012, p. 122, fig. 2).

In quel dipinto, naturalmente diverso per situazione conservativa, Betsabea svela quasi per intero il bel corpo qui pudicamente velato, se pure parzialmente, e sono invece assenti il cagnolino in primo piano e la figura femminile che a destra nell’ombra appare nel nostro. Eventuali altre discrepanze saranno verosimilmente meglio leggibili a seguito di una pulitura della tela qui offerta.

Inaugurati nel 1964 da un breve saggio di Gerhard Ewald (Simone Pignoni, a little-known Florentine Seicento Painter, in “The Burlington Magazine” 106, 1964, pp. 218-26) gli studi sull’artista hanno dovuto confrontarsi con la quasi totale mancanza di notizie biografiche e di date certe, soprattutto per quanto riguarda le sue opere di committenza privata, senza dubbio le più numerose e significative. Escluso per motivi cronologici dalle Notizie di Filippo Baldinucci, che fa il suo nome solo in quanto allievo di Francesco Furini, Pignoni è però ricordato da fonti settecentesche, e in particolare dall’allievo Giovanni Camillo Sagrestani (Vite dei Pittori, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Ms. Pal. 451) che riporta gli elogi di Luca Giordano per una delle sue più importanti opere pubbliche, la pala dedicata a San Luigi di Francia sull’altare Guicciardini in Santa Felicita, del 1682. Non stupisce peraltro che la pittura luminosa e sensuale del Pignoni, esclusivamente affidata al colore, suscitasse le lodi dell’artista napoletano così lontano dal culto per il disegno dei pittori fiorentini, nè che alla fine del secolo insieme a Livio Mehus, prediletto dal Gran Principe Ferdinando, Pignoni fosse considerato tra i primi pittori di Firenze, come riporta una lettera di Tommaso Redi del 1690.

Se la sua produzione pubblica per le chiese della città e del territorio circostante è relativamente ben documentata, non restano invece riferimenti cronologici per le splendide figure femminili che costituiscono l’aspetto prevalente delle sua attività: nelle parole del Sagrestani “Le femmine… le fece con tanta grazie e rilievo di tinte che nel nostro secolo pochi si son veduti di quel gusto”.

Numerose e precoci citazioni di sue opere negli inventari delle principali collezioni fiorentine attestano il successo del pittore a partire dagli anni Quaranta quando, coadiuvato da una ben organizzata bottega nella quale fu attivo con felicissimi esiti anche l’allievo Francesco Botti, Pignoni dipinse figure sacre e più spesso profane, tratte dalla storia classica e dal mito, servendosi (pare) delle modelle più belle e costose di Firenze, che raffigurò come personaggi diversi semplicemente variandone gli attributi.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
81

Giovanni Paolo Panini

(Piacenza 1691-Roma 1765)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA DI ROVINE CON DEDALO E ICARO

olio su tela, cm 74,5x100

sul retro del telaio tracce di vecchia etichetta iscritta: “Dedalus and Icarus. G.P. Panini” ed altra etichetta Colnaghi, Londra

 

Provenienza: Colnaghi, Londra;

asta Christie’s, 24-3-1972, Londra;

collezione privata, Roma;

Galleria Gasparrini (1992), Roma;

collezione privata, Roma

 

Corredato di parere scritto di Giuliano Briganti, Roma, 30/XII/79 e di Ferdinando Arisi, Piacenza, 9 novembre 1992

 

Considerato da Briganti opera giovanile di Gian Paolo Panini, il dipinto qui offerto propone in effetti i confronti più pertinenti con rare opere dell’artista piacentino datate del terzo decennio del Settecento, delle quali condivide l’ardito taglio prospettico e la gamma cromatica fortemente contrastata.

La fuga di colonne osservata da un punto di vista eccentrico richiama ad esempio, sebbene semplificato, l’ambiente della Probatica piscina in raccolta privata, opera firmata e riferibile al 1724 grazie al pendant che reca appunto quella data (F. Arisi, Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del 700, Roma 1986, p. 306, n. 161), e ancora la prospettiva architettonica con la Cacciata dei mercanti dal Tempio nella Bayerische Staatsgemaeldesammlung di Monaco (Arisi 1992, p. 312, n. 171) che con la nostra condivide la presenza, piuttosto inusuale e certo non accademica, di capitelli ionici su fusti scanalati.

Ancora, la stessa fuga di archi spezzati fa da sfondo a una Adorazione dei Magi probabilmente identificabile con la tela di uguale soggetto descritta nell’inventario del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, che di Panini fu senza dubbio il maggiore e più illustre committente (Arisi 1992, p. 328, n. 193). Opere, tutte, che nel terzo decennio del secolo rivelano la sapienza del quadraturista, quale Panini era appunto per formazione, facendo riferimento a un repertorio architettonico in qualche modo “di maniera” e ancora privo di quei riferimenti alla scultura classica che in breve, ricercati da “antiquari” e appassionati in Grand Tour, diventeranno quasi il marchio dell’artista.

Priva di confronti, e in effetti unica nella produzione paniniana, la scena al centro della navata principale si riferisce al mito di Dedalo e Icaro. Prototipo dello scultore, Dedalo è raffigurato nell’atto di costruire, incollando le piume una ad una, le ali che libereranno il figlio dalla prigione del labirinto da lui stesso progettato. Per terra, le piume da montare, un secondo paio di ali e altre, forse scartate o ancora in preparazione, alludono agli aspetti squisitamente manuali della pratica dello scultore, come del resto la sega e il martello abbandonati in terra: un soggetto così particolare da far credere che Panini lo dipingesse su richiesta specifica di un cliente e che, per questo motivo, restasse unico nella sua ricchissima produzione.

 

 

Stima   € 40.000 / 60.000
Aggiudicazione  Registrazione
95

Giovanni o Nicolò Stanchi

(Roma 1608 - dopo il 1673; 1623 – 1690 circa)

FIORI IN UN VASO IN METALLO, CON MAZZO DI ANEMONI SU UN PIATTO

VASO DI ANEMONI, GIGLI E TULIPANI, CON ROSE SU PIANO DI PIETRA

coppia di dipinti ad olio su tela ottagonale, cm 53,5x89,5 ciascuno

(2)

 

Provenienza: asta Londra, Phillip’s, 5 luglio 1994, n. 50 a-b

 

Bibliografia: G. Sestieri (a cura di), Dipinti italiani ed europei del XVII e XVIII secolo. Galleria Cesare Lampronti, Roma 1996, pp. 40-41, nn. 23-24; L. Ravelli, Stanchi dei fiori, Bergamo 2005, p. 87, nn. 79-80; S. Proni, La famiglia Stanchi, in G. Bocchi - U. Bocchi, Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Viadana 2005, p. 257, figg. FS 16-17

 

Passati in asta a Londra come opera di Giacomo Recco e ricondotti più correttamente all’ambiente romano, sebbene sotto il nome di Abraham Brueghel, in occasione della mostra tenuta a Roma da Cesare Lampronti, i dipinti qui esaminati sono stati restituiti da Lanfranco Ravelli alla produzione dell’atelier della famiglia Stanchi, come successivamente confermato da Silvia Proni.

Il lungo saggio della Proni, corredato da un regesto di documenti e da citazioni inventariali, ricostruisce in maniera capillare e del tutto convincente la produzione di una delle principali botteghe romane del Seicento, specializzata in dipinti di fiori e frutta (occasionalmente, anche di animali e selvaggina) ricercati dalle più importanti famiglie dell’aristocrazia, dai Colonna, ai Chigi, ai Rospigliosi, e presenti fin dalla fine del secolo nelle raccolte medicee.

Punto di partenza per la ricostruzione del corpus riferito agli Stanchi, le magnifiche specchiere eseguite da Giovanni nel 1670 per la galleria di palazzo Colonna in collaborazione con Carlo Maratta (Ghirlanda di fiori con quattro putti; e Vaso di fiori con cinque putti), in competizione con Mario dei Fiori, autore delle altre a due; per quanto riguarda Nicolò, il fratello minore titolare della bottega dopo la morte di Giovanni, gli specchi in palazzo Borghese, eseguiti nel 1675 in collaborazione con Ciro Ferri. A questi si aggiungono la coppia di festoni di fiori nella Pinacoteca Capitolina, dalla collezione Sacchetti, pagati a Pietro da Cortona, e per lui a “Stanchi”, nel 1651 (replicate in due tele a palazzo Pitti), e una serie di sei piccole tele documentate di Nicolò per il cardinale Flavio Chigi, oggi presso la famiglia Incisa, oltre ad alcune nature morte documentate fin dall’inizio del Settecento nella collezione Pallavicini, ove ancora si trovano.

