Dipinti antichi

23 NOVEMBRE 2016

Dipinti antichi

Asta, 0189
FIRENZE
Palazzo Ramirez Montalvo
Borgo degli Albizi,26
Ore 16.30
Esposizione
FIRENZE
18-21 Novembre 2016
orario 10 – 13 / 14 – 19
Palazzo Ramirez-Montalvo
Borgo degli Albizi, 26
info@pandolfini.it
 
 
 
Stima   2000 € - 60000 €

Tutte le categorie

1 - 30  di 57
2

λ

Maestro del 1416

MADONNA CON BAMBINO IN TRONO

tempera su tavola, cm 163,5x50, ingombro totale cm 170x59

 

Provenienza

Christie's, Londra, 11 luglio 1980, lotto 92 (come Rossello di Jacopo Franchi)

 

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, Bologna, busta 0134; fasc. 4, scheda 10116, come "Maestro del 1416", Ravello Collezione privata

 

Bibliografia di riferimento

F. Zeri, Sul catalogo dei dipinti toscani del secolo XIV nelle Gallerie di Firenze, in "Gazette des Beaux-Arts", 71 (1968), pp. 66-70

 

Catalogata da Federico Zeri nella cartella della sua fototeca intitolata al Maestro del 1416, la tavola qui presentata sarebbe, secondo lo studioso, la parte centrale di un trittico i cui scomparti laterali, raffiguranti  San Giacomo Maggiore, San Michele Arcangelo, San Giovanni Battista e San Matteo Evangelista si trovano al Museo Czartoryski di Cracovia (sezione del Museo Nazionale). Secondo Zeri le tre tavole rappresentano l’ultima fase artistica del pittore che si concluse probabilmente entro il terzo decennio del XV secolo. Il nome dell’artista, formatosi probabilmente nella bottega di Lorenzo di Niccolò, deriva dall’unica opera datata (1416) che si trova alla Galleria dell’Accademia a Firenze, una Madonna con Bambino tra quattro Santi e nella parte apicale Cristo benedicente con due angeli.

Più recentemente Alessandro Tomei (comunicazione scritta al proprietario) ha attribuito il dipinto al Maestro della Madonna Strauss secondo alcuni identificabile con Ambrogio di Baldese, attivo a Firenze tra la fine del XVI e gli inizi del XV secolo.

 

 

 

Stima   € 10.000 / 15.000
Aggiudicazione  Registrazione
3

Agnolo di Polo de'Vetri

(Firenze 1470- Arezzo 1528

BUSTO DI CRISTO

1500-1510 ca.

busto in terracotta con tracce di policromia, cm 53x52x25

 

Bibliografia di riferimento

L. Lorenzi, Agnolo di Polo. Scultura in terracotta dipinta nella Firenze di fine Quattrocento, Ferrara, 1998.

L. Lorenzi, in Filippino Lippi. Un bellissimo ingegno, catalogo della mostra, Milano-Firenze, 2004, pp. 45, 68, 69-70.

 

L'esemplare in terracotta modellata e dipinta mostra l’effigie a mezzobusto del Nazareno (non comprensivo di braccia e mani) impostato per una visione frontale. Il volto modellato accuratamente delinea zigomi tondeggianti, naso regolare ma pronunciato, occhi languidamente espressivi, labbra disunite e semiaperte; il tutto incorniciato da leziosi baffi e da una barba a piccoli riccioli per tutta la zona mandibolare. La capigliatura è contrassegnata da una scriminatura centrale dalla quale scendono fluenti e vaporosi ciuffi morbidamente ritorti e adagiati sulle spalle. La tunica, che conserva tracce di cromia rossa, è drappeggiata e bordata di passamaneria in corrispondenza del collo, il manto un tempo azzurro e modellato di sbieco, fascia completamente la spalla sinistra e l’avambraccio destro.

L’iconografia rimanda all’età della predicazione savonaroliana antimedicea poiché il Cristo, come uomo nuovo, doveva essere esempio per la Firenze corrotta e paganeggiante; questo canone devozionale ebbe successo nel campo delle arti a partire dal 1498 fino a tutta la prima metà del secolo XVI, grazie a Filippino Lippi e Lorenzo di Credi – in ambito pittorico –, Andrea del Verrocchio, Agnolo di Polo, Giovanni della Robbia in quello scultoreo. I prototipi di riferimento risiedono nel gruppo bronzeo dell’Incredulità di San Tommaso (1466/67-1483) per la chiesa fiorentina di Orsanmichele e nell’immagine del Cristo Giudice (1480 ca.) del marmoreo Cenotafio Forteguerri nella cattedrale di Pistoia, entrambi di Andrea del Verrocchio, che probabilmente ebbe a ispirarsi a una tavoletta del 1438, con medesimo soggetto, unanimemente attribuita a Beato Angelico (Livorno, Museo Civico).

Questo busto in terracotta è sicuramente riferibile ad Agnolo di Polo, vissuto fra il 1470ca. e il 1528, allievo del Verrocchio e collaboratore di Giovanni della Robbia negli anni venti del Cinquecento, autore di una serie di busti-ritratto di Gesù il primo dei quali (documentato e risalente al 1498) conservato al Museo Civico di Pistoia. La particolarità dello scultore si manifesta soprattutto nella predilezione del soggetto riproposto per tutto l’arco della sua carriera senza apprezzabili variazioni, tanto che l’opera qui discussa risulta palmare perlomeno a tre esemplari di 50 cm di altezza, datati fra il 1510 e il 1520 circa, conservati rispettivamente al Museo della Fondazione Horne (Firenze), in collezione privata e New York (già collezione Corsini), proponenti la medesima soluzione figurativa e stilistica. Per i tre chi scrive ha avanzato il nome di Agnolo di Polo confermato dalle successive pubblicazioni scientifiche al riguardo (G. Gentilini, I Della Robbia..., Firenze, 1998).