Estremamente varia per tipologia ma stilisticamente coerente, la produzione degli Stanchi è stata poi suddivisa dalla Proni a seconda dei soggetti proposti: innanzi tutto le ghirlande, legate al modello fiammingo reso celebre a Roma da Daniel Seghers (di cui si conservava un esemplare nella collezione Ludovisi, censito nell’inventario del 1618) e probabilmente in gran parte riferibili al solo Giovanni; i sontuosi bouquets entro vasi in metallo istoriato, sull’esempio di quelli, celebri, di Mario dei Fiori; composizioni di fiori e frutta su sfondo di paesaggio, talvolta con la presenza di figure femminili come nelle scene di vita all’aperto di Michelangelo Cerquozzi, a cui in passato sono state attribuite; ricostruzioni ideali di giardini che riproponevano, in tele di grande formato documentate anche negli inventari delle raccolte del cardinal Flavio Chigi e del cardinal Benedetto Panfili, la ricchezza e la varietà dei giardini delle ville romane di quegli stessi committenti, così come possiamo oggi ricostruirne l’aspetto a partire dai documenti e dalle rare illustrazioni.

Tipiche della “bottega Stanchi” nella precisione smaltata dei singoli fiori e nella costante presenza delle rose “antiche”, quasi una sigla dell’atelier, le tele in esame appaiono particolarmente vicine a quanto, con relativa certezza, possiamo oggi riferire a Giovanni, il maggiore dei fratelli, la cui attività appare documentata fin dal 1634. Anche la presentazione dei vasi e dei fiori recisi su un piano di pietra illuminato dall’alto contro un fondo scuro, memore certamente del primo tempo della natura morta romana caravaggesca, suggerisce in effetti una datazione abbastanza precoce per la coppia di tele qui esaminate.

Da notare, infine, la sequenza di rombi che decora il corpo del vaso in metallo nel secondo dipinto, motivo che ritroviamo in altre forme (ricami dorati sui nastri in seta azzurra che raccolgono fiori recisi o si intrecciano a ghirlande: cfr. S. Proni, 2005, figg. 7, 13, 14, 19) ed è forse collegato allo stemma della famiglia Rospigliosi, che compare esplicitamente a decorare un piedistallo (o “sgabellone”) in una composizione di pesci venduta alla Finarte (S. Proni, fig. 15). La committenza del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa col nome di Clemente IX fra il 1667 e il 1669, è peraltro documentata già nel 1644, quando specchi dipinti con fiori di Giovanni Stanchi sono da lui donati al re di Spagna, Filippo IV.

Come la maggior parte delle opere uscite dalla “bottega Stanchi” anche le nostre composizioni di fiori si distinguono per i colori smaglianti e la perfetta conservazione, dovuta senza dubbio ai materiali di pregio utilizzati in ogni circostanza e non solo per le commissioni più prestigiose: un dato che rende indubbiamente ragione del successo goduto dall’atelier nel corso di ben cinque decenni.

 

Stima   € 40.000 / 60.000
89

Bernardo Canal

(Venezia 1674-1744)

VEDUTA DI PIAZZA SAN MARCO VERSO LA CHIESA DI SAN GERMINIANO

VEDUTA DELLA PIAZZETTA DI SAN MARCO VERSO SUD, CON LE COLONNE DI S.MARCO E DI S. TEODORO

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 55x80 ciascuno

(2)

 

La coppia di vedute qui presentate possono senz’altro ascriversi al catalogo di Bernardo Canal, padre e, curiosamente, seguace di Antonio, universalmente noto come “il Canaletto”.

Pittore di scenografie teatrali, e come tale ricordato dai documenti come dalle principali fonti settecentesche a partire da Anton Maria Zanetti, che nel 1777 lo nomina come “pittore di teatro”, Bernardo Canal si arrese anche lui al nuovo genere della veduta di soggetto veneziano, inaugurato alla fine del Seicento da Gaspar van Wittel e rinnovato in maniera geniale da suo figlio Antonio, che per amore della veduta dichiarò di avere “scomunicato” il teatro.

Si deve a Rodolfo Pallucchini una prima ricostruzione dell’esiguo catalogo di Bernardo Canal, tutto appoggiato alla firma e alla data “Bernardo Canal fecit 1735” presenti al verso di due vedute veneziane, il Molo e Piazza San Marco, esposte a Venezia nel 1947. Alla stessa serie di cinque vedute, un tempo in palazzo Salom a Venezia e poi presso un erede della medesima famiglia nei pressi di Lucca, appartenevano altri soggetti veneziani indipendenti nella loro composizione dalle vedute del Canaletto sebbene costruite sul suo rigoroso telaio prospettico.

Come i dipinti qui offerti, le tele documentate di Bernardo Canal sono caratterizzate da una gamma cromatica vivace ma fredda e da un’attenzione per le “macchiette” che animano la scena quasi ridondante, e in qualche modo reminiscente dell’esempio di Luca Carlevarijs. Come nelle tele firmate, nuvole sfrangiate solcano il cielo nelle nostre vedute, anch’esse caratterizzate dagli stessi colori vivaci e in qualche modo discordanti, comuni anche a quelle del Richter.

 

Stima   € 35.000 / 45.000
Aggiudicazione  Registrazione
85

Collezione indivisibile di undici dipinti provenienti da Palazzo Sansedoni di Siena

(11)

 

Nucleo notificato con decreto della Direzione Regionale della Toscana n. 321/2014, Firenze, 24 luglio 2014

 

Il lotto qui proposto, proveniente dallo storico Palazzo Sansedoni di Siena, si compone di undici dipinti che per lo più si possono rintracciare citati nell'inventario dei beni del Cav. Ottavio Sansedoni redatto il 5 luglio 1773, a poco più di un mese dalla sua morte. Nella sua globalità la collezione Sansedoni (iniziatasi a formare fin dal XVI secolo) era composta da dipinti, sculture, bassorilievi, nonchè busti in marmo, tappezzerie, porcellane e disegni anche se a farla da padrona era la scuola pittorica senese cinque-seicentesca grazie a dipinti attribuiti a Baldassarre Peruzzi, Beccafumi, Francesco Rustici e Rutilio Manetti. (cfr: L. Bonelli, Palazzo Sansedoni, a cura di Fabio Gabbrielli, Siena 2004, pp. 479-480)

 

a) Giovanni Domenico Ferretti

(Firenze 1692-1768)

I COMMENTATORI DI CICERONE

olio su tela, cm 171x139

firmato e datato "Gio Ferretti Fe / 1748"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., pp. 479-486

 

L'importante dipinto qui proposto risulta citato nell'inventario del 1773: "Due quadri un poco più grandi (di "circa braccia tre") con cornici dorate e gialle uno esprimente li Commentatori di Seneca, copia del Ferretti dall'originale di Rubens, l'altra li Commentatori di Cicerone originali del Ferretti".

La tela in questione, come indicato nella relazione storico-artistica a cura di Alessandro Bagnoli, che era a pendant con la copia dal Rubens, riveste un particolare interesse sia per l'aspetto artistico sia per il soggetto. Si tratta di un dipinto di alta qualità del pittore fiorentino, che vi ha lasciato la firma e la data sul piccolo calamaio nero posto sopra un libro poggiato sul tavolo. La commissione di quest'opera rivela la cultura classicista del committente, che chiese al pittore di copiare il famoso quadro di Rubens, oggi conservato nella Galleria Palatina a Firenze, per affiancargli un dipinto di analogo soggetto con quattro "commentatori di Cicerone". Questa preziosa indicazione antica porta un utile contributo per definire meglio il soggetto del quadro di Rubens, comunemente indicato come i Quattro filosofi, anche se oggi sappiamo che rappresenta lo stesso Rubens, suo fratello Philippe e gli umanisti Juste Lipse e Jan Woverius. I quattro "commentatori" riuniti attorno al tavolo, analogamente a quanto fanno gli "intellettuali" immaginati da Rubens sotto il busto di Seneca, potrebbero essere identificati come segue: il personaggio in manto rosso e corona di alloro dovrebbe essere Francesco Petrarca, che ottenne l'ambito riconoscimento della laurea poetica in Campidoglio nel 1340 e di cui è noto l'interesse per la prosa di Cicerone e per la riscoperta di gran parte del suo Epistolario. Il 'commentatore' con sopraveste rossa secondo la moda del primo Quattrocento, che è intento a leggere, dovrebbe identificarsi con l'umanista Poggio Bracciolini che recuperò importanti orazioni di Cicerone e lo ritenne uno dei suoi modelli ispiratori. Per il robone ornato di pelliccia e la gorgiera si direbbe che il serio personaggio a sinistra con lo sgardo attento sia uno studioso della fine del Cinquecento; mentre quello con la rigida lattuga bianca potrebbe essere del primo Seicento. E' noto che Ferretti fu uno dei pittori preferiti da alcuni membri di casa Sansedoni, che gli affidarono in vari tempi gli incarichi di affrescare molte stanze del palazzo di famiglia. Il rapporto col pittore iniziò nel 1743. Il dipinto in questione, essendo datato 1748, assieme al suo disperso pendant copiato dal Rubens e a una terza tela di cui si ignora il soggetto, potrebbe essere uno dei tre quadri da stanza che Ferretti propose di sistemare sulle pareti del salone per risparmiare lavoro al suo collaboratore Pietro Anderlini, pittore specializzato nel dipingere finte architetture.

 

b) Giovanni Domenico Ferretti

(Firenze 1692-1768)

AUTORITRATTO

olio su tela, cm 87,5x73 senza cornice

 

L'opera qui illustrata è stata assegnata nella relazione storico-artistica, a cura di Alessandro Bagnoli, al pittore Giovanni Domenico Ferretti che si raffigura in età ormai avanzata. A conferma di tale attribuzione lo studioso propone alcuni confronti con la testa di un San Giuseppe di collezione privata bolognese (cfr. F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Milano 2002, p. 146); per il modo di panneggiare con l'uomo di spalle nella Predica di San Francesco Saverio agli indiani, già Volterra chiesa di San Giusto o con il San Michele arcangelo nell'Immacolata concezione, Campobasso, Convitto Nazionale. Dell'artista sono noti due Autoritratti, quello databile intorno al 1708 della Pinacoteca di Brera, Milano e quello della Galleria degli Uffizi, Firenze eseguito probabilmente nel 1719 (cfr. F. Baldassari, op. cit., pp. 126, 134-135). La pennellata veloce e al contempo soffice del pittore e l'uso accentuato del chiaroscuro sono aspetti che si ritrovano inoltre in altri ritratti dell'artista, come ad esempio in quello di Anton Francesco Gori (cfr. F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Milano 2002, pp. 199-201, figg. 185-186). E' probabile che il presente dipinto sia stato eseguito sul finire del sesto decennio del Settecento, quando Ferretti concluse l'ultima commissione per Rutilio Sansedoni, lasciando il suo nome e data 1759 nell'Allegoria della Nobiltà d'animo coronata dalla Scienza, dipinta su un soffitto del secondo piano del palazzo. Tale datazione trova ulteriore conferma nel tipo di giacca indossata dall'effigiato. Pur non presentando nessuna iscrizione che ne attesti la pertinenza agli altri dipinti del nucleo è altamente probabile che anche quest'opera sia stata in antico in Palazzo Sansedoni a Siena. Dall'inventario del 1773 si apprende infatti che nella stanza denominata "dei pittori" erano appesi i ritratti di sei pittori tra cui un ritratto di Ferretti, non meglio descritto, probabilmente identificabile con il nostro.

 

c) Bottega di Onorio Marinari, sec. XVII

GANIMEDE

olio su tela, cm 93x82

 

Il dipinto, già riferito nel decreto di notifica alla Bottega di Pier Dandini, è stato per ragioni stilistiche ricondotto all'ambiente di Onorio Marinari, come confermato su visione diretta da Silvia Benassai. Nella relazione storico-artistica viene sottolineato come il soggetto corretto del dipinto sia Ganimede e non Ila, in quanto non sembrano sussistere elementi iconografici per avvallare quest'ultima identificazione. Il ragazzo dall'aspetto efebico potrebbe essere quindi Ganimede, il bel giovane di cui si era invaghito Giove che, in forma d'aquila, lo rapì portandolo sull'Olimpo e affiancandolo ad ebe come coppiere degli Dei.

 

d) Pittore senese, metà sec. XVIII

RITRATTO DI AMBROGIO DOMENICO DI GIOVANNI SANSEDONI

olio su tela, cm 99x76 senza cornice

al recto sulla lettera iscritto "A dì 13 Maggio 1757 / Si concede licenza alla M.R. Suor Trafissa/.."; sul retro iscritto "AMBROGIO / DI GIOVANNI SANSEDONI / NATO IL 23. 7BRE J674 / ELETTO TES.RE DELLA METROPOL.NA / IL J5 APLE J710 / MORTO IL 30 APLE J757"

 

L'importanza storica di questo dipinto si deve all'effigiato Ambrogio Domenico di Giovanni Sansedoni, eminente membro della famiglia che, come altri quattro rappresentanti della stessa, ricoprì l'incarico di tesoriere del Duomo di Siena.

 

e) Pittore senese, sec. XVII

RITRATTO DI GIULIO DI ALESSANDRO SANSEDONI

olio su tela, cm 98x77

sul retro della tela cartiglio con lunga iscrizione a penna che ricorda i fatti della vita dell'effigiato morto nel 1621; sul retro del telaio iscritto "Salone Terreno n. 7"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., p. 485

 

Il dipinto è citato nell'inventario del 1773: "Un quadro di b. uno circa con cornici gialle e dorate rappresentante il ritratto di Mons. Giulio Sansedoni Vescovo di Grosseto opera di buon pennello". Giulio di Alessandro Sansedoni viene raffigurato con la berretta e con in mano la biografia del Beato Ambrogio Sansedoni da lui scritta nel 1611. Nel 1606 fu nominato vescovo di Grosseto da Paolo V Borghese e dopo cinque anni preferì tornare a Roma e affiancare Filippo Neri nelle opere di carità, vivendo in ascetica povertà.

 

f) Pittore senese, sec. XVII

RITRATTO DI ALESSANDRO SANSEDONI CANONICO DEL DUOMO

olio su tela, cm 77,5x59

sul retro del telaio iscritto "Sala da pranzo n.1"

 

Il prelato ritratto è Alessandro di Ambrogio Leonardo Sansedoni, vissuto tra il 1638 e il 1710 che fu nominato Tesoriere della Metropolitana nel 1656.

 

g) Pittore toscano, fine sec. XVII

RITRATTO DI GIOVANE UOMO

olio su tela, cm 80x60 senza cornice

h) Pittore senese, inizi sec. XVIII

RITRATTO DI ORAZIO GIUSEPPE DI GIOVANNI SANSEDONI

olio su tela, cm 97x83

sul retro iscritto: "CAVRE ORAZIO GIUSEPPE DI GIO.VANNI SANSEDONI NATO IL J0 9BRE 1680 A SIENA (?) IL (?) SI PORTO' A MALTA PAGGIO DELL'ELMO GRAN MAESTRO"; sul retro del telaio iscritto "corridoio II P" e numero "3"

 

Il presente ritratto riveste notevole importanza storico documentaria in quanto ritrae Orazio Giuseppe, cavaliere gerosolimitano vissuto tra il 1680 e il 1751.

 

i) Seguace di Francesco Rustici detto il Rustichino, sec. XVII

LA MADDALENA CONFORTATA DAGLI ANGELI

olio su tela, cm 106x81

sul retro iscritto "DEL RUSTICHINO"; sul retro del telaio iscritto "Salotto celeste 23"

 

Bibliografia: L. Bonelli, op. cit., p. 483

 

Il dipinto è citato nell'inventario del 1773: "Un quadro grande con cornici intagliate e dorate rappresentante S.ta Maria maddalena co vari angeli opera del Rustichino". La tela costituisce una derivazione dal dipinto di Rustici conservato in collezione privata fiorentina, distinguendosi da questa per la variante nella posa delle mani della santa.

 

l) Seguace di Domenico Beccafumi, sec. XVII

SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNI E IL BEATO GIOVANNI COLOMBINI                            

olio su tela, cm 88x76

sul retro del telaio iscritto "CA del padrone n. 8" e "Camera Rossa n.2"

 

La presente tela costituisce una derivazione del dipinto di Beccafumi conservato presso il Museo Horne di Firenze, probabilmente realizzata da un pittore senese che risentì del luminismo di Rutilio Manetti.

 

m) Scuola bolognese, sec. XVII

Stima   € 35.000 / 40.000
Aggiudicazione  Registrazione
94

Fabrizio Boschi

(Firenze 1572-1642)

CRISTO SPOGLIATO DELLE VESTI

olio su tela, cm 187x112

 

Esposizioni: Fabrizio Boschi, pittore di “belle idee” e di “nobiltà di maniera”. Firenze, Casa Buonarroti, 26 luglio – 13 novembre 2006, n.8.

 

Bibliografia: R. Spinelli, Fabrizio Boschi (1572-1642) pittore barocco di "belle idee" e di "nobilità di maniera", catalogo della mostra, Firenze 2006, pp. 78-79, n.8

 

Reso noto da Riccardo Spinelli in occasione dell’ esposizione monografica dedicata al pittore fiorentino, il dipinto qui offerto è stato datato dallo studioso intorno alla metà del primo decennio del Seicento, e posto in relazione, per quanto ipotetica, con un passo di Filippo Baldinucci che, nella “vita” di Fabrizio Boschi, citava una serie di tele da lui eseguite dedicate ai diversi episodi della Passione.

Come riferito oralmente da Carlo Del Bravo, cui si deve l’attribuzione, il presente dipinto era un tempo in serie con un Cristo alla colonna siglato, comparso sul mercato antiquario negli anni Settanta, che della tela qui offerta costituiva per l’appunto l’immediata prosecuzione sotto il profilo narrativo. Il nostro dipinto mostra infatti un episodio raramente, o forse mai proposto  in queste dimensioni dalla pittura seicentesca, Gesù Cristo spogliato in vista appunto della sua flagellazione: e una scelta così inconsueta e specifica rafforza senz’altro l’ipotesi di appartenenza a un ciclo dedicato alla Passione, quasi si trattasse della versione ingrandita della serie dei Misteri Dolorosi.