La cifra dell’artista caratterizza inequivocabilmente questo Cristo, il quale, rispetto agli esemplari dianzi citati, presenta maggiori raffinatezze nel trattamento dei capelli a riccioli spiraliformi, nei baffi simmetrici e ben curati (tipici di un gentiluomo rinascimentale), nella bocca aperta dialogante, nello zigomo alto e ben sottolineato a creare l’avvallamento dell’epidermide in corrispondenza della parte bassa della guancia, modalità questa messa in atto dal Verrocchio in persona per il volto di Bartolomeo Colleoni nella scultura bronzea veneziana (1480-88); per quanto esposto propendiamo per una datazione entro il primo decennio del Cinquecento in stretta connessione stilistica e cronologica col busto pistoiese.

 

                                                                                                                                                                                              Lorenzo Lorenzi

 

Stima   € 20.000 / 30.000
Aggiudicazione  Registrazione
4

Ottavio Vannini                                              

(Firenze, 1585-1644)                                                      

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

SAN LUCA EVANGELISTA

coppia di dipinti ad olio su tela, cm 64x61                               

(2)                           

 

 

L'inattesa comparsa di questo pendant vale come risarcimento alla emorragia di opere travasate, in questi ultimi anni, dal catalogo del Vannini in quello del suo non scarso alter ego Antonio Ruggieri, l'allievo che per un decennio almeno si prese la briga di perpetuarne la maniera, peraltro sempre – con una sola eccezione – in lavori di propria invenzione (quando, va da sé, egli non si trovasse a dar fine alle pendenze – tante – del maestro defunto). Al proposito, vale la pena di evocare il caso recentissimo del bel Giaele e Sisara del Seminario Arcivescovile fiorentino – parte della celebre serie d'ottagoni lasciata in eredità alla compagnia di San Benedetto Bianco da Gabriello Zuti –, dipinto che Maria Cecilia Fabbri ha potuto passare in toto, su base documentaria, tra le spettanze del Ruggieri – anno 1648 –, confermando sospetti già adombrati circa una partecipazione di quest'ultimo a quella che correntemente passava per una prova estrema d'Ottavio (M. C. Fabbri, in Il Rigore e la Grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino, catalogo della mostra (Firenze), a cura di A. Grassi, M. Scipioni, G. Serafini, Livorno, 2015, p. 148).  

Per tornare ai due dipinti che qui si presentano, in origine ovali, sono da credere parte  di una serie di quattro – mancano all'appello Matteo e Marco –, divisa in epoca imprecisabile.

Le notizie in possesso degli attuali proprietari non consentono di ricostruirne la storia più antica, e valgono soprattutto ad accertare la provenienza fiorentina delle due tele, che sarebbe piaciuto trovare listate nell'inventario dei quadri di qualcuno dei più affezionati collezionisti del Vannini, confortate dalla compagnia di altre opere del maestro: in casa Galli Tassi ad esempio, o in casa Del Rosso (meglio però sarebbe dire, in quest'ultimo caso,  nelle 'case'  Del Rosso, poiché anche il ramo cadetto della famiglia poteva vantare non poche pitture d'Ottavio: E. Arnesano, Del Rosso (ramo cadetto), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, I, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto, 2015, pp. 237-259).

Neppure ci viene in aiuto il referto biografico del Baldinucci, piuttosto avaro, a parte nel caso – macroscopico – dei tanti cimenti per i Del Rosso di via Chiara, nell'elencare lavori del pittore che non fossero murali o grandi pale d'altare di destinazione pubblica. Solo il ricordo generico di "più tele d'Apostoli" eseguite per i Da Bagnano può avere un qualche valore, nel testimoniare della consuetudine del Vannini con le mezze figure in serie.

A consolarci di questa – temporanea, vogliam credere – assenza di dati, interviene però la qualità  davvero superba dei due ex ovali, tale da meritar loro la palma tra i quadri da stanza (o comunque di minor formato) licenziati da Ottavio dopo il 1630. Anzi, a voler essere più circostanziati, dopo il 1632, l'anno del San Girolamo di Monsummano, ovvero il dipinto che per primo – almeno tra i databili con sicurezza – mostra compiutamente quei tratti di accresciuto spessore materico e ‘prestezza' di condotta che sono la novità più evidente dell'inoltrata attività del pittore: tratti che senza intaccare la lucidità della visione pittorica del Vannini si mostrano abbinati ad un generale registro di muscolare grandeur.

I due nostri Evangelisti –  l'uno, Giovanni,  in posa ispirata, l'altro, Luca, concentrato nella scrittura – certificano al meglio una tale svolta, in virtù anche dell'intatta pelle pittorica. Essi paion cavati di peso dalla colossale Madonna e Santi del San Domenico di Pistoia, massimo cimento sacro del pittore nel bel mezzo del quarto decennio (e quasi il manifesto d'una via vanniniana ad un 'barocco' iperdisegnato; in particolare Giovanni ha qui un quasi perfetto corrispettivo nell'angelo che accompagna Santa Francesca Romana); o ancora dall'Ultima Cena di Colle Valdelsa,  licenziata nel 1636.

La soluzione di posa del San Giovanni si ritrova poi con incidenza singolare – e varianti più o meno significative – in questa stagione matura del pittore. Segno di come il  “tornare e ritornare sopra una cosa sola tante volte” che il Baldinucci riferisce al pittore, si possa estendere dal piano meramente tecnico su cui lo confina il biografo, a quello di una continua, studiosa rimeditazione di propri pensieri formali.

È così che il giovane santo si può leggere d'un fiato, anche nel tono sentimentale severamente accorato, col San Sebastiano del convento di San Marco a Firenze, riconosciuto al Vannini in tempi relativamente recenti (Francesca Baldassari, Carlo Dolci, Torino, 1995, p. 56), e con le altre versioni autografe di tale soggetto: quella ad esempio passata di recente presso Cambi (2 dicembre 2013, lotto 369, olio su tela, cm 89x73, come lavoro del lucchese Pietro Sigismondi).

 

Filippo Gheri

 

                                           

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
5

Attribuito a Pier Dandini

(Firenze 1646-1712)

LA MORTE DI CATONE

olio su tela, cm 143x194

 

 

Il dipinto qui presentato, raffigurante La Morte di Catone, mostra caratteri stilistici tali, uniti ad una freschezza nella pennellata, che permettono di accostare l’opera alla mano di Pier Dandini, uno tra i pittori più singolari e meritevoli di studio della seconda metà del Seicento fiorentino.

Il soggetto descrive il momento estremo di Catone Uticense, passato alla storia come campione delle virtù romane, fedele alla propria libertà politica e ai valori repubblicani di Roma.

Seguace della filosofia stoica e illustre oratore, Catone Uticense viene ricordato per rettitudine e fermezza ma soprattutto per essersi ribellato alla presa di potere di Cesare suo rivale, preferendo il suicidio all’arresto.

Catone trascorse le sue ultime ore leggendo alcuni passi del Fedone di Platone, il libro sulla sopravvivenza dell'anima dopo la morte, per poi trafiggersi il ventre con la spada esclamando: “Virtù, non sei che una parola”.

La scena descritta nel quadro è quella in cui alcune figure, accorse per medicare la ferita di Catone, assistono invece attoniti alla volontà dell’uomo di strapparsi le bende infierendo nervosamente contro i suoi visceri per arrivare prima alla morte.

La posa scorciata di Catone, la muscolatura possente resa con una pittura quasi sfrangiata, consentono di trovare punti di tangenza del nostro dipinto con opere note di Pier Dandini in alcune chiese fiorentine; in particolare con la figura del Battista nell’Assunzione della Vergine in Santa Verdiana e nella Decollazione di San Giovanni Battista in San Giovannino dei Cavalieri e con quella dell’infermo sanato nel Miracolo di San Vincenzo Ferreri in Santa Maria Novella.

Attento sempre alle novità artistiche, maturate attraverso i viaggi a Roma e Venezia, Pier Dandini fu sicuramente influenzato dalle opere di Luca Giordano da cui riprese il vigore e la prontezza esecutiva, mantenendo però un disegno, un tocco pittorico e una stravaganza tipicamente fiorentini.

Stima   € 12.000 / 15.000
8

Francesco Botti

(Firenze 1640-1711)

NATIVITA' DELLA VERGINE

olio su tela, cm 95x117

 

Bibliografia

S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento e Settecento. Biografie e opere, Firenze, 2009, I, pp. 92-93; II, p. 100, fig. 191 (Roma, collezione privata)

 

 

Non sono molte le notizie che riguardano questo interessante pittore, le più esaustive sono inserite nel Catalogo dei pittori fiorentini del Seicento di Sandro Bellesi, qui citato in bibliografia, dove troviamo pubblicata anche la foto del nostro quadro.

Figlio del pittore Giacinto Botti, Francesco fu battezzato da Francesco Furini il prete-pittore amico del padre; probabilmente il suo nome è stato dato proprio in onore di colui che aveva celebrato il battesimo.

Botti iniziò la sua attività di artista inizialmente presso la bottega del padre e in seguito in quella di Simone Pignoni, maestro che prese come modello tanto che alcune delle sue prime opere furono a lungo attribuite al Pignoni stesso. Questo aspetto sicuramente non giovò al Botti che venne offuscato dalla fama del maestro per molto tempo.

L’inizio di una sua originale carriera al di fuori dell’atelier del Pignoni avvenne probabilmente intorno al 1678 anno in cui fu immatricolato presso l’Accademia del Disegno.

Il suo linguaggio stilistico, come è evidente anche nella nostra tela, risente di un intreccio lessicale in cui si leggono derivazioni dallo sfumato morbido del Furini, dalle accensioni luministiche del Pignoni e dalle opere tarde di Sebastiano Mazzoni, che studiò probabilmente durante un suo soggiorno a Venezia.

La Natività di Maria qui proposta va inserita in una fase matura dell’attività di Botti, quando iniziò a dedicarsi alle pale d’altare e ai soggetti religiosi. In essa si nota un colore steso per velature sottili tanto da ottenere effetti di trasparenza quasi lirici, soprattutto nelle delicate alternanze del rosa, dell’ocra e del blu.