Con una partecipazione emotiva in qualche modo eccezionale a Firenze, e un pathos che richiama piuttosto la devozione dei pittori lombardi di primo Seicento, Fabrizio Boschi sottolinea il contrasto tra il volto dolente del Cristo e le fisionomie caricate e quasi bestiali dei suoi tormentatori, il pallore della sua figura emaciata e il bagliore rosato della veste sfilata con prepotenza. La drammaticità della scena è dunque il principale motivo dell’abbandono, da parte del Boschi, dei colori squillanti e degli accordi raffinati che solitamente lo distinguono. Anche in questo senso, i confronti più convincenti devono stabilirsi con la nota pala nella Certosa di Galluzzo, che in modo altrettanto drammatico raffigura la separazione dei Santi Pietro e Paolo, avviati ai rispettivi martiri. La data del 1606 documentata per questo dipinto può quindi senza dubbio valere quale riferimento cronologico per il nostro.

 

Stima   € 30.000 / 40.000
7

Maestro di San Lucchese

(attivo a Firenze dal quinto all'ottavo decennio del XIV secolo)

MADONNA COL BAMBINO IN TRONO E SANTI

tempera su tavola fondo oro cuspidata, cm 61,5x23,5

sul gradino iscrizione "AVE MARIA GRATIA PLENA DOMINUS"

 

La preziosa anconetta qui presentata costituisce un'importante aggiunta al corpus delle opere del Maestro di San Lucchese, maestro attivo dal quinto all'ottavo decennio del Trecento, così denominato dal grande polittico con al centro l'Incoronazione della Vergine con sei angeli e i santi Zanobi, Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco, che fu eseguito per l'altare maggiore della chiesa di San Lucchese a Poggibonsi (Siena), distrutto durante la seconda guerra mondiale nel 1944.

Dell'attività di questo maestro, di cui non si hanno notizie documentarie, si sono occupati vari studiosi tra cui Richard Offner, Federico Zeri, Miklós Boskovits e Carlo Volpe. Formatosi presumibilmente presso la bottega di Maso di Banco, l'anonimo artista, derivò dal maestro alcuni caratteri quali l'organizzazione lucida dell'impianto compositivo e la luminosità del colore, tanto che ad oggi alcune opere già ascritte a Maso sono state ricondotte alla sua mano. Il legame con taluni aspetti dell'arte di Giotto si ravvisano in particolare nella solenne umanità dei personaggi, nella resa pienamente conclusa del profilo e nella salda impostazione compositiva che consentiva all'artista di fondere in una rigorosa organizzazione spaziale anche i particolari più preziosi e minuziosamente descritti.

Tali aspetti si riscontrano anche nella tavola qui proposta che a causa del piccolo formato, nasceva come anconetta per la devozione privata. La nostra tavoletta rappresenta al centro la solida figura della Vergine con il Bambino, ai lati San Giacomo (?) e San Pietro, in basso da sinistra San Benedetto, Santa Caterina d'Alessandria, Maria Maddalena (?) e un Santo vescovo. Interessante il confronto, per la simile composizione e per lo stesso formato cuspidato, con la tavoletta raffigurante Madonna con Bambino e santi del Fine Arts Museums of San Francisco, databile tra 1350 e 1360, nella quale si riscontra un simile ricorso a stoffe riccamente decorate e a motivi geometrici per il basamento del trono.

Nel percorso artistico del Maestro di San Lucchese sono stati inoltre riscontrati accostamenti all'arte di Nardo di Cione e di Giottino e nell'ultimo periodo un forte inasprimento del chiaroscuro con esiti non lontani da quelli rilevabili nella produzione coeva di Jacopo di Cione.

 

Bibliografia di confronto: B. Berenson, Quadri senza Casa: Il Trecento Fiorentino, in Dedalo, XI, Novembre, 1931, pp. 1291, 1297; R. Offner, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting, III, V, New York 1947, p. 212, n. 1; M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370-1400, Firenze 1975, p. 200 nota 87

Stima   € 30.000 / 40.000
25

Santi di Tito

(Borgo San Sepolcro 1536-Firenze 1603)

RITRATTO DI EMILIA, FIGLIA DI NICCOLO' DI SINIBALDO GADDI

olio su tavola, cm 61x43,5

al recto iscritto "EMILIA FIGA DI NICO DI SINIBALDO GADDI"

 

Provenienza: Colnaghi, Londra, 7 giugno-7 luglio 1978, n. 14;

asta Christie's Londra, 11 dicembre 1987, lotto 123;

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia: Important Old master pictures, Christies's, London 11 december 1987, p. 168 n. 123;  D. Frescobaldi, F. Solinas, I Frescobaldi. Una famiglia fiorentina, Firenze 2004, pp. 309-310, fig. 1 (scheda a cura di F. Solinas); N. Bastogi, Due ritratti femminili di Santi di Tito, in "Paragone", Firenze 2009, 60, pp. 58-66, cit. p. 62 e nota 23 p. 66; Old Master Paintings from the collection of Saam and Lily Nijstad, Sotheby's, New York 6 July 2011, pp. 22, 24 fig. 2; Old Master & British Paintings Evening Sale Including Three Renaissance Masterworks from Chatsworth, Sotheby's 5 december 2012, London, (pubblicato come confronto al lotto 18, fig. 2, nota 9);

 

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0390, scheda 37480, inv. 84749 (come Anonimo fiorentino, sec. XVI)

 

L'importante tavola qui proposta raffigurante il Ritratto di Emilia, figlia di Niccolò di Sinibaldo Gaddi è apparsa nel 1978 sul mercato londinese (Colnaghi's Paintings by Old Masters) insieme a quella raffigurante il fratellino Sinibaldo, presentato sempre in questa sede nel lotto successivo.

A partire da Francesco Solinas (2004) la nostra opera (che veniva riferita insieme al pendant raffigurante Sinibaldo alla mano di Santi di Tito in collaborazione con il figlio Tiberio) venne messa in relazione con il dipinto raffigurante la medesima effigiata a figura intera ma ambientata nel giardino del palazzo di famiglia, circondata da piante, una spalliera di agrumi, due busti antichi, architetture e sullo sfondo il campanile di Santa Maria Novella (chiesa di famiglia), mentre nutre un pappagallo. Tale dipinto (già collezione privata svizzera), recentemente passato in un’asta Sotheby’s di New York nel 2011, lotto 6, come Ritratto di Lucrezia, figlia di Niccolò di Sinibaldo Gaddi, veniva messo in relazione alla nostra tavola, che costituisce un’altra versione a mezzo busto della stessa effigiata. La bambina ritorna infatti pressochè identica: vestita con il medesimo abito decorato d’oro e con la stessa collana e acconciatura, a variare, come già indicato, il formato e l’ambientazione. Nell’elegante versione qui proposta infatti la piccola viene rappresentata in un interno, intenta a versare acqua all’interno di un vaso di fiori e il suo alto rango sociale è testimoniato dalla ricchezza dei gioielli e dell’abito con gorgiera con cui viene rappresentata, secondo una moda che divenne popolare nella metà degli anni sessanta del Cinquecento. L’identificazione della giovane si basava suoi precedenti contributi di Cristina De Benedictis (cfr: C. De Benedictis, Altari e committenza: episodi a Firenze nell'età della Controriforma, Firenze 1996, pp. 11-12 e p. 17, nota 12) che ne riconosceva la figlia primogenita di Niccolò Gaddi, nata nel 1559, raffigurata all'età di circa cinque anni probabilmente come ritratto postumo, a causa della presenza del funesto simbolo del topo delle piramidi e quindi realizzato forse in occasione del solenne completamento della cappella di famiglia costruita da Dosio nella quale la piccola Lucrezia fu tumulata nel 1577.

Il nostro dipinto riveste un ruolo significativo all’interno della produzione ritrattistica di Santi di Tito e può trovare un valido confronto con il Ritratto di gentildonna con la figlia, in collezione Koelliker, come già sottolineato da Nadia Bastogi (2009) che nel descrivere il ritratto Koelliker, messo in relazione con il nostro per stile ed esecuzione, sembra quasi illustrare la nostra tavola: “Peculiari del Titi sono i volti, costruiti su un impianto disegnativo limpido e sicuro che ne regolarizza i tratti in volumi di pacata e luminosa armonia riconducendo la connotazione fisionomica a un’idealizzazione di fondo decantata su illustri prototipi cinquecenteschi che conferisce nobiltà e bellezza alle figure, senza toglierne, tuttavia, la loro naturale e individuale esistenza nel tempo. A tale carattere contribuisce anche l’esecuzione pittorica riposata e smaltata, con epidermidi levigate dalla pittura di ‘valori’ del Bronzino, a cui Santi si era avvicinato negli anni giovanili, anche se virata su toni rosati di naturalistico effetto, resa con impasti più morbidi e caldi (…). La fonte di luce proveniente da sinistra consente al pittore di annotarne gli effetti nel riflesso sulla fronte della bimba, nella lucente vivacità delle sue pupille e nell’ombra portata della testa, mentre a destra lo schiarimento del fondo, tipico dei ritratti del Titi, esalta la profondità del dipinto”.

Grazie inoltre alle stringenti affinità con alcune teste di fanciulli disegnate dal naturale da Santi nell’ottavo decennio del Cinquecento, unite alla data di morte della piccola Gaddi del 1577, è probabile che la nostra tavola, come il doppio ritratto Koelliker, possa essere datato alla fine degli anni settanta.

Stima   € 25.000 / 35.000
Aggiudicazione  Registrazione
39
Scuola tedesca, secc. XV-XVI
SANT'ANTONIO ABATE
SAN SEBASTIANO
coppia di dipinti ad olio su tavola parchettata, cm 78x36 ciascuno
(2)
 
I due dipinti qui presentati sono stilisticamente riconducibili alla scuola renana di Colonia che fu, nella seconda metà  del secolo XV, costituita da artisti, seppur anonimi, di grande levatura, come il ‘Maestro delle Leggenda di S. Giorgio’ o il ‘Maestro della Vita di Maria’, influenzati, come l'autore del nostro dipinto dalla vicina pittura fiamminga.
Nelle due tavole, probabilmente parti di un polittico o di un complesso di più ampie dimensioni, vengono raffigurati due importanti santi taumaturghi: Sant'Antonio, identificabile grazie ai braceri, e probabilmente San Sebastiano. La raffigurazione di San Sebastiano come  giovane  elegantemente vestito con arco e frecce, invece della più consueta raffigurazione di giovane nudo trafitto dalle frecce, risulta relativamente insolita anche se non isolata. Nelle rappresentazioni dell'arte tedesca di questo periodo si ritrova infatti raffigurato più volte in questo modo come ad esempio nelle vetrate dell'Abbazia di San Pietro di Salisburgo e in quelle della Basilica di San Severino a Colonia. Anche nella produzione pittorica della scuola renana si possono trovare ulteriori termini di confronto per tale rappresentazione come in un dipinto della scuola di Colonia del Museo di Berlino (inv. M.33A), in una simile raffigurazione nella chiesa di Mending, databile nella seconda metà del Quattrocento, in un polittico del ‘Maestro della Sacra Parentela’ databile  circa 1493-94 del Museo Walraf-Richartz, inv. 0161, e infine in un polittico in San Maria in Campidoglio a Colonia della seconda metà del secolo XV.
Stima   € 25.000 / 35.000
76

Francesco Montelatici detto Cecco Bravo

(Firenze 1601-Innsbruck 1661)

FIGURA VIRILE CON NATURA MORTA ESTIVA IN UN PAESAGGIO

olio su tela, cm 98x140

 

Bibliografia: M. Gregori, Appunti su Cecco Bravo, in “Comma” VI, 1970, 4, p. 10 e fig. a p. 7; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 115; A. Barsanti, Cecco Bravo (Francesco Montelatici), in La natura morta in Italia, a cura di Francesco Porzio, II, Milano 1989, p. 577 fig. 686; Cecco Bravo pittore senza regola. Firenze 1601-Innasbruck 1661, catalogo della mostra a cura di Anna Barsanti e Roberto Contini, Milano 1999, p. 74 fig. b

 

Pubblicato da Mina Gregori in un suo precoce intervento sul pittore fiorentino, il dipinto qui offerto è stato poi riconosciuto da Anna Barsanti come pendant della Figura femminile con natura morta autunnale resa nota indipendentemente da Carlo Del Bravo nel 1971 (Un’osservazione su inediti secenteschi, in “Antichità Viva” 10, 1971, 5, pp. 22-23, fig. 6).

Il recente passaggio in asta del dipinto citato in questa stessa sede  (26 novembre 2014, lotto 60) ha poi offerto l’opportunità di verificare la proposta della studiosa, e di confermare la coppia di tele all’esiguo catalogo di Cecco Bravo pittore di natura morta.

Come già evidenziato dagli studi fiorentini, i modelli compositivi per queste invenzioni in cui elementi di “natura in posa”, disposti in apparente disordine su un piano all’aperto, sono  accompagnati da una figura vista a metà sullo sfondo di cielo trovano un precedente nelle composizioni di Giovanni Pini (documentato a Firenze nei primi anni Trenta), un nome senza dubbio più pertinente di quello del romano Michelangelo Cerquozzi, talvolta chiamato in causa sebbene mosso da intenzioni naturalistiche e narrative del tutto diverse.

Omaggio raffinato al gusto per l’allegoria che pervade la cultura del Barocco, la coppia di nature morte ricomposta dalla Barsanti sembrerebbe databile al sesto decennio del secolo in virtù dei colori intensi e bruniti che le caratterizzano, interrotti dalle pennellate spumeggianti dei toni più chiari. Precedono quindi di poco il trasferimento dell’artista fiorentino alla corte dei Duchi del Tirolo nel 1660, dove egli morì l’anno successivo lasciando, segno del suo approccio eclettico alla pittura, ritratti di corte e una raffigurazione dell’Aurora.

 

Stima   € 25.000 / 35.000
88

Pier Dandini

(Firenze 1646-1712)

ERMINIA E I PASTORI

olio su tela, cm 122x173

 

Opera notificata con decreto del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, Firenze, 4 luglio 1991

 

Bibliografia: S. Bellesi, Ottaviano Dandini o l’epilogo di una dinastia di pittori fiorentini, in Paragone, 51, 33/34, 2001, pp. 87-118, cit. p. 88; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009, p. 286 (non riprodotto)

 

Il dipinto qui presentato fu ricondotto alla mano di Pier Dandini da Bruno Santi che nella relazione storico-artistica del decreto ministeriale ne evidenziava  il modo franco e veloce della tecnica pittorica e le fisionomie tondeggianti.

Il soggetto della tela, tratto da un episodio di Torquato Tasso della Gerusalemme Liberata (VII, 5-7), che ebbe ampia diffusione nella pittura italiana del Seicento, viene utilizzato dal pittore, che rappresenta la figura di Erminia con elmo, corazza e scudo da un lato e dall'altro il gruppo dei pastori, per effigiare alcuni membri della sua famiglia quasi come una sorta di "ritratto di famiglia".

Tale importanza del dipinto grazie alla presenza di questi ritratti è stata messa in luce da Sandro Bellesi in un contibuto sul pittore Ottaviano Dandini, figlio primogenito del pittore e di Maria Brigida Ciocchi nato nel 1681. L'unica effige dell'artista in età adolescenziale è da riconoscersi infatti nel nostro dipinto, eseguito all'inizio degli anni novanta, in cui il grazie al supporto di documenti d'archivio e fonti bibliografiche, è stato identificato con il giovane con mandolino. Al centro i ritratti di Piero e della moglie Brigida, nella bimba con tamburello è stata riconosciuta la sorella Anna Maria mentre più incerto appare il riconoscimento del bambino più piccolo con il con il piffero, raffigurante il figlio Valentino o Vincenzo nati rispettivamente nel  1684 e nel 1686.

 

 

Stima   € 22.000 / 28.000
Aggiudicazione  Registrazione
43

Jacob van de Kerckhoven

(Anversa 1636-Venezia 1712)

NATURA MORTA CON CESTO DI PESCI, CACCIAGIONE, FAGIANO E TESTA DI CINGHIALE                   

NATURA MORTA CON VOLATILI E LEPRE

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 87x106 ciascuno entro antiche ed eleganti cornici in legno intagliato a motivo di foglie e mascherone in basso al centro

(2)

 

Corredato da parere scritto di Daniele Benati, Bologna, 20 febbraio 2015

 

I due dipinti, racchiusi entro eleganti cornici intagliate in legno di cirmolo del XVII secolo, propongono sontuose raffigurazioni di cacciagione ambientate sulla nuda terra contro un fondo scuro. L'inquadratura fortemente ravvicinata consente al pittore di indagare il pellame degli animali uccisi: il vello ispido della testa del cinghiale, le penne multicolori delle beccacce e dei germani, le squame dei pesci. La presenza delle ceste e, nel primo dei due dipinti, delle verdure alludono altresì all'imbandigione di cui i frutti della caccia e della pesca saranno fatti oggetto sulla tavola del padrone di casa, secondo un significato di abbondanza e di liberalità che nella natura morta nordica si sostituisce assai presto a quello di Vanitas, presente nei più antichi esemplari di questo genere pittorico.