 

Stima   € 10.000 / 15.000
16

λ
Scuola fiorentina, prima metà del sec. XVI

CROCEFISSIONE

olio su tavola, cm 83x51

al retro, il numero 87 a vernice bianca

 

Sconosciuto al mercato dell’arte come agli studi specialistici, il dipinto che qui si presenta per la prima volta si iscrive con ogni evidenza in quel panorama fiorentino del primo quarto del Cinquecento messo a fuoco da Federico Zeri nei suoi storici interventi sugli "Eccentrici" pubblicati nel 1962 (Eccentrici fiorentini I e II, in "Bollettino d’Arte" 1962, pp. 216-236; 314-326).

Accomunati da sottili ed estrose divergenze dalla norma classica variamente declinate, come dalla predilezione per vivaci narrazione a piccole figure in paesaggi fantastici, questi allievi "irregolari" di Bachiacca e del Franciabigio costituirono una variante minore della Maniera fiorentina, talvolta sfiorandone i protagonisti, e in particolare Rosso Fiorentino, o artisti meno estremi nelle loro propensioni anticlassiche, come Giovanni Antonio Sogliani e Domenico Puligo.

Oltre alla rilettura capricciosa e bizzarra dei modelli del primo Cinquecento che caratterizza le anatomie stravolte dei ladroni nella nostra tavola, è anche l’intonazione nordica del paesaggio che alla Crocefissione fa da sfondo a orientare l’indagine in direzione degli "eccentrici" individuati da Federico Zeri.

Tra questi, Antonio di Donnino del Mazziere (Firenze 1497-1547) ricordato da Vasari tra gli allievi di Franciabigio, è stato riconosciuto come autore di un gruppo di fogli conservati al Gabinetto dei Disegni degli Uffizi, precedentemente attribuiti da Zeri al Maestro dei Paesaggi Kress, Giovanni di Lorenzo Larciani; a questi si è aggiunto un disegno al British Museum, recante una scritta col nome dell’artista (per alcuni esempi si veda almeno M. Sframeli, in L’officina della Maniera. Catalogo della mostra, Firenze 1996, pp. 272-75).

Sebbene mutilo e smembrato, il corpus degli Uffizi, vero e proprio taccuino di studio, riproduce a sanguigna una serie di brani tratti dalla serie di incisioni di Dürer, la Piccola Passione e la Vita della Vergine, con numerosi motivi paesistici che ritroviamo nelle tavole con episodi ovidiani concordemente restituite al catalogo di Antonio di Donnino e di cui anche la nostra tavola serba il ricordo.

Gli "eccentrici fiorentini" sono stati altresì protagonisti di una sezione della mostra dedicata nel 2002 a Domenico Puligo (Domenico Puligo (1492-1527). Un protagonista dimenticato della pittura fiorentina. Firenze, Palazzo Pitti, 27 settembre 2002-1 maggio 2003). Tra le opere esposte, la tavola di Antonio di Donnino conservata all’Accademia di Firenze (dall’abbazia di Vallombrosa) e raffigurante il Martirio dei Diecimila presenta suggestive consonanze col nostro dipinto, in particolare nel curioso motivo dei tronchi d’albero non piallati che compongono le croci. Tra gli altri possibili confronti, un S. Sebastiano su tavola in asta a Londra da Christie’s nel 1987 (11 dicembre, lotto 99).

 

 

 

Stima   € 18.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
19

Livio Mehus

(Oudenaarde, Fiandra 1627 - Firenze 1691)

MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA

olio su tela, cm 97,5x85

 

Il dipinto è corredato da parere scritto di Sandro Bellesi

 

Bibliografia di riferimento

M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in “Paragone”, 1975, 301, p. 60

M. Gregori, Livio Mehus o la sconfitta del dissenso, in “Paradigma”, 1978, p. 206, nota 92, e fig. 103

M Chiarini, Livio Mehus, Un pittore barocco alla corte dei Medici (1627-1691). Catalogo della mostra, a cura di Marco Chiarini, Firenze, 2000

 

L'interessante tela qui proposta, raffigurante il Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, presenta caratteristiche tali, oltre alla particolarità con cui sono condotte le figure, da poter essere assegnata con sicurezza al pittore olandese Livio Mehus.

Sono diversi gli elementi stilistici che consentono di individuare la sua mano: dall'influenza vaporosa di Pietro da Cortona, agli echi della pittura fiamminga coeva, fino alle reminiscenze correggesche.

Il nostro dipinto, come segnala Sandro Bellesi, è la redazione più accurata di una composizione già nota di Mehus che si trovava a Bergamo, presso Previtali e che è pubblicata dalla Gregori nell'articolo Livio Mehus o la sconfitta del dissenso alla figura 103. È ancora Mina Gregori a riportare in nota la presenza sul mercato fiorentino di un'altra versione analoga ma mai riprodotta (che potrebbe coincidere con la nostra) e a indicare come la composizione del Mehus sia in rapporto con un'opera del Volterrano di analogo soggetto, dipinta per Vittoria della Rovere nel 1661. Il dipinto di Volterrano, oggi di proprietà della Banca Popolare di Vicenza, ebbe grande successo grazie al fascino di una pittura morbida e delicata che deve aver influenzato anche Livio Mehus; quest'ultimo, proprio con Volterrano e Pier Dandini, era considerato già alla metà del secolo uno dei più importanti esponenti della pittura barocca fiorentina. Dal 1684 è documentato anche come Maestro dell'Accademia del Disegno insieme a questi due artisti.

La cifra stilistica con effetti nebbiosi e foschi per lo sfondo, ma con improvvise accensioni luministiche che fanno risaltare la tenerezza dell'incarnato della santa egiziana e del Bambino, ci portano a datare il quadro a una fase tarda dell'attività del Mehus, intorno agli anni Settanta-Ottanta del Seicento, quando sono più palpabili le influenze della lezione genovese del Grechetto. 

Nato nelle Fiandre nel 1627, Livio Mehus si trasferì con la famiglia a Milano quando aveva circa dieci anni, e iniziò lì i primi studi presso l'ignoto battaglista Carlo fiammingo. Le vicende turbolente della sua gioventù sono narrate dal Baldinucci (1681-1728, ed. 1845-1847, V, 1846, pp. 523-538) che racconta come a quindici anni decidesse di avviarsi a piedi verso Roma per studiare gli artisti che lì lavoravano. Arrivato però a Pistoia fu segnalato al principe Mattias de' Medici, fratello del granduca Ferdinando II, che gli permise di completare i suoi studi a Firenze presso Pietro da Cortona che in quel tempo - anni Quaranta del Seicento - stava completando la decorazione dei soffitti per le sale di Palazzo Pitti.

Il desiderio di apprendere nuovi linguaggi pittorici portò Mehus a intraprendere altri viaggi in Emilia e in Veneto oltre che a Roma, dove si recò nel 1650 insieme all'amico Stefano Della Bella; qui lavoravano ancora Claude Lorrain, Salvator Rosa (già cononsciuto a Firenze), Pietro Testa, artisti importanti per comprendere l'articolata miscellanea culturale che caratterizza la sua pittura.

Il percorso artistico del Mehus si è contraddistinto, fino alla fine del suo operato, per immagini percorse da emozioni mistiche e sublimi a cui possiamo accostare anche il nostro Matrimonio di Santa Caterina. Il dipinto spicca infatti per il forte pathos che trapela soprattutto dalla figura di Caterina chiusa nella sua silenziosa estasi mentre riceve da Gesù, secondo quanto tramandato nell'agiografia medioevale, l'anello nuziale simbolo dell'unione della giovane a Dio.

Come Stefano della Bella, e in seguito Stefano Magnasco, Mehus rappresentò, nel dissolvimento materico delle forme, l'aspetto del barocco meno sfarzoso e trionfale, rielaborando piuttosto, in forme del tutto originali, quanto imparato presso Pietro da Cortona. Fu per questo suo aspetto molto apprezzato dal Gran Principe Ferdinando che collezionò ben quarantacinque quadri del pittore, la metà di questi ancora conservati (si veda M. Chiarini, I quadri della collezione del Gran Principe Ferdinando II, in "Paragone", 1975, 301, p. 60).

 

Stima   € 10.000 / 15.000
21

Giovanni Bilivert

(Firenze 1585-1644)

I PROGENITORI

olio su tela, cm 92,5x74

 

Bibliografia di riferimento

R. Contini, Bilivert, saggio di ricostruzione, Firenze 1985, p. 126 e tav. XXI

 

 

L'inedita tela qui presentata raffigurante Adamo ed Eva in un Eden rigoglioso, che si intravede in alto a sinistra nella composizione, si può ricondurre al pittore Giovanni Bilivert, personalità artistica tra le più importanti a Firenze alla metà del Seicento, in virtù dei suoi caratteri stilistici, la conduzione pittorica e la peculiarità descrittiva delle figure.

I progenitori sono colti nell’abbraccio che precede la loro caduta: Eva seduce il giovane Adamo con un bacio malizioso, incantandolo con un volto di candida bellezza che contrasta invece con il corpo dalle sembianze serpentine.

L’albero della conoscenza e il corpo della donna sembrano fondersi in un’unica entità, solo il piccolo angelo cerca di salvare Adamo, aggrappandosi alla sua veste, dal compimento del peccato originale. Ma il volto molle del giovane non lascia dubbi sulla sua scelta, e l’attenzione cade così sulla mela che tiene nella mano sinistra.

Questa rara interpretazione dei Progenitori trova uno stretto riferimento nel bellissimo disegno di Bilivert - inv. 9654 F del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi - che presenta la stessa composizione con le due figure al centro in atto di abbracciarsi e l’inquieto angioletto in basso a sinistra.

Il disegno profilato a penna, che si distingue per il pittoricismo dato dall’uso di carboncino, sanguigna, acquerello nero e lumeggiature di biacca, ci consente di comprendere meglio il soggetto del dipinto in quanto, nella parte destra della scena, è ben visibile il serpente arrotolato intorno all’albero; la sua coda termina con il consueto volto di donna proprio vicino al frutto del peccato.

Giovanni Bilivert, figlio dell’orafo olandese al servizio dei Medici Jaques Bijlevelt, fu allievo del Cigoli con cui lavorò a Roma tra il 1604 e il 1608.

Immatricolato nel 1612 presso l’Accademia del Disegno, almeno fino al 1621 rimase sotto la protezione del granduca Cosimo II che lo aveva nominato disegnatore nell'officina granducale delle pietre dure. Alla sua scuola si formarono pittori del calibro di Furini, Fidani, Coccapani, Baccio del Bianco che ebbero con il maestro un rapporto di profonda stima date le biografie benevole che scrissero su di lui (conosciamo infatti tre biografie su di lui di cui una redatta da Filippo Baldinicci e le altre dagli allievi Orazio Fidani e Francesco Bianchi).

Giovanni Bilivert fu essenzialmente pittore di soggetti religiosi anche se non trascurò di dipingere quadri da camera con temi profani che piacevano ai suoi clienti aristocratici.