L'autore del bellissimo pendant si riconosce del resto in modo del tutto piano in Jakob van der Kerkhoven, un artista allievo ad Anversa di Jan Fyt che già nel 1663 risulta trasferito a venezia, dove il suo cognome viene italianizzato in Giacomo da Castello o, meno frequentemente ma più propriamente, Giacomo del Cimitero (tale è infatti il significato di Kerkhoven in lingua fiamminga). Malnoto fino a tempi recenti, l'artista è andato via via assumendo nel campo degli studi un rilievo sempre maggiore, grazie non soltanto ai numerosi dipinti che la critica ha potuto aggiungere ai pochi esemplari firmati, ma anche alle notizie che lo dicono a sua volta maestro di Giovanni Agostino Cassana. Forte della lezione appresa da Fyt, egli dovette di fatto imporsi ben presto in abito veneto, soddisfacendo una richiesta che attribuiva sempre maggiore importanza alla natura morta. Gli inventari sei-settecenteschi testimoniano di fatto una massiccia presenza di suoi dipinti nelle quadrerie dell'aristocrazia veneziana, per la quale il genere della cacciagione doveva costituire un'indubbia novità a fronte delle composizioni di fiori e frutta sino ad allora proposti da Bernardo Strozzi e dai suoi imitatori.

in tale veste Jakob van der Kerkhoven giunge a intervenire anche entro opere di importanti pittori di figura, se ho ragione nell riferirgli gli inserti di frutta e cacciagione della ben nota tela con Una donna che batte due cani di Guido Cagnacci, ora conservata nella collezione Borromeo all'Isola Bella (D. Benati, in Guido Cagnacci, a cura di D. Benati e M. Bona Castellotti, catalogo della mostra di Rimini, Milano 1993, pp. 152-155 n. 36). Poichè quest'ultimo dipinto deve datarsi nel corso degli anni cinquanta, quando Cagnacci lavora appunto a Venezia, il riconoscimento al suo interno della mano di van der Kerkhoven, appoggiato a una Natura morta con cacciagione firmata e datata 1661 passata anni fa sul mercato internazionale (Christie's, Londra, 25 ottobre 1985, n. 35: ripr. in E. Safarik, La natura morta nel Veneto, in La natura morta in Italia, a cura di F. Zeri, I, Milano 1989, I, fig. 422), consente altresì di anticipare di qualche tempo la data dell'arivo a Venezia del pittore anversano rispetto al 1663, in cui vi è sicuramente documentato.

Il confronto con quel dipinto risulta altresì stringente al fine di convalidare anche l'attribuzione del pendant in esame, giacchè assai simile vi appare la definizione ispida del pelame della testa del cinghiale (una costante desunta da Fyt), nonchè l'attenta resa del piumaggio dei volatili. Un altro dipinto dal confronto col quale la paternità di Jacob van der Kerkhoven viene ulteriormente consolidata è la Natura morta con cacciagione, ortaggi e testa di cinghiale conservata nella residenza di Argory a Dungannon nella contea di Tyrone nell'Irlanda del nord, già di proprietà della famiglia MacGeough Bond ed ora del National Trust: la testa di cinghiale vi compare prssochè sovrapponibile a quella effigiata nel primo dei due dipinti qui esaminati, a dimostrazione del fatto che van der Kerkhoven, come altri specialisti di natura morta, soleva ricorrere a un repertorio di studi effettuati sul vero al quale attingere nella confezione dei propri quadri. Assai simile è ancora la lepre in una Natura morta con cacciagione e ortaggi presentata di recente in vendita da Christie's (Amsterdam, 21 giugno 2011, n. 314).

Per la loro ragguardevole qualità, i dipinti in esame, contraddistinti anche da un ottimo stato di conservazione, sono destinati ad assumere un ruolo importante nel tuttora non ricchissimo catalogo dell'artista anversano, tanto che mi riprometto di renderli io stesso noti in una auspicabilmente prossima occasione.

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
60

Jacopo Vignali

(Pratovecchio, Arezzo 1592 - Firenze 1664)

MADONNA CON BAMBINO IN UN PAESAGGIO

olio su tela, cm 98x79,5

 

Corredato da parere scritto di Francesca Baldassari, Firenze, 3 dicembre 2010

 

Nella bella tela, giunta fin qui inedita, è raffigurata la Vergine che tiene il Bambino in grembo e lo osserva giocare con la croce, simbolo del suo destino. La Madre e il Bambino sono delineati sullo sfondo di un rudere, dietro cui si apre un paesaggio che presenta fronde minute e particolareggiate. I caratteri fisionomici dei protagonisti, la stesura pittorica fluida e soffice, i colori vivaci e la resa del paesaggio, meditata sul Cigoli e su Cristofano Allori, consentono di riconoscere l'autore del dipinto in Jacopo Vignali, uno dei protagonisti della pittura fiorentina del Seicento.

L'influenza ancora predominante del maestro Matteo Rosselli, nella cui bottega fiorentina Jacopo era entrato verosimilmente nel 1614, anno del suo trasferimento dal Casentino al capoluogo mediceo, e le affinità stilistiche con il condiscepolo Lorenzo Lippi consentono di proporre una datazione della tela in esame nella prima attività della lunga e proficua carriera dell'artista.

All'interno del catalogo pittorico di Vignali, il dipinto offre i confronti più significativi con il Battesimo di Cristo già nella collezione Bigongiari a Firenze e oggi presso la Caripit di Pistoia, documentato nel 1627, anno in cui il pittore ricevette il saldo da Giovanni Battista Strozzi per la pala, destinata alla cappella della villa al Boschetto, nel popolo di San Pietro in Monticelli, nei dintorni fiorentini. I tratti teneri e addolciti della Vergine sono simili a quelli adoperati per il Cristo del Battesimo oggi a Pistoia, mentre il volto paffuto, con il nasino appuntito, del Bambino, è ripetuto negli angeli in volo che recano i fiori. Il tono sentimentale sereno della tela corrisponde a quello che caratterizza la produzione di Vignali del secondo decennio del Seicento, prima che la terribile peste fiorentina del 1630 facesse assumere alla sua pittura un timbro più dolente e drammatico.

Queste considerazioni stilistiche inducono a collocare la Madonna con il Bambino intorno alla metà del secondo decennio.

Il formato e il soggetto dell'opera indicano una destinazione alla devozione privata che attualmente sfugge, considerata anche l'assenza di un dipinto con questo tema nella preziosa biografia antica, l'unica disponibile sul pittore, scritta nel 1753 dall'erudito Sebastiano Benedetto Bartolozzi che ebbe l'opportunità di sfogliare il registro di bottega, oggi disperso, di Vignali.

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
26

Santi di Tito

(Borgo San sepolcro 1536-Firenze 1603)

RITRATTO DI SINIBALDO, FIGLIO DI NICCOLO' DI SINIBALDO GADDI

olio su tavola, cm 61x43

al recto iscritto "SINIBALDO DI NIC: DI SINIBALDO GADDI"

sul retro iscrizione a bistro non più leggibile

 

Provenienza: Colnaghi, Londra, 7 giugno-7 luglio 1978, n. 14;

asta Christie's Londra, 11 dicembre 1987, lotto 124;

collezione privata, Firenze

 

Bibliografia: Important Old master pictures, Christies's, London 11 december 1987, p. 168 n. 124;  D. Frescobaldi, F. Solinas, I Frescobaldi. Una famiglia fiorentina, Firenze 2004, pp. 309-310, fig. 2 (scheda a cura di F. Solinas); N. Bastogi, Due ritratti femminili di Santi di Tito, in "Paragone", Firenze 2009, 60, pp. 58-66, cit. p. 62 e nota 23 p. 66; Old Master Paintings from the collection of Saam and Lily Nijstad, Sotheby's, New York 6 July 2011, pp. 22, 24 fig. 1; Old Master & British Paintings Evening Sale Including Three Renaissance Masterworks from Chatsworth, Sotheby's 5 december 2012, London, (pubblicato come confronto al lotto 18, fig. 1, nota 8);

 

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0390, scheda 37481, inv. 84748 (come Anonimo fiorentino, sec. XVI)

 

La tavola qui illustrata, pendant del lotto precedente raffigurante il Ritratto di Emilia, figlia di Niccolò di Sinibaldo Gaddi, rappresenta come indicato anche nell’iscrizione al recto del dipinto il piccolo Sinibaldo, fratello di Emilia.

Nonostante la tenera età l’effigiato viene rappresentato dall’artista con una sorta di atteggiamento regale ravvisabile nel modo di appoggiarsi alla sedia e per il piglio con cui impugna il prezioso sonaglio, aspetto reso ancora più evidente dall’ambientazione raccolta del dipinto.

La produzione ritrattistica all’interno della bottega di Santi di Tito fu di grande importanza come dimostra l’inventario dello studio del pittore redatto alla sua morte, dove compaiono numerosissimi ritratti. “Tale produzione, che corse in parallelo con la realizzazione delle opere sacre, riscosse grande consenso tra i contemporanei per le novità introdotte, avendo rinnovato a Firenze il genere rispetto alle più algide e idealizzate interpretazioni di stampo ancora bronzinesco di Alessandro Allori e degli epigoni del tardo manierismo e interpretando l’etica e il decoro controriformistici”. Il Baldinucci scrive come Santi avesse “gran genio a’ ritratti de’ quali non lasciava passare occasione che egli non accettasse”, facendone una delle principali attività della sua bottega, e sottolineando come “possedendo una istraordinaria sicurezza nel disegno, gli conducea con gran facilità e somigliantissimi dal vivo”.