Dagli anni Trenta del Seicento la sua pittura si fa più delicata e sensuale complice senz'altro l'influenza di Francesco Furini; proprio a questa fase possiamo far risalire l'opera qui offerta che presenta infatti uno stile morbido e fiorito; si creano intriganti effetti di penombra che rendono la tela un lavoro di affabile dolcezza.

Ringraziamo Roberto Contini per aver confermato l’attribuzione sulla base di fotografie.

 

 

 

 

Stima   € 15.000 / 20.000
Aggiudicazione  Registrazione
22

λ

Francesco Albotto

(Venezia 1721 - 1757)

IL CANAL GRANDE ALLA CONFLUENZA DEL RIO DI CANNAREGIO

olio su tela, cm 62x97

sul telaio, tre etichette frammentarie a stampa e a inchiostro riportano l’attribuzione a Marieschi e la presenza in collezioni inglesi nel 1927 e nel 1961

 

Provenienza

Sotheby's, Londra, 10 dicembre 1986

 

Bibliografia

R. Toledano, Michele Marieschi: l’opera completa, Milano 1988, p. 105, V 28,5 (come Michele Marieschi)

 

 

Presa dalla riva destra del Canal Grande, la veduta raffigura l’ingresso al rio di Cannaregio e palazzo Labia sulle omonime Fondamenta: l'inquadratura è basata su una nota incisione di Michele Marieschi pubblicata nel 1741 e sulla veduta dipinta dallo stesso artista veneziano conservata a Berlino, Gemaeldegalerie (GK n. 5680) e replicata in altre versioni autografe in collezione privata inglese e nella raccolta del Conte di Malmesbury, quest'ultima del 1742 (cfr. F. Montecuccoli degli Erri – F. Pedrocco, Michele Marieschi. La vita, l’ambiente, l’opera, Milano 1999, pp. 408-9, n. 177; pp. 415-16, n. 185). Da qui, con ogni evidenza, l’antica attribuzione al Marieschi con cui il dipinto qui offerto è stato ripetutamente catalogato.

Confronti ancora più pertinenti, soprattutto per quel che riguarda le figure in primo piano, stilisticamente diverse da quelle del maestro, si devono però istituire con una veduta di uguale soggetto, peraltro identica alla nostra per dimensioni, conservata a Napoli nel museo di Capodimonte e ormai generalmente riconosciuta come opera di Francesco Albotto. Parte di una serie di dodici vedute di Venezia, la tela napoletana era documentata fin dalla metà del Settecento nella collezione reale con un’attribuzione a Canaletto, poi mutata a favore di Michele Marieschi. Questa attribuzione fu messa in dubbio per la prima volta da Antonio Morassi nel 1966, ma furono i numerosi studi di Mario Manzelli nel corso degli anni Ottanta, culminati nella monografia del 1991 (Michele Marieschi e il suo alter ego Francesco Albotto, II edizione, Venezia 2002) e più recentemente quelli di Dario Succi, a restituire la serie napoletana a Francesco Albotto, allievo di Marieschi ed erede della sua bottega alla morte del maestro nel gennaio 1743.

La ricostruzione del catalogo di Albotto, comprendente vedute di Venezia e capricci di rovine e paesaggio, era stata avviata nel 1960 da Rodolfo Pallucchini, sulla base di una veduta del Molo e del bacino di San Marco iscritta al retro col nome del pittore completo del suo indirizzo veneziano: un dato che per la prima volta consentiva di restituire l’immagine di un personaggio noto fino a quel momento solo attraverso il referto delle fonti coeve, che appunto lo ricordavano come allievo del Marieschi e successore nell’attività della bottega, avendone sposato la vedova.

Fedele alla "veduta per angolo" proposta dal maestro, Albotto ne differisce per una cromìa più chiara e luminosa e per figure più esili e sommarie, un dato che facilmente consente di trasferire al suo catalogo anche il dipinto qui offerto. Una sua datazione dopo il 1742 è suggerita dalla presenza della statua di S. Giovanni Nepomuceno, opera dello scultore Giovanni Marchiori eretta in quell’anno sulle fondamenta del canale, presente solo nell’ultima versione di questa veduta dipinta da Marieschi, e invece in quasi tutte quelle dell’allievo.

 

 

Stima   € 50.000 / 70.000
Aggiudicazione  Registrazione
23

Vincenzo Martinelli

(Bologna 1737 - 1807)

e Nicola Bertuzzi

(Ancona 1710 - 1777)

PAESAGGIO LACUSTRE CON BARCHE E UNA PASTORELLA

olio su tela, cm 79x101

 

Le quattro tele qui di seguito singolarmente presentate, in serie tra loro, costituiscono un’interessante aggiunta al catalogo del paesista Vincenzo Martinelli e in particolare alla sua collaborazione con Nicola Bertuzzi, detto l’Anconetano.

Sono in effetti gli studi dedicati a quest’ultimo, pittore di figura a olio e a fresco per le chiese e i palazzi di Bologna, ad aver individuato la sua partecipazione come figurista nelle tempere, e più raramente negli olii, dei suoi colleghi bolognesi specializzati nella pittura di paesaggio.