Anche il presente ritratto, databile come il precedente al terzo quarto del XVI secolo, è stato pubblicato da Francesco Solinas (2004) con un riferimento di attribuzione a Santi di Tito in collaborazione con il figlio Tiberio, ricollegandosi probabilmente alla pratica del pittore, ben illustrata da Nadia Bastogi (2009, p. 60) la quale indicava “come la capacità dell’artista acquisita attraverso l’intensa pratica del disegno dal naturale, di delineare graficamente e abbozzare i dipinti in molti casi direttamente sulla tela in presenza del modello lasciando a stadi successivi svolti nella bottega la rifinitura dell’opera”. Tale vasta produzione, facilitata dalla capacità di Santi di Tito di soddisfare le richieste della committenza, comportò l’elaborazione di schemi e modelli con il contributo a volte determinante degli allievi a cui veniva affidata prevalentemente l’esecuzione dei vestiti e degli sfondi, riservandosi il maestro le parti di maggior importanza come testa e mani.

 

 

 

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
32

Francesco Curradi

(Firenze 1570-1661)

LOTH E LE FIGLIE

olio su tela, cm 179x200,5 entro cornice coeva a foglia d'oro, intagliata a motivi classici e finemente incisa nella fascia con decorazione a foglie

 

Provenienza: collezione privata, Siena

 

Raro soggetto vetero-testamentario di Francesco Curradi, l’inedito dipinto qui offerto va riferito a una fase relativamente avanzata nell’attività dell’artista fiorentino, come suggerisce la sobria gamma cromatica e l’accentuazione dei contrasti chiaroscurali, sia pure all’interno di una cifra stilistica che, maturata nei primi anni del secolo grazie all’esempio del Passignano e del Bilivert, rimase sostanzialmente invariata nel corso della sua lunga e fortunata carriera.

Quasi superfluo il confronto con altre opere del Curradi: simili alla maggior parte di quelle da tempo note sono infatti le figure dei nostri protagonisti, regolari nei tratti e pacate nei gesti, panneggiate in vesti sobrie e appena scomposte, quasi a malincuore e, beninteso, per pura esigenza di racconto.

Confronti specifici sono possibili, in ogni caso, con il dipinto nella collezione dei marchesi  Pucci pubblicato da Giuseppe Cantelli (Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, fig. 205) che, per rappresentare la fuga di Lot da Sodoma, costituisce un ideale (e forse effettivo) “primo tempo” dell’episodio qui presentato, momento successivo del racconto vetero-testamentario. L’inventario di Ottavio Pucci del 1718 ricorda peraltro in collezione un Lot e le le figlie, quadro grande del Curradi, compagno di una Betsabea del Bilivert, non finita, entrambi completati da cornici arabescate d’oro (The Getty Provenance Index): un referto che, per quanto riguarda l’enunciazione del soggetto, sembrerebbe riguardare il nostro quadro ancor più di quello più sopra citato.

Ulteriori confronti sono possibili con le figure degli astanti nella pala con la Predica del Battista nella chiesa di Santa Trinita, datata del 1649: anche in quel caso si ravvisa infatti quella stilizzazione classicheggiante dei volti femminili comune anche all’opera coeva del collega Ottavio Vannini. L'opera trova raffronti altresì con altri dipinti dell'artista quali Rachele al pozzo, Galleria Palatina di Firenze e con l'Artemisia, già Depositi delle Gallerie Fiorentine, oggi conservato presso Villa La Petraia, Firenze.

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
18

Maestro di Serumido
(attivo a Firenze nella prima metà del secolo XVI)
LAOOCONTE
olio su tavola parchettata, cm 59x45,5
sul retro etichetta dell'esposizione del British Council. 16th Council of Europe Exhibition Florence 1980

Provenienza: già collezione A. Scharf, Londra;
collezione privata, Firenze

 

Esposizioni: Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento. Il Primato del Disegno, Firenze, 1980, n. 294.

Bibliografia: A. Scharf, Filippino Lippi, 1950, p. 57, tav. 139; F. Zeri, Eccentrici fiorentini II, in “Bollettino d'arte”, 1962, pp. 321-22, fig. 16; S. Meloni Trkulja, in Il Primato del Disegno. Catalogo della mostra, Firenze 1980, p. 139, n. 294

Referenze fotografiche: Fototeca Zeri, Bologna, busta 0381, scheda 34817, inv. 82877

 

Identificato per la prima volta da Federico Zeri tra i “collaterali” dell’eccentrico fiorentino per eccellenza, Filippino Lippi, l’anonimo maestro trae il suo nome dalla Madonna col Bambino, due angeli e quattro santi della chiesa di Serumido a Firenze. Oltre ad alcune tavole di soggetto sacro, il pittore si specializzò in composizioni di soggetto storico, letterario o mitologico tutte ambientate in scenari architettonici disegnati con rigorosissimi e quasi ostentati principi prospettici. Le scene figurate che animano questa sorta di teatrini ripetono spesso invenzioni di Filippino Lippi, di cui il maestro fu certo aiuto. Anche nella tavola qui presentata, la scena deriva da un affresco di Filippino, ormai guastassimo, nella villa medicea di Poggio a Caiano. Tipica del pittore è la gamma cromatica fredda e squillante, che accosta le sue opere a quelle di Francesco Granacci e di Francesco Foschi, a cui era attribuita la nostra tavola nella collezione Scharf.

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
63

Pittore veneto, sec. XVII

IL SACRIFICIO D'ISACCO

olio su tela, cm 173x122, entro cornice riccamente scolpita e dorata

 

Provenienza: probabilmente già collezione Orsetti, Lucca;

collezione Cittadella, Lucca;

collezione privata, Lucca

 

La prestigiosa provenienza dell'opera è documentata dall'inventario per successione ereditaria della famiglia Cittadella redatto ai primi dell’Ottocento dai pittori lucchesi Pietro Nocchi, Raffaele Giovanetti e Michele Ridolfi dove il dipinto è ricordato  con la seguente descrizione: “Il Sacrificio di Abramo Del Palma vecchio 25/ 50 zecchini

 

L'opera, collocabile nell'ambiente artistico veneto, è stata studiata da Patrizia Giusti Maccari alla quale si deve l'attribuzione al pittore veneto Girolamo Forabosco (Venezia 1605 - Padova 1679) in una circostanziata e dettaglia scheda critica redatta in data 3 giugno 2007 della quale riportiamo alcuni passi salienti:

 

“L'attribuzione a Palma il Vecchio di questo Sacrificio di Isacco, formulata nella prima metà dell'Ottocento da Pietro Nocchi, Raffaele Giovannetti e Michele Ridolfi, per quanto poi rivelatasi imprecisa in riferimento all'identità del suo autore e alla  cronologia d'esecuzione, non risulta del tutto fuorviante, costituendo, anzi, un punto di riferimento importante per la definizione della sua corretta paternità. […]

Il dipinto è da intendersi come significativa e qualificante espressione di quella corrente pittorica che a Venezia, nella prima metà del Seicento, riscopre e ripropone formule, cifre compositive e tonalità cromatiche cinquecentesche, ponendosi in alternativa a quella cosiddetta ‘tenebrosa’, frutto dell’ondata naturalistica, postcaravaggesca irradiatasi da Roma. Uno dei più qualificati interpreti di tale corrente, volutamente arcaizzante, risulta essere Girolamo Forabosco (Venezia 1605-Padova 1679), cui deve essere assegnato il dipinto qui in esame. […]

Se il movimento rotatorio e lo scorcio da sotto in su impresso alle figure di Abramo e di Isacco sono di derivazione tardomanieristica, come quella muscolosa e quasi sovradimensionata del più anziano dei due, l’attenzione alla resa psicologica dell’affollarsi dei sentimenti che si palesa sui loro volti, la minuzia descrittiva dei particolari decorativi, anche dal punto di vista coloristico, dell’abbigliamento del patriarca, appartengono indubitabilmente alla metà del Seicento. L’accentuata, realistica puntigliosità nel rappresentare il volto di Abramo, caratterizzato dalla fitta rete di rughe che si dipana come una ragnatela intorno agli occhi, e dalla barba bianca, definita ricciolo per ricciolo, sono elementi che parimenti riconducono al Forabosco, noto e frequentemente impiegato proprio per la sua abilità ritrattistica, specialmente tra il 1630 e il 1650. Appare ugualmente consentaneo al linguaggio stilistico da lui messo a punto il volto di Isacco, per tipologia dei tratti fisionomici assai prossimo a quello di David nel dipinto ora presso il Museo di Vaduz. Il pietismo sentimentale che lo contraddistingue testimonia l’apertura al gusto classicista bolognese diffusosi a Venezia attorno al 1650 grazie alla presenza di Guido Cagnacci, gusto a cui anche il Forabosco si mostra sensibile.