La monografia pubblicata da Guido Zucchini nel 1955 (Il pittore Nicola Bertuzzi detto l'Anconitano 1710-1777) pubblica infatti per la prima volta la bellissima serie di tempere eseguite nel 1764 insieme a Carlo Lodi nella villa dei marchesi Boschi detta "La Sampiera", ora nelle raccolte della Cassa di Risparmio di Bologna, e quella di poco successiva per il casino Marsigli, dove le figurine di Bertuzzi animano invece i paesi di Vincenzo Martinelli, nipote di Carlo Lodi e suo successore in questa specialità.

Sebbene dipinti a tempera, sono appunto questi ultimi a presentare le più strette affinità compositive con la nostra serie, mentre le figurine di donne, bambini, pescatori e sfaccendati di ogni sorta nate dalla sbrigliata fantasia del Bertuzzi si ripetono con caratteri molto simili in entrambe le serie citate e in altre ancora. Non è forse un caso, ricordando le strettissime tangenze di Bertuzzi "falso veneziano" (come lo chiamò Ugo Ruggeri nel 1982) con la pittura veneta e in particolare con Giuseppe Nogari, che nella raccolta di provenienza le nostre tele fossero appunto credute veneziane.

 

 

Stima   € 8.000 / 12.000
Aggiudicazione  Registrazione
28

λ

Scuola fiorentina, XVII secolo

LA CACCIA DEL CARDINALE GIOVAN CARLO DE’ MEDICI A CAFAGGIOLO, 1641-1644  

olio su tela, cm 164,5x313,5

sull'etichetta applicata alla cornice si legge: "Sc. Fiorentina del sec. XVII/Cacciata data a Cafaggiolo al card. Corsi"

 

Provenienza

Già collezione Corsi, Firenze

Collezione privata

 

Bibliografia

G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Firenze, 1937, p. 18 e p. 67, fig. 28

D. Pegazzano, Corsi (parte prima), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa), 2015, pp. 97-99, figg. 7-8

 

 

Il grande dipinto qui presentato mette in scena la caccia del cardinal Giovan Carlo de’ Medici presso la Villa Medicea di Cafaggiolo detta anche Castello di Cafaggiolo.

Il cardinale dei Medici è raffigurato al centro della composizione seguito dai battitori e da un corteo di nobili anch’essi a cavallo; sul lato sinistro invece, girato verso lo spettatore, è ben riconoscibile il committente dell’opera, monsignor Lorenzo Corsi (1601-1656) figlio di Jacopo e Laura Corsini, che fu protonotario apostolico a Roma dal 1626 al 1630 e vice legato ad Avignone dal 1645 al 1653.

Il quadro si presenta come chiara testimonianza del forte legame che nei primi anni Quaranta del Seicento intercorreva tra Lorenzo Corsi e Giovan Carlo dei Medici. I due personaggi condividevano infatti la passione per il collezionismo e il mecenatismo come per il teatro, la musica e i giardini, secondo quanto richiesto ad esponenti delle famiglie aristocratiche, per giunta insigniti delle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica.

Ulteriore testimonianza di questo legame è dato anche dalla presenza di Lorenzo Corsi come sovrintendete ai lavori per il giardino del Casino di Giovan Carlo in via della Scala.

Monsignor Lorenzo si distinse per i suoi ampli orizzonti culturali che lo portarono ad interessarsi a diversi generi pittorici come la ritrattistica, la natura morta e le allegorie morali più che alla pittura sacra. Un tipo di gusto e di inclinazione che aveva maturato sicuramente durante il periodo romano ma anche per l’influenza della famiglia granducale: non è casuale infatti la scelta di acquistare o commissionare opere a determinati artisti fiorentini come Giovanni Martinelli, Mario Balassi, Francesco Furini e Salvator Rosa che gravitavano intorno ai Medici e a Giovan Carlo in particolare.

La collezione di famiglia venne così incrementata grazie alla spiccata sensibilità di Lorenzo Corsi che continuò quanto già iniziato con lungimiranza dal padre Jacopo alla fine del Cinquecento e dallo zio Bardo, ovvero l'accrescimento della quadreria e la valorizzazione degli spazi del palazzo di città (Palazzo Tornabuoni Corsi) e della villa di Sesto.

La caccia del cardinale è ricordata nell'inventario della nobile famiglia di appartenenza del 1747 (si veda in G. Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, citato alla pagina 18 e riprodotto a pagina 67 fig. 28); la ritroviamo poi pubblicata da Donatella Pegazzano nell’ambito del suo studio sulla famiglia Corsi, qui citato in bibliografia.

In base ai documenti reperiti di committenza e pagamento, che iniziano nel novembre del 1641 e continuano fino al marzo del 1643, la studiosa restituisce anche un nome agli autori del quadro: Giovan Battista Stefanini, detto Battistone e Francesco Arrigucci; il primo pittore si occupò della realizzazione delle figure mentre il secondo del paesaggio; l’opera risulta terminata nel 1644 anche se nel 1646 lo Stefanini non l’aveva ancora consegnata a causa del mancato pagamento, complice probabilmente l’assenza da Firenze di Lorenzo Corsi  che era partito già da un anno ad Avignone per esercitare la vice legatura, anticamera al cardinalato.

Questa tipologia di opere che hanno per soggetto una veduta celebrativa rientra in un genere che ebbe molto successo dal Cinque al Settecento e che trova un illustre precedente nelle quattordici lunette raffiguranti le ville medicee dipinte da Giusto Utens tra il 1599 e il 1602. Si tratta di eleganti vedute delle ville di proprietà della famiglia Medici caratterizzate da una grande precisione descrittiva; oltre a costituire una preziosa testimonianza sull’aspetto originario di questi edifici, esse formano anche un vero e proprio inventario dei possedimenti granducali.