Al momento si ignora quando il Sacrificio, che reca sul retro il numero 22 vergato con grafia antica, sia entrato a far parte della quadreria Cittadella. La bellissima cornice coeva che lo custodisce, pregevole esempio della capacità tecnica degli intagliatori e doratori lucchesi, testimonia dell’arrivo in loco della tela in epoca immediatamente posteriore alla sua realizzazione. Del resto, per motivi commerciali ed artistici i contatti tra le due Repubbliche aristocratiche erano più che frequenti. Non si esclude che l’opera possa essere appartenuta originariamente ai conti Orsetti, il cui palazzo di via Burlamacchi, completo degli arredi, era passato per via ereditaria a Chiara di Giuseppe Orsetti, moglie dal 1771 di Ferrante Cittadella.

A conclusione, per ribadire ancora come l’errore attributivo formulato da Nocchi, Giovannetti e Ridolfi sia ‘giustificato’, si riporta uno dei concetti espressi da Safarik sul Forabosco in un articolo apparso nel 1983 su “Arte Veneta”: ‘La morbida plasticità delle sue forme può far considerare un suo quadro come un Palma o un Lotto trasposto nel Seicento”.

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
15

Pittore emiliano, inizi sec. XVII

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO TRA SANTO STEFANO E SAN LORENZO

olio su tela, cm 86x62 senza cornice

al recto stemma di un cardinale della famiglia Colonna

 

Provenienza: collezione privata, Firenze

 

Perfetta espressione della pittura sacra controriformata, la paletta qui offerta ha il suo più evidente riferimento nelle opere devozionali di Scipione Pulzone che, quasi al pari dei ritratti, contribuirono alla sua reputazione presso la Curia romana e le corti d’Italia.

La figura della Vergine, e in particolare il suo capo amorevolmente inclinato verso il Bambino, appena velato da pieghe trasparenti costituisce infatti la citazione precisa di un tipo più volte impiegato dal pittore gaetano, a cominciare dall’Annunciazione del 1587 oggi a Capodimonte ma proveniente da una chiesa del suo paese natale, e replicato negli anni immediatamente successivi nella Sacra Famiglia della Galleria Borghese, e ancora nella Madonna col Bambino nel convento di San Carlo ai Catinari, del 1594. Varie copie coeve, a cominciare da una del 1590, e altre seicentesche danno conto del successo di quest’invenzione, soprattutto in Spagna oltre che in Italia centrale. Un dato, comunque, che costituisce un saldo post quem per il nostro dipinto.

Troppo generiche nella loro iconicità riformata le figure dei santi diaconi, che alla fine del secolo o agli inizi del nuovo troveremmo con pari frequenza a Roma o a Bologna, nell’ambiente di Bartolomeo Cesi, ad esempio nel San Lorenzo di raccolta privata pubblicato nel volume di Vera Fortunati sulla Pittura del Cinquecento a Bologna (II, p. 817), quasi intercambiabile col nostro.

Lo stemma cardinalizio con l’arme dei Colonna, infine, collega il dipinto alla committenza di quella famiglia e più precisamente a quella del cardinale Ascanio Colonna (1560-1608), figlio di Marcantonio II Colonna, non a caso ritratto a figura intera da Scipione Pulzone. Nell’inventario del suo erede universale, Marcantonio IV, morto nel 1611 a soli sedici anni, troviamo fra i pochi dipinti attribuiti una “Madonna che tiene nostro Signore in braccio” di Scipione Pulzone e, senza attribuzione, una “Madonna con Nostro Signore e due altre figure”. Indicazioni troppo generiche per identificare il presente dipinto, ma certo utili per circoscriverne l’esecuzione.

 

Stima   € 18.000 / 22.000
57

Alberto Carlieri

(Roma 1672 circa-post 1720)

PROSPETTIVA ARCHITETTONICA CON ROVINE ANTICHE E CORTEO DI PUTTI

olio su tela, cm 74x99

 

Nonostante la precoce ricognizione di Hermann Voss che già nel 1959 aveva reso noti i pochi dati biografici del pittore, così come li riportavano fonti coeve, e soprattutto pubblicato un dipinto firmato per esteso e datato da Roma nel 1707, ad esso accostandone altri per indubbie affinità di stile, la figura di Alberto Carlieri è stata “risuscitata” solo di recente, prevalentemente ad opera di David Marshall (The architectural piece in 1700: the paintings of Antonio Carlieri (1672 – c. 1720), pupil of Andrea Pozzo, in “Artibus et Historiae” 50, 2004, pp. 39-126) dopo che il suo pur nutrito catalogo era stato diviso tra nomi più illustri o quanto meno più noti.

Come già suggerito da Voss, ma in modo sempre più evidente nell’ultimo quarto del Novecento, le prospettive di Alberto Carlieri conservate in collezioni pubbliche e private tedesche o inglesi tendevano infatti a passare sotto i nomi di Giovanni Ghisolfi o del malnoto Domenico Roberti, mentre in Italia venivano quasi sempre attribuite a Gian Paolo Panini, e più precisamente al suo primo periodo.

Una volta chiarito l’equivoco grazie al ritrovamento di altre opere firmate, la fisionomia di Carlieri si è imposta con assoluta chiarezza come indipendente dal percorso paniniano, e invece legata agli esempi seicenteschi del tardo Viviano e di Nicolò Codazzi, oltre che del suo maestro, Fratel Pozzo, di cui tuttavia non sembra abbia proseguito l’attività di frescante.

Presente nelle più illustri quadrerie romane, a cominciare dalla collezione di Filippo II Colonna, da quelle dei Rospigliosi e del cardinal Valenti Gonzaga (non a caso protettore di Gian Paolo Panini) Carlieri elaborò ben presto modelli compositivi ben riconoscibili variandoli in funzione del formato, e un repertorio di soggetti ispirato alle Scritture e alla mitologia classica. Frequente il motivo di putti festanti che compare nel nostro dipinto, come pure il grande vaso (privo di riferimenti specifici all’antico) e l’abbondante vegetazione sullo sfondo. Fra i numerosi possibili confronti citiamo in particolare i dipinti nella Walters Art Gallery di Baltimora, già riconosciuti a Carlieri da Federico Zeri, e un dipinto passato a Londra da Sotheby’s (D.R. Marshall, 2004, cit., AC 50, fig. 63 e AC 43, fig. 68).

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
103

Viviano Codazzi (Taleggio, Bergamo 1606 circa-Roma 1670) e Michelangelo Cerquozzi (Roma 1602-1660)

ROVINE ROMANE CON ADORAZIONE DEI PASTORI

olio su tela, cm 72x56,5

Viviano Codazzi (Taleggio, Bergamo 1606 circa-Roma 1670) e Jan Miel (Beveren-Waes, Anversa 1599-Torino 1664)

VEDUTA DELL'ARCO DI TITO CON SOSTA DI CAVALIERI

olio su tela, cm 71x56

(2)

 

Provenienza: già collezione Buitoni, Perugia;

collezione privata, Livorno

 

Bibliografia: G. Briganti, Viviano Codazzi, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento, I, Bergamo 1983, p. 695, n. 64; p. 733, figg. 1-2; L. Trezzani, Jan Miel, in G. Briganti, L. Trezzani, L. Laureati, I Bamboccianti, Roma 1982, p. 110, nota 12; R.D. Marshall, Viviano and Niccolò Codazzi and the Baroque Architectural Fantasy, Milano-Roma 1993, p. 167, VC 65 e p. 245, VC 126.

 

Corredatati da parere scritto di Giuliano Briganti

 

Facenti parte in origine di una serie più ampia, i dipinti qui offerti furono attribuiti a Viviano Codazzi da Giuliano Briganti in una comunicazione privata al proprietario. Già in quell’occasione Briganti sottolineava come la coppia di tele nascesse dalla collaborazione dell’artista bergamasco con due diversi pittori di figura, riconoscendo a Jan Miel la viaggiatrice a cavallo e i viandanti nei pressi dell’arco di Tito, e a Michelangelo Cerquozzi la lavandaia e il ragazzo in primo piano tra le rovine. La presenza del pittore fiammingo, partito definitivamente da Roma nel settembre del 1658 per trasferirsi a Torino, consente di datare i dipinti nel decennio intercorso tra il ritorno da Napoli del Codazzi dopo la rivolta di Masaniello nel 1648 e, per l’appunto, la partenza di Jan Miel.

Le tele qui offerte mostrano altresì la varietà di registri del pittore bergamasco, vedutista ante litteram nella raffigurazione relativamente fedele dell’arco di Tito visto da Campo Vaccino, e abile quadraturista nel capriccio architettonico composto da frammenti disparati dell’antichità classica riadattati nell’uso moderno. Numerosi, nel primo caso, i confronti con altre immagini dell’arco, talvolta comprendenti gli adiacenti Horti Farnesiani, ma raramente completati da figurine altrettanto felici. La coppia di tele era un tempo accompagnata da tre prospettive aperte su paesaggi marini.

 

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
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