La scelta della villa di Cafaggiolo come sfondo per la caccia del nostro dipinto non è casuale: infatti dal 1537, quando divenne di proprietà del duca Cosimo I, vi venne realizzato un "Barco" murato ossia una riserva di caccia dove animali rari potevano girare liberamente.

L'utilizzo della villa come casino di caccia fu continuato anche dai figli di Cosimo, Francesco I e Ferdinando I, che vi soggiornarono soprattutto nei mesi autunnali.

La villa faceva parte dei possedimenti medicei già dalla metà del Quattrocento quando fu ristrutturata da Michelozzo su incarico di Cosimo il Vecchio.

Abitata generalmente in estate, fu un luogo assai amato anche da Lorenzo de' Medici che vi ospitò la sua corte di umanisti; secondo la tradizione compose proprio lì il poemetto La Nencia da Barberino.


Stima   € 60.000 / 80.000
Aggiudicazione  Registrazione
30

Bottega di Pietro da Cortona, sec. XVII

MADONNA COL BAMBINO E SANTA MARTINA

olio su tela, cm 124,5x147

sul telaio, etichette "399" e "B.K.H. Grebruder Heilhon n. 892/1"

 

Provenienza

Pandolfini, Firenze, 22 aprile 2013, lotto 169;

Collezione privata, Roma

 

L'inedito dipinto qui esaminato costituisce una versione originale e, per quanto risulta, non replicata di uno dei temi più cari a Pietro da Cortona, la cui devozione a Santa Martina fu all’origine di numerosi dipinti e sculture e, soprattutto, della chiesa dedicata ai SS. Luca e Martina alle pendici del Campidoglio.

Alla santa Pietro dedicò infatti una serie di pale che ne raffiguravano il martirio, la principale eseguita per la chiesa di San Francesco a Siena, e almeno due diverse composizioni dove la fanciulla è invece nell’atto di ricevere da Gesù Bambino, tra le braccia della Madre, il giglio o la palma, simboli di purezza e del martirio subito.

La più celebre di queste composizioni, più volte incisa, è senza dubbio la tela nel museo del Louvre (G. Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca. Seconda edizione, Firenze 1982, fig. 219), replicata in un dipinto di raccolta privata (ibidem, tavola 285, n. 12); il soggetto è ripreso con varianti nella composizione in deposito dal Louvre al museo di Rennes (ibidem, fig. 244) dove i protagonisti compaiono a tre quarti di figura. Di entrambe sono note diverse repliche, per lo più eseguite con l’intervento più o meno importante degli allievi. La bottega assunse peraltro un ruolo sempre più significativo nel corso degli ultimi due decenni di attività del maestro, che si riservò in misura crescente la semplice fase progettuale, ed eventualmente un primo abbozzo delle opere commissionate, affidando in gran parte agli allievi la realizzazione delle sue invenzioni (cfr. il recente intervento di Giovan Battista Fidanza, A rediscovered altarpiece by Pietro da Cortona and insights into the collaboration between the master and his pupils, in "The Burlington Magazine" CLV, 2013, 1325, pp. 541-45).

L’inventario dello studio del Berrettini dopo la morte avvenuta nel 1669 evidenzia peraltro una serie di opere non finite e consegnate agli allievi affinché le completassero: come risulta dai documenti furono in particolare Ciro Ferri, Lazzaro Baldi e Lorenzo Berrettini a portare a termine i "pensieri” del maestro.

Come rivelano le articolate ricerche di Donatella Sparti (tra cui: La casa di Pietro da Cortona: architettura, accademia, atelier, officina, Roma 1997) tra i “Quadri cominciati nello studio, di diversi" (proprietari) non mancava ad esempio una "Santa Martina in piccolo principiata, del Sig. Girolamo Dacci, restituita", e una "Santa Martina sbozzata", poi venduta a Paolo Falconieri.

Tra gli allievi di Pietro fu probabilmente Ciro Ferri a dedicarsi, assai più dei colleghi, al tema prediletto dal maestro. A lui si deve ad esempio una paletta ora nella sacrestia della chiesa di San Marco a Roma. L’inventario di suo figlio Pietro Ferri, morto nel 1750, pubblicato da Cristina Paoluzzi ricorda, tra gli altri, una "Madonna col Bambino e Santa Martina" senza indicazione di autore; una "Madonna con Santa Martina copia da Pietro da Cortona fatta da Ciro" (forse la stessa legata al nipote Carlo Catucci e stimata 25 scudi); e ancora una "Madonna con Bambino e Santa Martina di Pietro da testa, scudi 20", insieme ad altre raffigurazioni della santa, originali o copie e di misure diverse, alcune non finite (Un inventario inedito per la quadreria di Ciro Ferri, in Cultura nell’età delle Legazioni, Firenze 2005, pp. 537-87)

È dunque probabile che il nostro dipinto, in cui la sintetica ampiezza delle figure richiama appunto le opere tarde della bottega cortonesca, e che appare completo in tutte le sue parti ma non del tutto finito nelle ultime velature (in particolare nella figura della giovane martire inginocchiata) si celi appunto tra le composizioni imperfette completate da uno dei più stretti collaboratori del Berrettini, forse per l’appunto Ciro Ferri, il più vicino al maestro e senza dubbio il più dotato.

 

Stima   € 20.000 / 25.000
Aggiudicazione  Registrazione
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